Poesie & Aufführungen

Vincenzo Bellini – Norma

Vincenzo Bellini

Norma

Tragedia lirica in due atti

Personaggi

Pollione, Proconsole di Roma nelle Gallie (Tenore)

Oroveso, Capo dei Druidi (Basso)

Norma, Druidessa, figlia di Oroveso (Soprano)

Adalgisa, Giovane Ministra del tempio di Irminsul (Soprano)

Clotilde, Confidente di Norma (Mezzo-Soprano)

Flavio, Amico di Pollione (Tenore)

Due fanciulli, figli di Norma e di Pollione

Cori e comparse

Druidi – Bardi – Eubagi – Sacerdo

Tesse – Guerrieri e soldati galli

La scena è nelle Gallie, nella foresta sacra e nel tempio di Irminsul.

Atto primo

Scena prima

Foresta sacra de’ Druidi.

In mezzo, la quercia d’Irminsul, al pie’ della quale vedesi la pietra druidica che serve d’altare. Colli in distanza sparsi di selve. È notte; lontani fuochi trapelano dai boschi.

Al suono d’una marcia religiosa sfilano le schiere de’ Galli, indi la processione de’ Druidi. Per ultimo Oroveso coi maggiori Sacerdoti.

OROVESO.

Ite sul colle, o Druidi;

Ite a spiar ne’ cieli

Quando il suo disco argenteo

La nuova Luna sveli;

Ed il primier sorriso

Del verginal suo viso

Tre volte annunzi il mistico

Bronzo sacerdotal.

DRUIDI.

Il sacro vischio a mietere

Norma verrà?

OROVESO.

Sì, Norma.

DRUIDI.

Dell’aura tua profetica,

Terribil Dio, l’informa;

Sensi, o Irminsul, le ispira

D’odio ai Romani e d’ira.

Sensi che questa infrangano

Pace per noi mortal.

OROVESO.

Sì: parlerà terribile

Da queste guercie antiche;

Sgombre farà le Gallie

Dall’aquile nemiche;

E del suo scudo il suono,

Pari al fragor del tuono,

Nella città dei Cesari

Tremendo echeggerà.

TUTTI.

Luna, ti affretta a sorgere!

Norma all’altar verrà.

Si allontanano tutti e si perdono nella foresta; di quando in quando si odono ancora le loro voci risuonare in lontananza. Escono quindi da un lato Flavio e Pollione guardinghi e ravvolti nelle loro toghe.

Scena seconda

Pollione e Flavio.

POLLIONE.

Svanîr le voci! e dell’orrenda selva

Libero è il varco.

FLAVIO.

In quella selva è morte;

Norma tel disse.

POLLIONE.

Proferisti un nome

Che il cor m’agghiaccia.

FLAVIO.

Oh! che di’ tu! l’amante,

La madre de’ tuoi figli! …

POLLIONE.

A me non puoi

Far tu rampogna, ch’io mertar non senta;

Ma nel mio core è spenta

La prima fiamma, e un Dio la spense, un Dio

Nemico al mio riposo; al pie’ mi veggo

L’abisso aperto, e in lui m’avvento io stesso.

FLAVIO.

Altra ameresti tu?

POLLIONE.

Parla sommesso.

Un’altra, sì … Adalgisa …

Tu la vedrai … fior d’innocenza e riso,

Di candore e d’amor. Ministra al tempio

Di questo Dio di sangue, ella v’appare

Come raggio di stella in ciel turbato.

FLAVIO.

Misero amico! e amato

Sei tu del pari?

POLLIONE.

Io n’ho fidanza.

FLAVIO.

E l’ira

Non temi tu di Norma?

POLLIONE.

Atroce, orrenda

Me la presenta il mio rimorso estremo …

Un sogno …

FLAVIO.

Ah! narra.

POLLIONE.

In rammentarlo io tremo.

Meco all’altar di Venere

Era Adalgisa in Roma,

Cinta di bende candide,

Sparsa di fior la chioma;

Udia d’Imene i cantici,

Vedea fumar gl’incensi,

Eran rapiti i sensi

Di voluttade e amor.

Quando fra noi terribile

Viene a locarsi un’ombra;

L’ampio mantel druidico

Come un vapor l’ingombra.

Cade sull’ara il folgore,

D’un vel si copre il giorno;

Muto si spande intorno

Un sepolcrale orror.

Più l’adorata vergine

Io non mi trovo accanto;

N’odo da lunge un gemito,

Misto de’ figli al pianto …

Ed una voce orribile

Echeggia in fondo al tempio:

Norma così fa scempio

D’amante traditor.

Squilla il sacro bronzo.

FLAVIO.

Odi? … I suoi riti a compiere

Norma dal tempio move.

VOCI lontane.

Sorta è la luna, o Druidi;

Ite, profani, altrove.

FLAVIO.

Vieni: fuggiam … sorprendere,

Scoprire alcun ti può.

POLLIONE.

Traman congiure i barbari …

Ma io li preverrò …

Me protegge, me difende

Un poter maggior di loro;

È il pensier di lei che adoro,

È l’amor che m’infiammò.

Di quel Dio che a me contende

Quella vergine celeste

Arderò le rie foreste,

L’empio altare abbatterò.

Partono rapidamente.

Scena terza

Druidi dal fondo, Sacerdotesse, Guerrieri, Bardi, Eubagi, Sacrificatori, e in mezzo a tutti Oroveso.

CORO GENERALE.

Norma viene: le cinge la chioma

La verbena ai misteri sacrata;

In sua man come luna falcata

L’aurea falce diffonde splendor.

Ella viene; e la stella di Roma

Sbigottita si copre d’un velo;

Irminsul corre i campi del cielo

Qual cometa foriera d’orror.

Scena quarta

Norma in mezzo alle sue ministre. Ha sciolti i capelli, la fronte circondata di una corona di verbena, ed armata la mano d’una falce d’oro. Si colloca sulla pietra druidica, e volge gli occhi d’intorno come ispirata. Tutti fanno silenzio.

NORMA.

Sedizïose voci,

Voci di guerra avvi chi alzar si attenta

Presso all’ara del Dio? V’ha chi presume

Dettar responsi alla veggente Norma

E di Roma affrettar il fato arcano?

Ei non dipende da potere umano.

OROVESO.

E fino a quando oppressi

Ne vorrai tu? Contaminate assai

Non fur le patrie selve e i templi aviti

Dall’aquile latine? Omai di Brenno

Ozïosa non può starsi la spada.

TUTTI.

Si brandisca una volta.

NORMA.

E infranta cada.

Infranta, sì, se alcun di voi snudarla

Anzi tempo pretende. Ancor non sono

Della nostra vendetta i dì maturi.

Delle sicambre scuri

Sono i pili romani ancor più forti.

TUTTI.

E che ti annunzia il Dio? Parla: quai sorti?

NORMA.

Io nei volumi arcani

Leggo del cielo: in pagine di morte

Della superba Roma è scritto il nome …

Ella un giorno morrà; ma non per voi.

Morrà pei vizi suoi,

Qual consunta morrà. L’ora aspettate,

L’ora fatal che compia il gran decreto.

Pace v’intimo … e il sacro vischio io mieto.

Falcia il vischio; le Sacerdotesse lo raccolgono in canestri di vimini. Norma si avanza e stende le braccia al cielo. La luna splende in tutta la sua luce. Tutti si prostrano.

Preghiera.

NORMA E MINISTRE.

Casta Diva, che inargenti

Queste sacre antiche piante,

A noi volgi il bel sembiante

Senza nube e senza vel.

Tempra tu de’ cori ardenti,

Tempra ancor lo zelo audace,

Spargi in terra quella pace

Che regnar tu fai nel ciel.

TUTTI.

A noi volgi il bel sembiante

Senza nube e senza vel.

NORMA.

Fine al rito, e il sacro bosco

Sia disgombro dai profani.

Quando il Nume irato e fosco

Chiegga il sangue dei Romani,

Dal druïdico delubro

La mia voce tuonerà.

TUTTI.

Tuoni; e alcun del popol empio

Non isfugga al giusto scempio,

E primier da noi percosso

Il Proconsole cadrà.

NORMA.

Sì, cadrà … punirlo io posso …

(Ma punirlo il cor non sa.

Ah! bello a me ritorna

Del fido amor primiero,

E contro il mondo intero

Difesa a te sarò.

Ah! bello a me ritorna

Del raggio tuo sereno,

E vita nel tuo seno,

E patria e cielo avrò.)

TUTTI.

Sei lento; sì, sei lento,

O giorno di vendetta;

Ma irato il Dio t’affretta

Che il Tebro condannò.

Norma parte, e tutti la seguono in ordine.

Scena quinta

ADALGISA sola.

Sgombra è la sacra selva:

Compiuto il rito. Sospirar non vista

Alfin poss’io, qui dove a me s’offerse

La prima volta quel fatal romano

Che mi rende rubella al tempio, al Dio …

Fosse l’ultima almen! – Vano desìo!

Irresistibil forza

Qui mi trascina … e di quel caro aspetto

Il cor si pasce … e di sua cara voce

L’aura che spira mi ripete il suono.

Corre a prostrarsi sulla pietra d’Irminsul.

Deh! proteggimi, o Dio! perduta io sono.

Scena sesta

Pollione, Flavio e detta.

POLLIONE.

(Eccola. Va, mi lascia,

Ragion non odo.)

Flavio parte.

ADALGISA veggendolo, sbigottita.

Oh! Pollïon!

POLLIONE.

Che veggo!

Piangevi tu?

ADALGISA.

Pregava. Ah! t’allontana.

Pregar mi lascia.

POLLIONE.

Un Dio tu preghi atroce,

Crudele, avverso al tuo desire e al mio.

O mia diletta! il Dio

Che invocar devi è Amor …

ADALGISA.

Amor! deh! taci …

Ch’io più non t’oda.

Si allontana da lui.

POLLIONE.

E vuoi fuggirmi? e dove

Fuggir vuoi tu ch’io non ti segua?

ADALGISA.

Al tempio,

Ai sacri altari ch’io sposar giurai.

POLLIONE.

Gli altari! … e il nostro amor? …

ADALGISA.

Io l’obliai.

POLLIONE.

Va, crudele, e al Dio spietato

Offri in dono il sangue mio;

Tutto, ah! tutto ei sia versato,

Ma lasciarti non poss’io;

Sol promessa al Dio tu fosti …

Ma il tuo cuore a me si die’ …

Ah! non sai quel che mi costi

Perch’io mai rinunzi a te.

ADALGISA.

E tu pure, ah! tu non sai

Quanto costi a me dolente!

All’altare che oltraggiai

Lieta andava ed innocente …

Il pensiero al ciel s’ergea,

Il mio Dio vedeva in ciel …

Or per me spergiura e rea

Cielo e Dio ricopre un vel.

POLLIONE.

Ciel più puro e Dei migliori,

T’offro in Roma ov’io mi reco.

ADALGISA colpita.

Parti forse?

POLLIONE.

Ai nuovi albòri …

ADALGISA.

Parti, ed io? …

POLLIONE.

Tu vieni meco.

De’ tuoi riti è Amor più santo …

A lui cedi, ah! cedi a me.

ADALGISA più commossa.

Ah! non dirlo …

POLLIONE.

Il dirò tanto

Che ascoltato io sia da te.

Con tutta tenerezza.

Vieni in Roma, ah! vieni, o cara,

Dove è amore e gioia e vita;

Inebriam nostr’alme a gara

Del contento a cui ne invita …

Voce in cor parlar non senti,

Che permette eterno ben?

Ah! dà fede a’ dolci accenti,

Sposo tuo mi stringi al sen.

ADALGISA.

(Ciel! così parlar l’ascolto …

Sempre, ovunque, al tempio istesso …

Con quegli occhi, con quel volto

Fin sull’ara il veggo impresso …

Ei trionfa del mio pianto,

Del mio duol vittoria ottien …

Ciel! mi togli al dolce incanto,

O l’error perdona almen.)

POLLIONE.

Adalgisa!

ADALGISA.

Ah! mi risparmi

Tua pietà maggior cordoglio.

POLLIONE.

Adalgisa! e vuoi lasciarmi?

ADALGISA.

Non poss’io … seguir ti voglio.

POLLIONE.

Qui … domani all’ora istessa …

Verrai tu?

ADALGISA.

Ne fo promessa.

POLLIONE.

Giura.

ADALGISA.

Giuro.

POLLIONE.

Oh! mio contento!

Ti rammenta …

ADALGISA.

Ah! mi rammento.

Al mio Dio sarò spergiura,

Ma fedele a te sarò.

POLLIONE.

L’amor tuo mi rassicura;

E il tuo Dio sfidar saprò.

Partono.

Scena settima

Abitazione di Norma.

Norma, Clotilde, e due piccoli fanciulli.

NORMA.

Vanne, e li cela entrambi. – Oltre l’usato

Io tremo d’abbracciarli.

CLOTILDE.

E qual ti turba

Strano timor che i figli tuoi rigetti?

NORMA.

Non so … diversi affetti

Strazian quest’alma … – Amo in un punto ed odio

I figli miei! … Soffro in vederli, e soffro

S’io non li veggo. Non provato mai

Sento un diletto ed un dolore insieme

D’esser lor madre.

CLOTILDE.

E madre sei? …

NORMA.

Nol fossi!

CLOTILDE.

Qual rio contrasto!

NORMA.

Immaginar non puossi.

O mia Clotilde! … richiamato al Tebro

È Pollïon.

CLOTILDE.

E teco ei parte?

NORMA.

Ei tace

Il suo pensier. – Oh! s’ei fuggir tentasse …

E qui lasciarmi? … se obliar potesse

Questi suoi figli!

CLOTILDE.

E il credi tu?

NORMA.

Non l’oso.

È troppo tormentoso,

Troppo orrendo è un tal dubbio. Alcun s’avanza.

Va … li cela.

Clotilde parte coi fanciulli. Norma li abbraccia.

Scena ottava

Norma e Adalgisa.

NORMA.

Adalgisa!

ADALGISA da lontano.

(Alma, costanza.)

NORMA.

T’inoltra, o giovinetta.

T’inoltra. – E perché tremi? – Udii che grave

A me segreto palesar tu voglia.

ADALGISA.

È ver. – Ma, deh! ti spoglia

Della celeste austerità che splende

Negli occhi tuoi … Dammi coraggio, ond’io

Senza alcun velo ti palesi il core.

Si prostra, Norma la solleva.

NORMA.

Mi abbraccia, e parla. Che ti affligge?

ADALGISA dopo un momento d’esitazione.

Amore …

Non t’irritar … Lunga stagion pugnai

Per soffocarlo … – Ogni mia forza ei vinse …

Ogni rimorso. – Ah! tu non sai pur dianzi

Qual giuramento io fea! fuggir dal tempio …

Tradir l’altare a cui son io legata …

Abbandonar la patria …

NORMA.

Ahi! sventurata!

Del tuo primier mattino

Già turbato è il sereno! E come, e quando

Nacque tal fiamma in te?

ADALGISA.

Da un solo sguardo,

Da un sol sospiro, nella sacra selva,

A pie’ dell’ara ov’io pregava il Dio.

Tremai … sul labbro mio

Si arrestò la preghiera: e tutta assorta

In quel leggiadro aspetto, un altro cielo

Mirar credetti, un altro cielo in lui.

NORMA.

(Oh! rimembranza! io fui

Così rapita al sol mirarlo in volto.)

ADALGISA.

Ma non mi ascolti tu?

NORMA.

Segui … t’ascolto.

ADALGISA.

Sola, furtiva al tempio

Io l’aspettai sovente:

Ed ogni dì più fervida

Crebbe la fiamma ardente.

NORMA.

(Io stessa … anch’io

Arsi così: l’incanto suo fu il mio.)

ADALGISA.

Vieni, ei dicea, concedi

Ch’io mi ti prostri ai piedi:

Lascia che l’aura io spiri

De’ dolci tuoi sospiri,

Del tuo bel crin le anella

Dammi poter baciar.

NORMA.

(Oh! cari accenti!

Così li proferia …

Così trovava del mio cor la via.)

ADALGISA.

Dolci qual arpa armonica

M’eran le sue parole;

Negli occhi suoi sorridere

Vedea più bello un sole.

Io fui perduta, e il sono;

D’uopo ho del tuo perdono.

Deh! tu mi reggi e guida.

Me rassicura, o sgrida,

Salvami da me stessa,

Salvami dal mio cor.

NORMA.

Ah! tergi il pianto:

Alma non trovi di pietade avara.

Te ancor non lega eterno nodo all’ara.

Ah sì, fa core, abbracciami.

Perdono e ti compiango.

Dai voti tuoi ti libero,

I tuoi legami io frango.

Al caro oggetto unita

Vivrai felice ancor.

ADALGISA.

Ripeti, o ciel, ripetimi

Sì lusinghieri accenti.

Per te, per te s’acquetano

I lunghi miei tormenti.

Tu rendi a me la vita,

Se non è colpa amor.

NORMA.

Ma di’ … l’amato giovane

Quale fra noi si noma?

ADALGISA.

Culla non ebbe in Gallia …

Roma gli è patria …

NORMA.

Roma! …

Ed è? … prosegui …

Scena nona

Pollione e dette.

ADALGISA.

Il mira.

NORMA.

Ei! Pollïon! …

ADALGISA.

Qual ira?

NORMA.

Costui, costui dicesti?

Ben io compresi?

ADALGISA.

Ah! sì.

POLLIONE inoltrandosi, ad Adalgisa.

Misera te! che festi!

ADALGISA smarrita.

Io …

NORMA a Pollione.

Tremi tu? e per chi?

Alcuni momenti di silenzio. Pollione è confuso, Adalgisa tremante e Norma fremente.

Oh, non tremare, o perfido,

No, non tremar per lei …

Essa non è colpevole,

Il malfattor tu sei …

Trema per te, fellone …

Pei figli tuoi … per me …

ADALGISA tremante.

Che ascolto! … ah! … Pollïone?

Taci! t’arretri! … Ahimè!

Si copre il volto con le mani. Norma l’afferra per un braccio e la costringe a mirar Pollione, egli la segue.

NORMA.

Oh! di qual sei tu vittima

Crudo e funesto inganno!

Pria che costui conoscere

T’era il morir men danno.

Fonte d’eterne lagrime

Egli a te pur dischiuse;

Come il mio cor deluse,

L’empio il tuo cor tradì.

ADALGISA.

Oh! qual traspare orribile

Dal tuo parlar mistero!

Trema il mio cor di chiedere,

Trema d’udire il vero …

Tutta comprendo, o misera,

Tutta la mia sventura …

Essa non ha misura,

Se m’ingannò così.

POLLIONE.

Norma, de’ tuoi rimproveri

Segno, non farmi adesso.

Deh! a quest’afflitta vergine

Sia respirar concesso …

Copra a quell’alma ingenua,

Copra nostr’onte un velo …

Giudichi solo il cielo

Qual più di noi fallì.

NORMA.

Perfido!

POLLIONE.

Or basti.

Per allontanarsi.

NORMA.

Fermati.

POLLIONE.

Vieni …

Afferra Adalgisa.

ADALGISA dividendosi da lui.

Mi lascia, scòstati …

Sposo sei tu infedele.

POLLIONE con tutto il fuoco.

Qual io mi fossi oblio …

L’amante tuo son io,

È mio destino amarti …

Destin costei lasciar.

NORMA reprimendo il furore.

Ebben: lo compi e parti.

Ad Adalgisa.

Seguilo.

ADALGISA supplichevole.

Ah! pria spirar.

NORMA prorompendo.

Vanne, sì, mi lascia, indegno;

Figli oblia, promesse, onore …

Maledetto dal mio sdegno

Non godrai d’un empio amore.

Te sull’onde e te sui venti

Seguiran mie furie ardenti:

Mia vendetta e notte e giorno

Ruggirà d’intorno a te.

POLLIONE disperatamente.

Fremi pure, e angoscia eterna

Pur m’imprechi il tuo furore!

Questo amor che mi governa

È di te, di me maggiore …

Dio non v’ha che mali inventi

De’ miei mali più cocenti …

Maledetto io fui quel giorno

Che il destin t’offerse a me.

ADALGISA supplichevole a Norma.

Ah, non fia, non fia ch’io costi

Al tuo cor sì rio dolore …

Mari e monti sian frapposti

Fra me sempre e il traditore.

Soffocar saprò i lamenti,

Divorare i miei tormenti;

Morirò perché ritorno

Faccia il crudo ai figli, a te.

Squillano i sacri bronzi del tempio. Norma è chiamata ai riti.

DRUIDI coro interno.

Norma, all’ara! In tuon feroce

D’Irminsul tuonò la voce.

Norma, Norma, al sacro altar!

NORMA E ADALGISA.

Suon di morte a te s’intima;

Va, per te qui pronta ell’è.

POLLIONE.

Sì, la sprezzo, sì, ma prima

Mi cadrà il tuo Nume al pie’.

Ella respinge d’un braccio Pollione, e gli accenna di uscire. Pollione si allontana furente.

Fine del atto primo.

Atto secondo

Scena prima

Interno dell’abitazione di Norma.

Da una parte un letto romano coperto di pelle d’orso. I figli di Norma sono addormentati.

Norma con una lampa e un pugnale alla mano. – Siede e posa la lampa sopra una tavola. È pallida, contraffatta.

Dormono entrambi … non vedran la mano

Che li percuote. Non pentirti, o core;

Viver non ponno … Qui supplizio, e in Roma

Obbrobrio avrian, peggior supplizio assai …

Schiavi d’una matrigna. – Ah! no: giammai.

Sorge risoluta.

Muoiano, sì.

Fa un passo e si ferma.

Non posso

Avvicinarmi: un gel mi prende, e in fronte

Mi si solleva il crin. – I figli uccido!

Teneri figli …

Intenerendosi.

Essi, pur dïanzi

Delizia mia … essi nel cui sorriso

Il perdono del ciel mirar credei …

Ed io li svenerò? … di che son rei?

Risoluta.

Di Pollïon son figli:

Ecco il delitto. Essi per me son morti;

Muoian per lui,

E non sia pena che la sua somigli.

Feriam …

S’incammina verso il letto; alza il pugnale; essa dà un grido inorridita; i figli si svegliano.

Ah! no … son figli miei! miei figli!

Li abbraccia e piange.

Olà, Clotilde!

Scena seconda

Clotilde e detta.

NORMA.

Vola …

Adalgisa a me guida.

CLOTILDE.

Ella qui presso

Solitaria si aggira, e prega e plora.

NORMA.

Va.

Clotilde parte.

Si emendi il mio fallo … e poi … si mora.

Scena terza

Adalgisa e Norma.

ADALGISA con timore.

Me chiami, o Norma? … Qual ti copre il volto

Tristo pallor?

NORMA.

Pallor di morte. – Io tutta

L’onta mia ti rivelo.

Una preghiera sola

Odi e l’adempi, se pietà pur merta

Il presente mio duolo … e il duol futuro.

ADALGISA.

Tutto, tutto io prometto.

NORMA.

Il giura.

ADALGISA.

Il giuro.

NORMA.

Odi. – Purgar quest’aura

Contaminata dalla mia presenza

Ho risoluto; né trar meco io posso

Questi infelici … a te li affido …

ADALGISA.

O cielo!

A me li affidi?

NORMA.

Nel romano campo

Guidali a lui … che nominar non oso.

ADALGISA.

Oh! che mai chiedi?

NORMA.

Sposo

Ti sia men crudo; – io gli perdono e moro.

ADALGISA.

Sposo … Ah, non mai …

NORMA.

Pei figli suoi t’imploro.

Deh! con te, con te li prendi …

Li sostieni, li difendi …

Non ti chiedo onori e fasci;

A’ tuoi figli ei fian serbati;

Prego sol che i miei non lasci

Schiavi, abbietti, abbandonati …

Basti a te che disprezzata,

Che tradita io fui per te.

Adalgisa, deh, ti mova

Tanto strazio del mio cor.

ADALGISA.

Norma! ah! Norma, ancor amata,

Madre ancor sarai per me.

Tienti i figli. Ah, non fia mai

Ch’io mi tolga a queste arene.

NORMA.

Tu giurasti …

ADALGISA.

Sì, giurai …

Ma il tuo bene, il sol tuo bene.

Vado al campo ed all’ingrato

Tutti io reco i tuoi lamenti.

La pietà che mi hai destato

Parlerà sublimi accenti …

Spera, ah, spera … amor, natura

Ridestarsi in lui vedrai …

Del suo cor son io secura …

Norma ancor vi regnerà.

NORMA.

Ch’io lo preghi? … Ah! no: giammai.

Più non t’odo, parti … va …

ADALGISA.

Mira, o Norma, a’ tuoi ginocchi

Questi cari pargoletti.

Ah! pietà di lor ti tocchi

Se non hai di te pietà.

NORMA.

Ah! perché la mia costanza

Vuoi scemar con molli affetti?

Più lusinghe, più speranza

Presso a morte un cor non ha.

ADALGISA.

Cedi … deh cedi!

NORMA.

Ah! lasciami.

Ei t’ama.

ADALGISA.

Ei già sen pente.

NORMA.

E tu? …

ADALGISA.

L’amai … quest’anima

Sol l’amistade or sente.

NORMA.

O giovinetta! … E vuoi? …

ADALGISA.

Renderti i dritti tuoi,

O teco al cielo, agli uomini

Giuro celarmi ognor.

NORMA.

Hai vinto … hai vinto … Abbracciami.

Trovo un’amica ancor.

ADALGISA E NORMA.

Sì, fino all’ore estreme

Compagna tua m’avrai;

Per ricovrarci insieme

Ampia è la terra assai.

Teco del Fato all’onte

Ferma opporrò la fronte,

Finché il tuo core a battere

Io senta sul mio cor.

Partono.

Scena quarta

Luogo solitario presso il bosco dei Druidi, cinto da burroni e da caverne.

In fondo, un lago attraversato da un ponte di pietra.

Guerrieri Galli.

CORO I.

Non partì?

CORO II.

Finora è al campo,

Tutto il dice: i feri carmi,

Il fragor, il suon dell’armi,

Dell’insegne il ventilar.

TUTTI.

Attendiam: un breve inciampo

Non ci turbi, non ci arresti;

E in silenzio il cor si appresti

La grand’opra a consumar.

Scena quinta

Oroveso e detti.

OROVESO.

Guerrieri! a voi venirne

Credea foriero d’avvenir migliore.

Il generoso ardore,

L’ira che in sen vi bolle

Io credea secondar: ma il Dio non volle.

CORO.

Come! le nostre selve

L’aborrito Proconsole non lascia?

Non riede al Tebro?

OROVESO.

Un più temuto e fiero

Latino condottiero

A Pollïon succede.

CORO.

E Norma il sa? di pace

È consigliera ancor?

OROVESO.

Invan di Norma

La mente investigai.

CORO.

E che far pensi?

OROVESO.

Al fato

Piegar la fronte, separarci, e nullo

Lasciar sospetto del fallito intento.

CORO.

E finger sempre?

OROVESO.

Cruda legge! il sento.

Con ferocia.

Ah! del Tebro al giogo indegno

Fremo io pure, all’armi anelo;

Ma nemico è sempre il cielo,

Ma consiglio è il simular.

CORO.

Sì, fingiam, se il finger giovi;

Ma il furore in sen si covi …

Divoriamo in cor lo sdegno,

Tal che Roma estinto il creda:

Dì verrà che desto ei rieda

Più tremendo a divampar.

Guai per Roma allor che il segno

Dia dell’armi il sacro altar.

Partono.

Scena sesta

Tempio d’Irminsul. Ara da un lato.

Norma, indi Clotilde.

NORMA.

Ei tornerà. Sì, mia fidanza è posta

In Adalgisa; ei tornerà pentito,

Supplichevole, amante. Oh! a tal pensiero

Sparisce il nuvol nero

Che mi premea la fronte, e il sol m’arride

Come del primo amore ai dì felici.

Esce Clotilde.

Clotilde!

CLOTILDE.

O Norma! … Uopo è d’ardir!

NORMA.

Che dici?

CLOTILDE.

Lassa!

NORMA.

Favella.

CLOTILDE.

Indarno

Parlò Adalgisa e pianse.

NORMA.

Ed io fidarmi

Di lei dovea? Di mano uscirmi, e bella

Del suo dolore presentarsi all’empio

Ella tramava.

CLOTILDE.

Ella ritorna al tempio.

Triste, dolente implora

Di proferir suoi voti.

NORMA.

Ed egli?

CLOTILDE.

Ed egli

Rapirla giura anco all’altar del Nume.

NORMA.

Troppo il fellon presume.

Lo previen mia vendetta, e qui di sangue …

Sangue romano … scorreran torrenti.

Si appressa all’ara, e batte tre volte lo scudo di Irminsul.

DRUIDI coro interno.

Squilla il bronzo del Dio!

CLOTILDE.

Cielo! che tenti?

Scena settima

Accorrono da varie parti Oroveso, i Druidi, i Bardi e le Ministre. A poco a poco il tempio si riempie d’armati. Norma si colloca sull’altare.

TUTTI.

Norma! che fu? Percosso

Lo scudo d’Irminsul, quali alla terra

Decreti intima?

NORMA.

Guerra,

Strage, sterminio.

TUTTI.

A noi pur dianzi pace

S’imponea per tuo labbro!

NORMA.

Ed ira adesso,

Stragi, furore e morti.

Il cantico di guerra alzate, o forti.

Inno Guerriero.

I

TUTTI.

Guerra, guerra! Le galliche selve

Quante han quercie producon guerrier;

Qual sul gregge fameliche belve

Sui Romani van essi a cader.

II

Sangue, sangue! Le galliche scuri

Fino al tronco bagnate ne son.

Sovra i flutti del Ligeri impuri

Ei gorgoglia con funebre suon.

III

Strage, strage, sterminio, vendetta,

Già comincia, si compie, s’affretta:

Come biade da falci mietute

Son di Roma le schiere cadute.

Tronchi i vanni, recisi gli artigli,

Abbattuta ecco l’aquila al suol.

A mirar il trionfo de’ figli

Ecco il Dio sovra un raggio di sol.

OROVESO.

Né compi il rito, o Norma?

Né la vittima accenni?

NORMA.

Ella fia pronta.

Non mai l’altar tremendo

Di vittime mancò.

S’ode un interno tumulto.

Ma qual tumulto!

Scena ottava

Clotilde frettolosa e detti.

CLOTILDE.

Al nostro tempio insulto

Fece un Romano: nella sacra chiostra

Delle vergini alunne egli fu côlto.

TUTTI.

Un Romano?

NORMA.

(Che ascolto?

Se mai foss’egli?)

TUTTI.

A noi vien tratto.

NORMA.

(È desso!)

Scena nona

Pollione fra Soldati e detti.

OROVESO E CORO.

È Pollïon!

NORMA.

(Son vendicata adesso.)

OROVESO assai maestoso.

Sacrilego nemico, e chi ti spinse

A vïolar queste temute soglie,

A sfidar l’ira d’Irminsul?

POLLIONE con fierezza.

Ferisci!

Ma non interrogarmi.

NORMA svelandosi.

Io ferir deggio.

Scostatevi.

POLLIONE.

Chi veggio?

Norma!

NORMA.

Sì, Norma.

TUTTI.

Il sacro ferro impugna,

Vendica il tempio e il Dio.

NORMA.

Sì, feriamo.

Prende il pugnale dalle mani di Oroveso; ma poi si arresta.

TUTTI.

Tu tremi?

NORMA.

(Ah, non poss’io.)

TUTTI.

Che fia? perché t’arresti?

NORMA.

(Poss’io sentir pietà!)

TUTTI.

Ferisci.

NORMA.

Io deggio

Interrogarlo … investigar qual sia

L’insidïata o complice ministra

Che il profan persuase a fallo estremo.

Ite per poco.

TUTTI.

(Che far pensa?)

POLLIONE.

(Io fremo.)

Oroveso e il Coro si ritirano; il tempio rimane sgombro.

Scena decima

Norma e Pollione.

NORMA.

In mia mano alfin tu sei;

Niun potria spezzar tuoi nodi.

Io lo posso.

POLLIONE.

Tu nol dêi.

NORMA.

Io lo voglio.

POLLIONE.

E come?

NORMA.

M’odi.

Pel tuo Dio, pe’ figli tuoi …

Giurar dêi che d’ora in poi

Adalgisa fuggirai …

All’altar non la torrai …

E la vita io ti perdono …

E mai più ti rivedrò.

Giura.

POLLIONE.

No: sì vil non sono.

NORMA con furore represso.

Giura, giura.

POLLIONE con forza.

Ah! pria morrò.

NORMA.

Non sai tu che il mio furore.

Passa il tuo?

POLLIONE.

Ch’ei piombi attendo.

NORMA.

Non sai tu che ai figli in core

Questo ferro? …

POLLIONE con un grido.

Oh Dio! che intendo!

NORMA con pianto lacerante.

Sì, sovr’essi alzai la punta …

Vedi … vedi … a che son giunta!

Non ferii, ma tosto … adesso

Consumar potrei l’eccesso …

Un istante … e d’esser madre

Mi poss’io dimenticar.

POLLIONE.

Ah! crudele, in sen del padre

Il pugnal tu dêi vibrar.

A me il porgi.

NORMA.

A te!

POLLIONE.

Che spento

Cada io solo!

NORMA.

Solo! Tutti.

I Romani a cento a cento

Fian mietuti, fian distrutti …

E Adalgisa …

POLLIONE.

Ahimè!

NORMA.

Infedele

A’ suoi voti …

POLLIONE.

Ebben, crudele?

NORMA con furore.

Adalgisa fia punita,

Nelle fiamme perirà.

POLLIONE.

Ah! ti prendi la mia vita,

Ma di lei, di lei pietà.

NORMA.

Preghi alfine? indegno! è tardi.

Nel suo cor ti vo’ ferire.

Già mi pasco ne’ tuoi sguardi

Del tuo duol, del suo morire;

Posso alfine, e voglio farti

Infelice al par di me.

POLLIONE.

Ah! t’appaghi il mio terrore:

Al tuo pie’ son io piangente …

In me sfoga il tuo furore,

Ma risparmia un’innocente;

Basti, basti a vendicarti

Ch’io mi sveni innanzi a te.

Dammi quel ferro.

NORMA.

Che osi?

Scòstati.

POLLIONE.

Il ferro, il ferro!

NORMA.

Olà, ministri,

Sacerdoti, accorrete.

Scena ultima

Ritornano Oroveso, i Druidi, i Bardi e i Guerrieri.

NORMA.

All’ira vostra

Nuova vittima io svelo. Una spergiura

Sacerdotessa i sacri voti infranse,

Tradì la patria e il Dio degli avi offese.

TUTTI.

Oh delitto! oh furor! La fa palese.

NORMA.

Sì, preparate il rogo.

POLLIONE.

Oh! ancor ti prego.

Norma, pietà.

TUTTI.

La svela.

NORMA.

Udite. (Io rea,

L’innocente accusar del fallo mio?)

TUTTI.

Parla: chi è dessa?

POLLIONE.

Ah! non lo dir.

NORMA.

Son io.

TUTTI.

Tu! Norma!

NORMA.

Io stessa, il rogo ergete.

TUTTI.

(D’orror io gelo!)

POLLIONE.

(Mi manca il cor.)

TUTTI.

Tu delinquente!

POLLIONE.

Non le credete.

NORMA.

Norma non mente.

TUTTI.

Oh! quale orror!

NORMA.

Qual cor tradisti, qual cor perdesti

Quest’ora orrenda ti manifesti.

Da me fuggire tentasti invano;

Crudel Romano, tu sei con me.

Un nume, un fato di te più forte

Ci vuole uniti in vita e in morte.

Sul rogo istesso che mi divora,

Sotterra ancora sarò con te.

POLLIONE.

Ah! troppo tardi t’ho conosciuta …

Sublime donna, io t’ho perduta …

Col mio rimorso è amor rinato,

Più disperato, furente egli è.

Moriamo insieme, ah! sì, moriamo:

L’estremo accento sarà ch’io t’amo.

Ma tu morendo non m’aborrire,

Pria di morire perdona a me.

TUTTI.

Oh! in te ritorna, ci rassicura:

Canuto padre te ne scongiura:

Di’ che deliri, di’ che tu menti,

Che stolti accenti uscîr da te.

Il Dio severo che qui t’intende,

Se stassi muto, e il tuon sospende,

Indizio è questo, indizio espresso

Che tanto eccesso punir non de’.

Norma! … deh! Norma! scòlpati …

Taci? ne ascolti appena?

POLLIONE scuotendosi con un grido.

Cielo! e i miei figli?

POLLIONE.

Ahi! miseri!

NORMA volgendosi a Pollione.

I nostri figli?

POLLIONE.

Oh pena!

Norma, come colpita da un’idea, s’incammina verso il padre.

TUTTI.

Norma, sei rea?

NORMA disperatamente.

Sì, rea,

Oltre ogni umana idea.

TUTTI.

Empia!

NORMA ad Oroveso.

Tu m’odi!

OROVESO.

Scòstati.

NORMA a stento trascinandosi in disparte.

Deh! m’odi!

OROVESO.

Oh! mio dolor!

NORMA piano ad Oroveso.

Son madre …

OROVESO colpito

Madre!!!

NORMA.

Acquetati.

Clotilde ha i figli miei …

Tu li raccogli … e ai barbari

Li invola insiem con le …

OROVESO.

Giammai … giammai … va, lasciami.

NORMA s’inginocchia.

Ah! padre! … un prego ancor.

Deh! non volerli vittime

Del mio fatale errore …

Deh! non troncar sul fiore

Quell’innocente età.

Pensa che son tuo sangue …

Abbi di lor pietà.

Padre! tu piangi!

OROVESO.

Oppresso è il core.

NORMA.

Piangi e perdona.

OROVESO.

Ha vinto amore.

NORMA.

Ah, tu perdoni. – Quel pianto il dice.

POLLIONE E NORMA.

Contento (a) il rogo – ascenderò.

Io più non chiedo. – Io son felice.

OROVESO.

Ah! consolarmene – mai non potrò.

CORO.

Piange … prega … che mai spera?

Qui respinta è la preghiera.

Le si spogli il crin del serto:

Sia coperto di squallor.

I Druidi coprono d’un velo nero la Sacerdotessa.

Vanne al rogo: ed al tuo scempio

Purghi l’ara e lavi il tempio;

Maledetta all’ultim’ora,

Maledetta estinta ancor!

OROVESO.

Va, infelice!

NORMA incamminandosi.

Padre … addio.

POLLIONE.

Il tuo rogo, o Norma, è il mio.

Là più puro, là più santo

Incomincia eterno amor.

OROVESO.

Sgorga alfin, prorompi, o pianto:

Sei permesso a un genitor.

Fine

Vincenzo Bellini – Norma

Vincenzo Bellini
Norma

Tragische Oper in zwei Aufzügen

Personen

Sever, römischer Prokonsul in Gallien (Tenor)

Orovist, Haupt der Druidenpriester (Baß)

Norma, dessen Tochter, Oberpriesterin, eine Seherin (Sopran)

Adalgisa, Priesterin im Haine der Irminsäule (Sopran)

Klothilde, Normas Freundin (Sopran)

Flavius, Severs Begleiter (Tenor)

Zwei kleine Söhne Severs und Normas

Druidenpriester

Barden

Tempelwächter

Priesterinnen

Gallisches Kriegsvolk

Knaben

Ort der Handlung: Gallien, im und am heiligen Hain des Gottes Irmin und die Felsenwohnung Normas.

Im ersten Aufzug der heilige Hain des heidnischen Gottes Irmin. Dann die Felsenwohnung Normas. Im zweiten Aufzug dieselbe Felsenwohnung. Dann Waldgegend. Dann der heilige Hain wie im ersten Aufzug.

Zeit: 100 nach Christi Geburt.

Rechts und links vom Darsteller.

Spielzeit: Zwei Stunden fünfundvierzig Minuten.

Erste Aufführung: Mailand, Donnerstag, den 26. Dezember 1831.

Ouverture.

(Fünf Minuten.)

Erster Aufzug.

Nr. 1. Introduktion und Chor.

Der Vorhang hebt sich nach dem zwanzigsten Takte.

Der heilige Hain des heidnischen Gottes Irmin.

Rechts unter einer großen, mit Misteln bewachsenen Eiche auf Stufen die Säule des Gottes und der Druidenstein, der als Altar dient; an der Eiche aufgehängt das Schwert des Brennus neben einem Schild. Links hinten ein Felsenablauf.

Es ist Nacht; der Mond ist von Wolken bedeckt.

Rechts und links vom Darsteller.

Erster Auftritt.

Achtzehn gallische Anführer und Krieger. Weißgekleidete Druidenpriester. Vier Tempelwächter. Zwei Knaben. Dann Orovist, das Oberhaupt der Druiden.

Achtzehn gallische Krieger mit Schilden, Lanzen,

Keulen und Beilen bewaffnet, weißgekleidete Druidenpriester, zwei Tempelwächter mit großen Lanzen und umgehängten Hörnern, zwei Knaben mit Fackeln kommen von rechts hinter dem Druidenstein.

Orovist kommt als der letzte von rechts hinten und tritt zum Druidenstein.

Zwei Tempelwächter mit Lanzen und Hörnern folgen ihm und nehmen neben den beiden anderen Tempelwächtern Aufstellung.

Alle verbeugen sich vor dem Druidenstein rechts.

OROVIST.

Steig’ auf den Hügel, Druidenschar,

Späh’ durch die dunkeln Zweige,

Ob hell bestrahlend den Altar

Das neue Licht sich zeige!

Die Priester verneigen sich.

OROVIST.

Wenn es dem Ost entstiegen,

Erschallen die Gesänge

Der frohbewegten Menge,

Und dreimal tön’ das heil’ge Erz,

Kündend das Heil dem Land.

CHOR.

Norma bricht die geweihte Frucht

Im heil’gen Hain!

OROVIST.

Ja, Norma darf’s allein!

Allein!

CHOR.

Allein, allein!

Möge der Gott der Schlachten

Auf ihrer Stirne thronen,

Daß, die nach Rache schmachten,

Töten die Legionen,

Welche im blinden Rachedurst

Roma hierher gesandt, ja!

OROVIST.

Ja, es soll in wilder Flucht,

Römer, dein Heer erzittern!

Bald soll des Galliers schwere Wucht

Den Adlersitz zersplittern!

Schrecklich sei unsre Stimme,

Ähnlich des Donners Grimme!

OROVIST UND CHOR.

Bebe, du stolze Cäsarstadt,

Er naht, dein Rächer naht!

CHOR.

Schrecklich sei unsre

Stimme, ähnlich des Donners Grimme!

OROVIST.

Ähnlich des Donners Grimme!

CHOR.

Bebe, du stolze

Cäsarstadt, er nahet, der Rächer naht!

OROVIST.

Bebe, du Stadt! er naht, der Rächer naht!

Er verneigt sich gegen den Druidenstein und entfernt sich nach links über den Felsenablauf.

Die vier Tempelwächter und die beiden Knaben folgen ihm.

Die Priester und die Krieger gehen ebenso ab hinter dem Felsenablauf.

OROVIST UND CHOR entfernt.

Mond, wenn dein milder Strahl erglänzt,

Tritt Norma zum Altar!

Ihre Stimmen verhallen.

O Luna, erscheine!

Der römische Prokonsul Sever kommt, in seinen Mantel gehüllt, rasch und vorsichtig spähend, von rechts vorn.

Sein Begleiter Flavius mit Mantel und Schwert, folgt ihm.

Zweiter Auftritt.

Flavius, Sever zu seiner Linken. Dann Stimmen der Priester.

Nr. 2. Recitativ und Kavatine.

SEVER horchend.

Die Stimmen verhallen,

Frei finden wir die Pfade aus des Waldes Dunkel.

FLAVIUS tritt mahnend zu ihm.

Tod lauscht in diesem Walde,

Weissagte Norma.

SEVER.

O nenn’ den Namen nicht,

Er macht mich schaudern!

FLAVIUS erstaunt.

Wie deut’ ich das?

Die Traute, die Mutter deiner Söhne?

SEVER.

Dem Freundesherzen darf ich kühn

Vertrauen, was mich tief betrübet.

Einst liebt’ ich Norma,

Doch bald zerrissen der Liebe Bande,

Die Triebe, die mich an sie gefesselt;

Den Abgrund seh’ ich zu meinen Füßen,

Und muß hinab mich stürzen.

FLAVIUS dringlich.

Liebst eine andere du?

Er wendet sich beobachtend nach hinten.

SEVER mahnend sich umsehend.

O rede leise! Ja, ich liebe eine andere!

Adalgisa!

Du sollst sie sehen,

Des Lenzes schönste Blüte,

Die verborgen hier prangt.

Im Dienst des Tempels, des blutbefleckten Götzen,

Gleicht ihre Anmut

Einem Strahle der Sonne aus finstern Wolken.

FLAVIUS betroffen.

Ach, armer Freund!

Und schenkt sie dir Gegenliebe?

SEVER.

Wohl darf ich hoffen.

FLAVIUS warnend.

Wird Norma die Schmach nicht blutig rächen?

SEVER.

Entsetzen im Blicke, Medeen ähnlich

Glaubt’ ich sie zu erblicken.

Ein Traumbild –

FLAVIUS.

Erzähle!

SEVER.

Ha! die Erinnrung macht mich beben!

Kavatine.

SEVER.

Mit Adalgisa Hand in Hand

Träumt’ ich mich am Traualtare;

Sie trug ein weißes Brautgewand,

Blumen im Lockenhaare.

Hell brannten Hymens Fackeln schon,

Laut tönt’ ein Lied der Minne Lohn,

Da schwanden meine Sinne,

Und mich durchströmte ein Hochgefühl. –

Plötzlich taucht auf ein Schattenbild,

Schreitet langsam zum Tempel nieder;

Und ein Druidenmantel hüllt ein

Die halberstarrten Glieder.

Schnell brannte Hymens Fackel aus,

Schweigend entflohen alle;

Die frohgeschmückte Halle

Glich einem Leichenhaus!

Im Hintergrunde beginnt der Mondschein, vorn bleibt es dunkel.

Und ach, verschwunden war die Braut,

Samt den geliebten Söhnen;

Fernher erklang ihr Schmerzenslaut

Und meiner Kinder Stöhnen.

Da steigt aus dumpfer Gruft herauf

Ein Weib, den Stahl gerötet:

»Norma hat sie getötet,

So straft sie den Verrat!« –

Das heilige Erz ertönt links entfernt.

Der Mond wird allmählich sichtbar.

FLAVIUS.

Hörst du? – Ihrem Amte vorzustehn,

Nahet Norma dem heil’gen Haine!

CHOR DER PRIESTER links entfernt.

Luna erscheint am Horizont.

Fliehet, ihr Ungeweihten!

Flieht, Ungeweihte!

FLAVIUS drängend.

Eile!

SEVER bestimmt.

Ich bleibe!

FLAVIUS mahnend.

Hör’, o hör’ mich!

SEVER empört.

Schändliche!

FLAVIUS wie vorher.

Entflieh’!

SEVER nach links drohend.

Fürchtet meinen Zorn!

FLAVIUS gesteigert.

Fliehe nur schnell,

Gefahr bringt der Verzug!

SEVER ebenso.

Stürzen will ich den Götzendienst,

Entlarven den Betrug!

FLAVIUS wie vorher.

O eile nur schnell!

CHOR DER PRIESTER links entfernt.

Fliehet, ihr Ungeweihten!

FLAVIUS.

Gefahr brächte der Verzug!

SEVER mit Festigkeit.

Was mich kräftigt und beseelt,

Scheuet nicht der Menschen Stärke;

Was in der Gefahr mich stählt,

Liebe ist es, die Großes stets gebar.

Ihre Hand mir zu erringen,

Will ich kühn die Waffen schwingen,

In ihr Heiligtum zu dringen

Und zerstören den Altar.

FLAVIUS mit fortgesetzt mahnendem Drängen.

Eile!

Fliehe!

SEVER.

Stürzen will ich den Götzendienst!

FLAVIUS.

Gefahr bringt der Verzug!

Fliehe nur schnell!

SEVER.

Zerstören den Altar!

CHOR DER PRIESTER links entfernt.

Luna erscheint am Horizont,

Fliehet, ihr Ungeweihten! Ungeweihte!

SEVER.

Was mich kräftigt und beseelt,

Scheuet nicht der Menschen Stärke;

Was in der Gefahr mich stählt,

Liebe ist es, die Großes stets gebar.

Ihre Hand mir zu erringen,

Will ich meine Waffen schwingen,

In ihr Heiligtum zu dringen

Und zerstören den Altar!

Ich will zerstören nun den Altar!

Flavius zieht Sever ab nach links vorn.

Heller Mondschein fällt auf den Druidenstein (Altar) rechts.

Die vier Tempelwächter kommen im ersten Takt mit Hörnern auf den Felsenablauf links, bleiben oben stehen und blasen.

Die zwei Knaben mit Fackeln folgen und nehmen rechts vorn Aufstellung.

Priesterinnen mit Mantel, Schleier und Kranz kommen im fünften Takt von rechts hinter dem Druidenstein.

Orovist und die Priester kommen im neunten Takt von links hinter dem Felsenablauf.

Zwei Barden mit Harfen folgen den Priestern.

Die gallischen Krieger folgen von ebendaher zuletzt.

Dritter Auftritt.

Orovist. Priester. Priesterinnen. Tempelwächter. Barden. Krieger. Knaben.

Alle verneigen sich nach rechts gegen die Säule Irmins.

Ein Knabe geht hinauf zum Druidenstein, entzündet mit seiner Fackel die Opferflamme und kehrt auf seinen Platz zurück.

Nr. 3. Chor.

ALLE.

Norma schreitet, des Eisenkrauts Blüte

Schlingt sich heilig durch wallende Locken;

In der Hand glänzt die goldene Sichel

Als des wechselnden Mondes Symbol.

Sie erscheint, und die Sterne der Römer,

Glänzend erst, sind in Wolken verhüllet;

Sie strecken die Arme nach der Säule Irmins aus.

Irmin herrscht im Raume des Äthers,

Gleich Kometen, bedrohend die Welt.

Die vier Tempelwächter blasen.

Norma kommt von rechts hinter dem Druidenstein;

ihre Haare sind gelöst, ihr Haupt umgiebt ein Kranz von Eisenkraut, in der Hand trägt sie eine goldene Sichel.

Acht Dienerinnen folgen ihr; zwei Dienerinnen tragen je ein Bündel von Mistelzweigen; vier Dienerinnen tragen leere flache Körbchen.

Vierter Auftritt.

Die Vorigen. Norma. Dienerinnen.

Norma tritt hinauf vor den Druidenstein, legt die Sichel darauf und erhebt die Blicke wie begeistert zum Himmel.

Die acht Dienerinnen nehmen vor den Stufen des Druidensteins Aufstellung.

Hellster Mondschein überflutet Norma.

Allgemeine Stille.

Nr. 4. Scene und Kavatine.

NORMA.

Wer läßt hier Aufruhrstimmen,

Wer Kriegesruf ertönen?

Wollt ihr die Götter zwingen,

Eurem Willen zu folgen?

Wer wagt vermessen, gleich der Prophetin,

Der Zukunft Nacht zu lichten?

Wollt ihr der Götter Plan vorschnell vernichten?

Nicht Menschenkräfte können

Die Wirren dieses Landes schlichten.

OROVIST.

Wie lange noch soll lasten feindliches Joch

Auf Galliens Gefilden?

Die Tempel sind entheiligt,

Das Land die Beute von Roms

Gefräß’gen Adlern.

Nicht länger darf es rosten,

Das Schwert des großen Brennus!

CHOR mit energischer Bewegung.

Laß es rasch uns erheben!

NORMA.

Daß es zersplittre? – Zersplittre!

Ja, wenn tollkühn ihr versuchet,

Allzufrüh es zu zeigen!

Die Männer ziehen sich betroffen einen Schritt zurück.

NORMA.

Es sind die Tage eurer blutigen Rache

Noch nicht erschienen;

Der Römer Wurfgeschosse

Sind dem gallischen Beile

Noch viel zu mächtig.

OROVIST UND CHOR ruhig und gemessen.

Was kündet dir die Gottheit? Rede! weissage!

Höchste Aufmerksamkeit.

NORMA.

In den geheimen Blättern hab’ ich gelesen:

Dem Untergang verfallen ist jene stolze Roma,

Und Blutesbäche färben die mächtige Stadt!

Doch nicht durch Gallier,

Rom fällt durch eigne Schwäche,

Fällt durch Laster und Verrat!

Bedeutend.

Harret der Stunde, sie ist nicht fern,

Die Schmach und Elend rächet!

Friede gebiet’ ich, während die Mistel ich breche!

Sie streckt ihre Arme gen Himmel aus.

Die zwei Barden nehmen ihre Harfen zur Hand und spielen.

Die zwei Dienerinnen mit den Mistelbündeln gehen zu Norma hinauf und knieen vor sie hin.

Die vier Dienerinnen mit den leeren Körbchen ebenso.

Die letzten zwei Dienerinnen bleiben unten.

Norma nimmt die Sichel vom Druidenstein und erhebt sie segnend über die Mistelbündel.

Alle werfen sich auf die Kniee.

Der Mond leuchtet in seinem vollen Glanze.

Norma schneidet hierauf mit der Sichel die heilige Mistel von der Eiche und legt sie in die Körbchen der vier Dienerinnen; nach den fünfzehn Takten des Ritornells legt sie die Sichel auf den Druidenstein.

Die sechs Dienerinnen erheben sich, treten herunter und knieen unten wieder nieder.

NORMA.

Keusche Göttin im silbernen Glanze,

Thaue Segen auf die dir geweihte Pflanze!

Deines Anblicks laß uns erfreuen,

Wolkenfrei und schleierlos!

OROVIST UND CHOR.

Keusche Göttin im Silberglanze,

Thaue Segen auf diese Pflanze!

Deines Anblicks laß uns freuen,

Wolkenfrei und schleierlos!

NORMA.

Schleierlos, ja, schleierlos!

Laß nicht Zwietracht sich erneuen,

Träufle Balsam in die Wunden,

Bis den Frieden wir gefunden,

Der erkeimt aus deinem Schoß.

OROVIST UND CHOR.

Bis wir jenen Frieden aufgefunden,

Der entkeimt aus deinem Schoß!

Die zwei Barden enden ihr Harfenspiel.

Norma schreitet herab und nimmt die Mitte.

Alle erheben sich.

NORMA.

Nun trennt euch alle, kein Frevler wage

Diese Haine zu beschreiten;

Wenn die Götter schleudern ihre Racheblitze,

Um die Feinde zu zerstören,

Hört ihr vom Druidensitze

Meiner Stimme Donnerton!

Die Krieger erheben drohend die Waffen.

OROVIST UND CHOR feurig.

Rufe! Nicht einer soll entrinnen!

O gebiete! Laß uns beginnen,

Und als erstes Racheopfer

Falle der Prokonsul Roms!

Norma tritt noch etwas weiter vor, steht ganz für sich.

Die Dienerinnen mit den Körben voll Mistelzweigen gehen zu den einzelnen Gruppen und verteilen die Zweige.

NORMA.

Er fällt! Ich kann ihn töten!

Für sich.

Doch ihn töten? Mein Herz sagt nein! –

Entflohner, kehre wieder,

An meiner Brust erwarme,

Und diese mächt’gen Arme

Sind deines Lebens Pfand.

O kehre wieder mit heitern Blicken,

Nur du bist mein Entzücken,

Meine Seligkeit!

OROVIST UND CHOR unter sich.

Kommt langsam auch geschritten

Der süße Tag der Rache,

Ist doch in allen Hütten

Die Kampfeslust entbrannt;

Bleibet doch auf Berg’, in Hütten

Die Kampfeslust entbrannt!

NORMA für sich.

Ach! Entflohner, kehre wieder,

An meiner Brust erwarme,

Und diese mächt’gen Arme

Sind deines Lebens Pfand!

O kehre wieder mit heiteren Blicken,

Nur du bist mein Entzücken,

Meine Seligkeit!

OROVIST UND CHOR.

Es bleibt auf Bergen und in Hütten

Doch die Kampfeslust entbrannt!

NORMA für sich.

O sieh’ mein Sehnen,

Sieh’ meine Thränen,

O schlinge wieder

Der Liebe Band!

Kehre wieder, sieh’ meine Thränen!

OROVIST UND CHOR.

Zur Rache!

NORMA für sich.

Sieh’ die Thränen,

Sieh’ mein Sehnen,

Schlinge wieder

Der Liebe Band!

Sieh’ die Thränen,

O sieh’ mein Sehnen,

Schlinge wieder

Der Liebe Band!

OROVIST UND CHOR.

Auf den Bergen, in den Hütten

Bleibt die Kampfeslust entbrannt!

Die Knaben verlöschen das Feuer auf dem Druidenstein; einer nimmt die Sichel an sich.

Alle wenden sich zum Abgang nach rechts.

Norma, die Priesterinnen, die acht Dienerinnen, die Krieger gehen ab nach rechts hinten.

Orovist, die Priester, die Barden, die Tempelwächter, die Knaben entfernen sich nach rechts vorn.

Die Priesterin Adalgisa kommt von rechts hinter dem Druidenstein.

Fünfter Auftritt.

Adalgisa allein.

Nr. 5. Scene und Duett.

ADALGISA wird lebhaft nach dem achten Takte sichtbar; dann hält sie inne und schreitet, nachdem sie sich umgesehen, träumerisch vor.

Einsam sind diese Haine, fort die Druiden! –

Sie kommt weiter vor und preßt die Hände aufs Herz.

Ungesehen fließen nun meine Thränen,

Hier, wo ich zum erstenmale

Den Helden Roms, wehe mir! erblickte,

Der vergessen mich machte

Des Tempels, der Götter!

Wär’ der Traum doch vorbei!

Fruchtloses Hoffen! Ein unerklärlich

Sehnen bringt mich ihm nahe;

In seinem Anblick schwelgt mein krankes Auge;

Ich höre seine Stimme in Zephyrs Flüstern

Und im Säuseln der Blätter.

Sie eilt nach rechts zu dem Druidenstein und wirft sich auf die Kniee.

O beschütze mich, du Starker!

O beschütze mich, beschütze mich,

Du Starker, beschütze mich,

Es wanket, es wanket mein Glaube!

Du Starker, sei gnädig mir!

Mein Glaube, ach, mein Glaube wankt!

Sie erhebt sich langsam.

Der römische Prokonsul Sever kommt mit seinem Begleiter Flavius von links hinten.

Sechster Auftritt.

Adalgisa rechts vorn. Sever links hinten, Flavius an seiner Seite.

SEVER leise zu Flavius.

Da ist sie! Fort!

Ich will nichts weiter hören!

Flavius geht ab nach links hinten.

Siebenter Auftritt.

Adalgisa. Sever.

Sever kommt nach vorn.

ADALGISA bemerkt ihn, erschrocken.

Du! Du hier?

SEVER.

Was seh’ ich? Du hast geweint?

ADALGISA.

O sei barmherzig und laß mich beten!

SEVER.

Du flehst zu Göttern, die grausam,

Tyrannisch, stets abhold

Deinen Wünschen und den meinen.

Ach, Adalgisa, der Gott,

Zu dem wir rufen, ist Amor.

ADALGISA.

Weh’ mir, o schweige, nicht darf ich weilen.

Sie entfernt sich von ihm.

SEVER.

Willst du mich fliehen?

Welch Ort wäre so geheim,

Den ich nicht fände?

ADALGISA.

Der Tempel, des Gottes Altar,

Dem ich Treue geschworen.

SEVER.

Dem Gotte! und unsrer Liebe?

ADALGISA.

Muß ich entsagen! –

SEVER sehr leidenschaftlich.

Geh’ und opfre den falschen Göttern,

Opfre ihnen denn und bring’ mein Blut zur Sühne!

Er umschlingt Adalgisa.

Adalgisa sucht sich ihm zu entziehen.

SEVER.

Opfernd magst du, magst du’s vergießen,

Nimmer kann ich dich verlassen,

Nein, nein, dich nie verlassen! –

Adalgisa hat sich losgemacht und weist mit der Rechten nach rechts auf die Säule des Gottes Irmin, mit der Linken auf sich: »sie habe sich den Göttern geweiht!«

SEVER.

Nur dein Mund schwur den Altären,

Doch dein Herz, es schwur zu mir;

Mir nur sollst du angehören,

Niemals mehr entsag’ ich dir.

ADALGISA.

Ach, du weißt nicht, wie sehr ich leide,

Wie mein Herz dich warm verteidigt!

Dem Altare, den ich beleidigt,

Naht ich mich mit Kindesfreude.

Sie streckt hilfesuchend beide Arme nach der Säule des Gottes aus: »Vergebliches Flehen, ich bin schuldbeladen.«.

Heiter blickte einst mein Auge

Zu des Himmels Blau empor;

Nun ist mir sein Glanz entschwunden,

Da ich meine Ruh’ verlor.

SEVER.

Mildre Sitten, schönre Sonne

Bietet Rom, wohin wir eilen.

ADALGISA aufs höchste erschrocken.

Fort du? Fort du?

SEVER.

Zu neuen Thaten!

ADALGISA.

Fort du? Und ich?

SEVER.

Du folgst dem Gatten!

Amor ist der Gott der Götter,

Weiche seiner sanften Macht!

ADALGISA.

Unsre Priester, unsre Seher –

SEVER.

Sie schreien Wehe!

Und versinken dann in Nacht!

ADALGISA.

Ach, wer rettet? –

SEVER.

Von der Liebe bist du bewacht.

ADALGISA.

Nein, ich darf nicht,

Wachsam lauert der Verdacht.

SEVER.

Du könntest fliehen und mich verlassen?

Und mich verlassen? Adalgisa! Adalgisa!

Komm nach Rom, dem Schmuck der Städte,

Wo der Freude Nektarschale

Froh uns winkt zum Göttermahle

Und die Sorge sinkt in Lethe!

Säume nicht, die Feinde wachen,

Folge deines Herzens Ruf!

Glücklich sein und glücklich machen,

Welch ein herrlicher Beruf!

ADALGISA.

Ja, das sind die süßen Laute,

Ja, das sind die Liebeszeichen.

Welche Gott Irmins Vertraute

Vom Altare selbst verscheuchen!

Nimmer kann ich widerstehen

Diesem innern Herzensdrang!

Götter, hört mein heißes Flehen,

Zürnet nicht, daß mein Herz ich nicht bezwang!

SEVER drängend.

So komme!

ADALGISA zögernd.

Laß mich hier.

SEVER mit geöffneten Armen.

Sieh’ die Arme ausgebreitet!

ADALGISA.

Ach, laß mich!

SEVER.

Du könntest mich verlassen?

ADALGISA.

Ach, Schande mich begleitet.

SEVER.

Für mich nicht alles wagen?

ADALGISA.

O höre meine Stimme!

SEVER.

Adalgisa!

ADALGISA.

Sieh’, wie ich weine,

Sieh’ den Kampf der Pflicht und Liebe!

SEVER.

Adalgisa, gehorch dem Triebe!

ADALGISA.

Harre – du –

Ach, vergebens, ich bin die deine!

Umarmung.

SEVER.

Morgen in der Frührot Stunde

Harr’ ich dein!

ADALGISA.

Zum ew’gen Bunde!

SEVER.

Schwöre!

ADALGISA.

Heilig!

SEVER.

Geliebte Seele, ich darf hoffen?

ADALGISA.

Ja, du darfst hoffen,

Treulos bin ich den Altären,

Treu werd’ ich der Liebe sein!

SEVER.

Mildre Götter wirst du ehren,

Und verachten den Betrug –

ADALGISA.

Treu werd’ ich, ja, treu

Der Liebe sein,

Ja, treu der Liebe sein!

SEVER.

Verachten den Betrug und Schein,

Und treu der Liebe sein!

Er verläßt sie nach inniger Umarmung und geht ab nach links hinten.

Adalgisa wendet sich zum Abgang nach rechts hinten.

Verwandlung.

Nr. 6. Duett.

Der Vorhang hebt sich nach dem fünfundzwanzigsten Takte.

Normas Felsenwohnung mit einer Mittelöffnung, deren Vorhänge geschlossen sind; hinter den Vorhängen eine Lagerstätte mit einer Fensteröffnung darüber. Rechts eine Felsenöffnung als Eingang. Zur Rechten ein Steinaltar; mehr nach der Mitte hin auf Tierfellen ein Blocksitz. Links ein Herd; in seiner Nähe auf Tierfellen ein Ruhelager; an der linken Hinterwand ein Steintisch.

Es ist Tag.

Achter Auftritt.

Klothilde, die beiden Kinder Normas an der Hand führend; Norma ohne Mantel und Schleier zu ihrer Linken.

NORMA geht auf die Kinder zu und wendet sich bebend vor ihnen zurück; zu Klothilde.

Geh’ jetzt, ich will sie nicht mehr sehen!

Schauder ergreift mich,

Wenn ich sie will umarmen!

Sie setzt sich auf das Ruhelager links, mit dem Arm auf dem Lager ihren Kopf stützend.

KLOTHILDE.

Woher der Zwiespalt in deiner Brust?

Es sind so gute Kinder!

NORMA gepeinigt.

Frag’ nicht! – In diesem Herzen

Wechseln Gefühle. Bald herrscht die Liebe,

Bald hass’ ich meine Kinder. Bald macht ihr Anblick mir Freude,

Bald wieder Kummer. Jetzt möcht’ ich sie herzen,

Jetzt zornig strafen, bald mich und sie verwünschen,

Daß ich die Mutter.

KLOTHILDE.

Und du bist Mutter!

NORMA leidenschaftlich aufspringend.

O wär’ ich’s nicht.

KLOTHILDE rasch.

Du sprichst in Rätseln!

NORMA.

Du kannst mich nicht verstehen,

Du treue Seele.

Sehr wichtig.

Vom Senat berufen

Ist Sever.

KLOTHILDE.

Du wirst ihm folgen?

NORMA betroffen, langsam und düster.

Darüber schwieg sein Mund.

Mit steigender Aufregung.

Ach! Wenn er fliehen könnte,

Und mich verließe! Wenn er vergessen könnte

Mich und die Kinder!

KLOTHILDE.

Und glaubst du? –

NORMA mit einigen Schritten nach links.

Gewißheit! Sie wäre minder grausam

Als böse Ahnung, als trüber Zweifel! –

Ich höre Tritte!

Zu Klothilde.

Geh’, verbirg sie!

Klothilde geht mit den Kindern ab durch die Mittelvorhänge.

Die Vorhänge fallen hinter ihr wieder zu.

Adalgisa kommt mit dem Eintritt des Andante von rechts.

Neunter Auftritt.

Adalgisa, Norma zu ihrer Linken.

Adalgisa steht still.

NORMA.

Adalgisa!

ADALGISA für sich.

Herz, bleibe standhaft!

NORMA.

Tritt näher, du holdes Wesen!

Adalgisa bleibt stehen.

NORMA.

Komm näher! Du scheinst zu zittern?

Zu sprechen wünschest du mit mir,

Geheimes trägst du auf dem Herzen?

ADALGISA.

So ist’s. Doch du bist strenge,

Kennst nicht die Macht der Leidenschaft,

Der Schwäche bist du verschlossen.

Sie tritt näher und wirft sich vor Norma auf die Kniee.

Wo find’ ich Stärke, mein Herz

Dir zu entschleiern?

Dir mich zu entdecken!

NORMA.

Vertraue und rede, was betrübt dich?

ADALGISA nach einem Augenblick des Bedenkens.

Die Liebe –

Norma macht eine Bewegung.

ADALGISA.

O zürne nicht!

Lange hab’ ich gestritten, sie zu besiegen,

All’ meine Kraft verschwendet,

Eifrig gebetet – Ach, alles fruchtlos!

So wisse, was ich ihm zugeschworen:

Den Tempel meiden und den Altar,

Dem ich verlobt, verraten,

Mein Heimatland verlassen –

NORMA.

Halt ein, Verirrte!

Sie legt ihre Hand auf Adalgisas Haupt.

Im Morgenrot des Lebens

Ist dein Stern schon versunken?

Sie hebt Adalgisa auf und führt sie nach dem Ruhelager links.

Erzähle mir alles!

Sie sitzt und hält Adalgisas Hände.

Wie faßte dich die Glut?

ADALGISA zu Normas Füßen knieend.

Von einem Blicke, von einem Seufzer

Im geweihten Haine, dort am Altare,

Wo ich in Andacht flehte. Ich bebte,

Auf meiner Lippe starb das Wort des Gebetes.

Norma läßt allmählich Adalgisas Hände los und versinkt in träumerisches Erinnern.

ADALGISA.

Ich war versunken in nie geahnte Wonne,

Sah andre Himmel und andre Sonnen,

Er war mein alles, mein Himmel!

NORMA für sich.

O Rückerinnrung!

So war mein Los, so ward mein Aug’ geblendet,

Als es auf seinem ruhte.

ADALGISA.

Doch – du scheinst ja zerstreut?

NORMA.

Rede! Ich höre.

ADALGISA steht langsam auf.

Hier stahl er mir den Frieden,

Hier sah ich ihn manche Stunde;

Wenn er von mir geschieden,

Brannte des Herzens Wunde.

NORMA für sich.

Ach, so erging es mir!

ADALGISA.

Laß mich, rief er mit Flehen,

Dir in das Auge sehen –

NORMA für sich.

O Rückerinnrung!

ADALGISA entfernt sich einige Schritte von Norma; mehr für sich.

Laß mich aus deinen Augen –

NORMA für sich.

So hat auch er gesprochen!

ADALGISA.

Wonne und Hoffnung saugen,

Gieb mir des Haares Locke,

Nicht versage der Liebe Kuß!

NORMA für sich.

O süße Töne!

So haben sie auch einst

Dies unbewachte weiche Herz gebrochen!

ADALGISA in seligem Erinnern wie für sich.

Sanft, wie der Zephyr am Fliederstrauch,

Süß, wie die Töne der Harfe,

Klang seines Mundes Beredsamkeit –

Ich sah den Himmel offen.

NORMA für sich.

Ich fühlte gleichen Zauber!

ADALGISA weinend, sich Norma wieder nähernd.

Ach, da vergaß ich die Pflichten –

NORMA.

Du sollst nicht weinen.

ADALGISA.

Wirst du mich gnädig richten?

NORMA.

Ich bin nicht grausam.

ADALGISA.

Nun kennst du mein Vergehen.

NORMA.

Ich bin nicht grausam.

ADALGISA.

Wirst du mein Herz verdammen?

Verzweifelnd vor Norma zusammenstürzend und deren Kniee umfassend.

Rette mich vor mir selber,

Rette mich, rette mich, wenn du kannst!

NORMA.

O klage nicht, du Tiefbetrübte,

Noch ist zu lösen dein Gelübde.

ADALGISA.

Ach! wiederhole des Trostes süße Worte!

NORMA steht auf und hebt Adalgisa empor an ihre Brust.

Heil dir, o Heil!

Sie küßt sie.

Empfange diesen Schwesterkuß,

Ich will der Welt dich retten,

Sich von Adalgisa loslösend.

Denn dein Gelübde lös’ ich auf,

Ich breche deine Ketten!

Dir lacht das Glück der Liebe,

Die höchste Erdenlust.

ADALGISA.

O wiederhole noch einmal

Des Trostes süße Worte;

Geendet ist nun meine Qual,

Mir strahlt der Hoffnung Sonne!

Du hast hinweg genommen

Die Leiden meiner Brust,

Ja – ja – ha, welch süße Lust!

NORMA.

Dir wird noch lachen das Glück der Liebe,

Die höchste Lust – ach!

ADALGISA.

O wiederhol’ des Trostes Wort,

Des Trostes Wort – ach!

NORMA.

Empfange diesen Schwesterkuß,

Ich will der Welt dich retten.

Ja, dein Gelübde löse ich,

Ich sprenge deine Ketten.

Dir lacht das Glück der Liebe,

Die höchste Erdenlust,

Ja, ja, ja, höchste Lust!

ADALGISA.

O laß die Worte,

Laß mich sie hören!

Du hast weggenommen

Den Stachel der Brust,

Ja, ja, ach, welche Lust!

BEIDE.

Ach – ach, welche Lust!

NORMA drängt Adalgisa nach der Mitte und umarmt sie stürmisch.

Doch sprich, wie ist sein Name?

Mit einigen Schritten nach links.

Ist er vom Kriegerstande?

ADALGISA.

Gallien ist nicht sein Heimatland,

Er ist ein Römer!

NORMA ahnend.

Römer? Und heißt? Vollende! –

Sever kommt von rechts.

Zehnter Auftritt.

Sever rechts. Adalgisa in der Mitte, etwas zurückstehend. Norma links.

ADALGISA zeigt nach rechts.

Hier kommt er.

NORMA aufflammend.

Dieser? Sever!

ADALGISA.

Du zürnest?

NORMA gesteigert.

Sever ist dein Geliebter?

Täuscht mein Gehör mich?

ADALGISA.

Ach, nein!

SEVER zu Adalgisa.

Unheil hast du gestiftet!

ADALGISA betroffen.

Unheil?

NORMA zu Sever.

Bebest du? Und für wen

Magst du jetzt erbeben?

Ausbrechend.

Du sollst nicht beben für jene dort,

Nein, nicht für jene,

Die nur dein Hauch vergiftet!

Adalgisa bebt erschrocken mehr nach hinten zurück.

NORMA.

Sie nicht; du gabst dein Heuchelwort,

Du nur warst der Verräter!

Erbebe nur für dich, erbebe nur für dich,

Für deine Kinder, zittre für mich,

Für dich, Verräter, erzittre nur für dich,

Erzittre für dich, für dich und mich!

ADALGISA aufs höchste betroffen.

Was hör’ ich? Du? – Sever? – Rede! –

Sever wendet sich schweigend ab.

ADALGISA.

Nein, schweige! O Himmel!

Sie preßt, etwas in sich zusammensinkend, das Gesicht in die Hände. Norma tritt zu ihr. Sever hat nur für Adalgisa Sinn und Auge.

Nr. 7. Terzett.

NORMA.

Arme! geopfert ist dein Glück,

Ihm konntest du vertrauen!

Besser wär’s, giftigen Schlangenblick,

Sie zeigt nach Sever.

Als seine Blicke zu schauen!

Ach, deine holden Augen

Gleichen zwei Thränenbächen.

Brennende Qualen foltern

Zwei treue Herzen,

Die der Verräter treulos brach!

ADALGISA.

Ach, wann schließt sich des Zweifels Thor?

Schrecklich sind deine Züge!

Wahrheit verlangt mein scheues Ohr

Doch dieses Herz verlangt die Lüge.

NORMA zu Adalgisa.

Arme, geopfert ist dein Glück.

Ja, besser wär’s, gift’ger Schlangenblick,

Als diese Blicke, den Blick zu schauen.

ADALGISA.

Ahnung erfüllt mein banges Herz!

Was wird die Zukunft spenden?

Nie wird mein Jammer enden,

Wenn er den Eid mir brach.

NORMA zu Adalgisa.

Laß deine Thränen strömen,

Brennende Qualen foltern

Zwei Herzen, die er treulos brach,

Die der Verräter treulos brach!

SEVER.

Norma, in dieser Stunde nicht

Soll mich dein Zorn erreichen!

Er zeigt nach Adalgisa.

Sieh’ auf dies holde Angesicht,

Es stirbt dahin, sieh’, es will erbleichen!

Nicht in der Jungfrau Gegenwart

Sollst du den Schleier lüften;

Mag denn der Himmel richten,

Wer von uns beiden mehr verbrach!

Sieh’ dort die Arme,

Gebeugt von dem Harme,

Die ohne Schuld

Die rein, die nichts verbrach! –

NORMA.

Ja, besser wär’ es, Schlangenblick,

Nach Sever zeigend.

Als diesen Blick zu schauen! –

Du kannst es wagen! –

Laß den Thränen freien Lauf,

Beide sind, beide sind betrogen!

Beide hat er uns belogen,

Ja, uns belogen,

Da er seine Schwüre, seine Schwüre brach,

Er seinen Eid mir brach! –

ADALGISA tritt Norma näher.

Ach, wann schließt sich des Zweifels Thor?

Wahrheit verlangt mein scheues Ohr,

Doch dieser Busen verlangt die Lüge!

Ahnung erfüllt mein banges Herz,

Was wird die Zukunft spenden?

Nie wird mein Jammer enden,

Wenn er den Eid mir brach.

Ahnung, ja, sie erfüllt mein banges Herz!

O was wird mir die Zukunft spenden?

Ach, nie, niemals wird, nie sich mein Jammer enden,

Wenn er den Eid mir brach! –

Sie schmiegt sich bittend an Normas Schulter.

NORMA macht sich frei; empört zu Sever.

Schändlicher!

SEVER.

Du rasest!

Er will fort.

NORMA beobachtet beide mit größter Aufmerksamkeit; zu Sever.

Bleibe noch!

SEVER faßt Adalgisas Hand und will sie mit sich fortziehen.

Folge mir!

ADALGISA sich von ihm losreißend.

Nein, niemals folg’ ich dir!

Norma nennt dich Gatten!

SEVER.

Teure, dich hab’ ich erkoren!

ADALGISA.

Nein, niemals folg’ ich dir!

SEVER schließt Adalgisa fest in seine Arme.

Mein wirst du, hab’ ich geschworen.

ADALGISA.

Geh’, falscher Mann!

SEVER mit Feuer.

Für dich nur fühl’ ich allein

Heiße Liebe, für jene Haß!

Für jene empfind’ ich Haß!

NORMA.

Wohlan!

Mit erstickter Stimme.

Vollende den Meineid

Und fliehe!

Zu Adalgisa.

Folge ihm!

ADALGISA reißt sich von Sever los und eilt zu Norma hin.

Norma, o höre mich! gieb mir den Tod!

NORMA in höchster Leidenschaft die Mitte nehmend; zu Sever.

Ziehe hin, weil du vergessen

Deinen Schwur, der Kinder Ehre!

Doch läßt meines Fluches Schwere

Nie der Liebe froh dich werden!

Ziehe fort, weil du vergessen

Deinen Schwur, der Kinder Ehre!

Ziehe fort, weil du vergessen

Wort und Ehre!

Sie wendet sich nach links.

SEVER zu Norma.

Magst du fluchen im Thorengrimme,

Abscheu wecket dies tolle Wüten!

NORMA zu Sever.

Auf dem Lande, wie auf dem Meere

Wird ereilen dich meine Rache,

An dem Lager hält sie die Wache,

Rüttelt dich mit Allgewalt.

SEVER.

Magst du fluchen im Thorengrimme,

Abscheu weckt dies tolle Wüten;

Magst du Hassespläne brüten,

Mächt’ger ist der Liebe Stimme.

Fluche nur im Thorengrimme,

Abscheu weckt dies tolle Wüten,

Ja, dies Wüten!

ADALGISA norma anflehend.

O verzeihe, daß meine Leiden

Dir getrübet der Seele Ruhe!

SEVER zu Norma.

Sieh’ mich trotzen dem Schrei nach Rache,

Denn der Himmel schützt die Schwache.

Fluche mir im Thorengrimme,

Ja, ich trotze deiner Wut!

ADALGISA zu Norma.

O verzeihe, daß meine Leiden

Dir getrübt der Seele Ruhe!

NORMA zu Sever.

Fliehe!

ADALGISA.

Berge, Meere sollen scheiden

Ewig mich von dem Verräter!

NORMA.

Verräter!

ADALGISA.

O verzeih’, daß meine Leiden

Dir getrübt der Seele Ruhe –

SEVER.

Magst du fluchen, magst du wüten!

ADALGISA.

Deine Ruhe dir getrübt,

Ja, dir getrübt!

SEVER.

Sieh’ mich trotzen dem Schrei nach Rache,

Denn der Himmel, er schützt die Schwache!

NORMA.

Auf dem Lande, wie auf dem Meere

Wird ereilen dich meine Rache!

ADALGISA.

Dich nur will ich glücklich wissen,

Meine Schmerzen in mich verschließen;

Vater sei er seinen Kindern

Und das Grab mein Aufenthalt!

NORMA.

Ja, Verräter, meine Flüche

Stören deine Liebeslust!

SEVER.

Fluche nur im Thorengrimme,

Ja, ich trotze deiner Macht!

Deine Brust,

Sie fühlt sich schuldbewußt.

NORMA.

Nie, nie fühle du der Liebe Lust.

ADALGISA.

Ja, ja! Schweigen soll der Schmerz;

In der eignen Brust

Verschließen meine Schmerzen

Sich schuldbewußt!

Sever eilt ab nach rechts.

Adalgisa stürzt Norma zu Füßen.

Zweiter Aufzug

Nr. 8. Introduktion und Scene.

Der Vorhang hebt sich im fünfzigsten Takte.

Dieselbe Felsenwohnung Normas.

Die Mittelvorhänge sind zurückgeschlagen.

Es ist Nacht; durch die Fensteröffnung über der Lagerstätte hinten fällt das Mondlicht.

Erster Auftritt.

Norma. Ihre beiden Kinder schlafend auf der Lagerstätte hinter den Mittelvorhängen, vom Mond beschienen, der durch die Fensteröffnung darüber fällt.

NORMA kommt ohne Schleier, offene Haare, verstört und bleich, mit einer brennenden Lampe und einem Dolche von rechts; sie setzt die Lampe auf den Steintisch an der linken Hinterwand, tritt vor ihre beiden Söhne und neigt sich leicht über sie.

Beide im Schlafe! – Sie sehen nicht das Eisen,

Das sie durchbohren soll.

Sie drückt ihr Mitleid hinab.

Nicht rege dich, Erbarmen, sie müssen sterben!

Hier harrt der Tod und Schande trifft sie in Rom.

Ha, Normas Blut entehret! Zum Sklavendienst erniedrigt!

Könnt’ ich’s ertragen? Rasch vollbracht!

Sie macht einen Schritt, bleibt dann stehen.

Ja, wenn ich dem Lager nahe,

Faßt mich ein Schauder,

Es sträubt sich das Haar auf meinem Haupt!

Die Kinder töten –

Die hier in Unschuld noch schlummern? Sie,

Noch vor kurzem Wonne der Mutter,

Sie, deren süßes Lächeln

Die Verzeihung des Himmels mir verhießen!

Sie tötet dieser Stahl! Sind sie Verbrecher?

Es sind Severs Söhne: dies ihr Verbrechen!

Mir sind sie schon gestorben!

Sie mögen beide tot auch für ihn sein!

Er find’ sie als Leichen! – Wohlan!

Sie schreitet zur Lagerstätte hinten und erhebt den Dolch; plötzlich grell aufschreiend.

O nein! teure Kinder!

Die Kinder erwachen von diesem Aufschrei und richten sich auf.

NORMA kniet über sie gebückt und umfaßt sie.

Geliebte!

Sie beruhigt die Kinder und legt sie wieder zurück; noch knieend.

Herbei! Klothilde!

Klothilde kommt eilig von rechts.

Zweiter Auftritt.

Klothilde, Norma zu ihrer Linken. Die Kinder auf der Lagerstätte hinten.

NORMA.

Eile! Bringe mir Adalgisa!

KLOTHILDE.

Sie ist dir nahe!

Sie sucht einsame Pfade und weinet und betet.

NORMA erhebt sich.

Geh’!

Klothilde geht ab nach rechts.

Die Kinder schlafen wieder ein.

NORMA.

Meinen Fehltritt will ich bekennen

Und dann, dann sterben!

Adalgisa kommt von rechts.

Dritter Auftritt.

Adalgisa, Norma zu ihrer Linken. Die Kinder auf der Lagerstätte hinten.

Nr. 9. Recitativ und Duett.

ADALGISA furchtsam, mit gesenktem Blick.

Du willst mich sprechen?

Sie erhebt den Blick und geht rasch einige Schritte auf Norma zu; erschrocken.

Tief gefurcht die Stirne, bleich dein Gesicht?

NORMA.

Blässe des Todes!

Du sollst nun meine Schande erfahren!

Nur eine letzte Bitte höre und erfülle sie,

Wenn du Erbarmen hast

Mit dem gräßlichen Schmerz,

Der mich durchwühlet!

ADALGISA.

Alles, alles geschehe!

NORMA.

Du schwörest?

ADALGISA.

Ich schwöre!

NORMA.

So höre! Ein Ziel zu setzen

Dem mir verhaßten qualvollen Leben

Bin ich entschlossen.

Adalgisa macht eine erschrockene Bewegung.

NORMA.

Diese Teuern will ich nicht mit mir nehmen.

Sei ihnen Mutter!

ADALGISA heftig erschrocken.

Halt ein! Ich ihnen Mutter?

NORMA.

In der Römer Lager

Bring’ sie dem Manne,

Den ich zu nennen scheue.

ADALGISA.

Ach, was verlangst du!

NORMA.

Wird er dein treuer Gatte,

Sei sterbend ihm verziehen.

ADALGISA schaut schmerzlich zu Norma auf.

Gatte? Ha, nimmer!

NORMA groß, erhaben.

Sei unsern Kindern nun Mutter! –

Duett.

NORMA.

Diese Zarten jetzt beschütze,

Sei ihr Stab, sei ihre Stütze.

Nicht begehr’ ich Rang’ und Größe,

Hüten mögen sie die Herden;

Nur bedecke ihre Blöße

Und laß sie nicht Sklaven werden!

Immer wirst du daran denken,

Daß ich ihnen Mutter ward.

Freiheit wirst du ihnen schenken,

Sklavenlos ist allzuhart!

ADALGISA.

Hohe Norma, du Starke, Weise,

Bleibe Mutter, sei Freundin mir;

Deine Kinder kann ich dir nicht rauben,

Deinen Auftrag nimmer vollziehn!

NORMA.

Deine Eide –

ADALGISA.

Will ich halten,

Dir zum Heile, dir zum Gedeihen!

In das Lager will ich fliegen,

Deinen hehren Sinn zu künden;

Ja, mein Flehn wird ihn besiegen,

Meinen Mund mit Kraft beseelen.

Hoffe! Mit der Einsicht Waffen

Werd’ ich bald zurück ihn führen;

Hart ist nicht sein Herz geschaffen,

Norma herrschet noch darin.

NORMA.

Ich ihn bitten? Kannst du das glauben? Ich ihn?

ADALGISA.

Norma! O hör’ mich!

NORMA.

Ich darf nicht hören!

Mit der ausgestreckten Rechten.

Eile – fort!

ADALGISA.

Ach, nein, ich kann nicht! Ach, nein! –

Sie ergreift die ausgestreckte Rechte Normas.

Sieh’, o Norma, ach, hab’ Erbarmen,

Diese Pfänder verschmähter Liebe!

Habe Mitleid mit diesen Armen,

Eh’ du grausam, ja, grausam dich zerstörst!

NORMA ihre Hand von Adalgisa losmachend.

Ach, warum willst du mein Herz bewegen?

Neue Hoffnung soll ihm entkeimen?

Siehst doch, wie mit solchen Träumen

Du den stolzen Sinn verkehrst!

ADALGISA zeigt auf die Kinder.

Sieh’ die teuren Pfänder deiner Liebe,

O hab’ Erbarmen, ach!

Sieh’, o Norma, o hab’ Erbarmen!

Diese Pfänder der verschmähten Liebe,

Habe Mitleid mit diesen Armen,

Ehe du grausam dich zerstörest,

Dich grausam, dich selber zerstörst,

Dich selbst zerstörst!

NORMA.

Ach, warum, ach, warum willst du mein Herz,

Dieses Herz, ach! ach, warum denn mein Herz bewegen?

Ja, du willst nur mein Herz bewegen,

Neue Hoffnung soll ihm entkeimen!

Siehst du, wie mit solchen Träumen

Den Sinn mir, den Sinn mir verkehrst,

In mir verkehrst!

ADALGISA schließt die Mittelvorhänge und geht auf Norma zu.

Höre mein Flehen!

NORMA im Innersten bewegt, schwankend, hoffend.

Verlasse mich! Er liebt dich!

ADALGISA.

Er wird bereuen.

NORMA.

Und du?

ADALGISA.

Ich liebt’ ihn, nun kann

Ich ihm nur Mitleid weihen.

NORMA groß, bedeutend.

Du reine Seele! Du wolltest?

ADALGISA entsagend, feierlich.

Heiligen deine Rechte, oder mit dir

Auf ewig mich bergen in Waldes Nacht.

NORMA von Adalgisas Opfer aufs höchste ergriffen.

Ja, du siegest! umarme mich!

Gerührt, weich, mit Kuß und Umarmung.

Tugend, es siegt deine Macht!

Adalgisas Kopf in ihren beiden Händen haltend.

ADALGISA,NORMA.

Ja, bis zur letzten Lebensstunde

Bleib’ ich dir Freundin und treue Gefährte.

Ach, für zwei Herzen im engen Seelenbunde

Ist groß genug noch die weite Erde.

Sich umschlungen haltend.

Stürzt auch die Welt zusammen,

Steht der Altar in Flammen,

Halten zwei Schwesterherzen

Einander treu bewacht!

Verwandlung.

Nr. 10. Chor und Arie.

Der Vorhang hebt sich nach dem neunzehnten Takte.

Kurze Waldgegend.

Es ist früh am Morgen.

Vierter Auftritt.

Anführer und gallische Krieger mit Schilden, Lanzen, Keulen und Beilen bewaffnet.

Die Ersten kommen erregt von rechts vorn.

DIE ERSTEN.

Noch nicht fort?

DIE ZWEITEN.

Er ist im Lager, im Lager!

Nichts gewisser!

Die rauhen Klänge

Der Schlachtgesänge

Schallen laut empor!

Gebietrisch stehen

Adler noch am Lagerthor.

BEIDE in feurigem Unmute.

Ein kurzes Zaudern

Bringet unsern Plan zur Reife.

Wartet noch, wartet noch!

Ein kurzes Zaudern

Bringet unsern Plan zur Reife.

Ob sich Not und Elend häufe,

Gläubig blickt zu Gott empor!

In trotziger Ruhe.

Haltet still und keiner greife

Nun dem Rat der Götter vor!

Orovist kommt von links hinten.

Fünfter Auftritt.

Die Vorigen. Orovist.

OROVIST die Mitte nehmend.

Ihr Tapfern! Wohl durft’ ich hoffen,

Dem raschen Mut ein nahes Ziel zu zeigen;

Gern hätt’ ich euch befohlen,

Der Römer Stolz zu beugen.

Alle mit den Waffen in freudiger Bewegung.

OROVIST.

Doch – bezähmt euern Zorn!

Die Götter schweigen.

CHOR.

Schrecklich! soll in den Wäldern

Der verhaßte Prokonsul länger hausen?

Er ward nach Rom berufen!

OROVIST.

Er kehrt zurück zur Tiber,

Doch einen wildern Krieger

Gedenkt uns Rom zu senden.

CHOR.

Und Norma weiß? Und Frieden

Verkündet noch ihr Mund?

OROVIST.

Es war vergebens,

Zur Rach’ sie anzueifern.

CHOR.

Und was befiehlst du?

OROVIST.

Dem Schicksal die Stirn zu beugen,

Uns zu trennen und vorsichtig noch

Zu bergen unser Unternehmen.

CHOR trotzig, wild.

Warum Verstellung?

OROVIST.

Sie nur allein führt zum Ziele! –

Fluch den Römern! ihr Joch zu brechen,

Zucket krampfhaft diese Rechte!

Doch die Gottheit will nicht Gefechte,

Nur Verstellung rät sie an!

CHOR.

So laßt uns schweigen und schweigend harren,

Bis der Rache Stunden schlagen!

OROVIST.

Glaubt der Feind an unsre Schwächen,

Wird er sorglos sich entscharen:

Kommt die Stunde, soll er erfahren,

Daß der Gallier kämpfen kann!

CHOR.

Wehe Rom, wenn unsre Waffen

Stürmend seinen Adlern nahn!

Heuchelt denn, wenn heucheln nützet,

Wallt das Blut auch zornerhitzet!

Wehe Rom, wenn unsre Waffen

Stürmend seinen Adlern nahn!

Doch Verstellung rät sie an!

OROVIST.

Nur Verstellung rät sie an!

Kommt die Stund’, soll er erfahren,

Daß der Gallier kämpfen kann.

Doch Verstellung rät sie an!

Gruppe.

Verwandlung.

Nr. 11. Scene.

Der Vorhang hebt sich nach dem zehnten Takte.

Der heilige Hain des heidnischen Gottes Irmin wie zu Anfang des ersten Aufzuges.

Es ist Tag.

Sechster Auftritt.

Norma allein, wie im ersten Aufzug mit dem Kranz.

NORMA ruhig, doch freudig verklärt.

Er kehrt zurück!

Ja, fest kann ich vertrauen auf Adalgisa!

Er wird den Fehl bereuen,

Um Verzeihung flehn, wieder mein sein.

Ach! die süße Ahnung

Verscheucht die dunklen Wolken,

Die meine Stirn bedeckten!

Mit erhobenen Armen.

Es scheint die Sonne, wie in den Tagen

Unsrer jungen Liebe.

Klothilde kommt eilig von links.

Siebenter Auftritt.

Norma, Klothilde zu ihrer Linken. Dann nahe Stimmen.

NORMA tritt ihr erwartungsvoll entgegen.

Klothilde!

KLOTHILDE.

O Norma! Jetzt handle rasch!

NORMA.

Was sagst du?

KLOTHILDE.

Treulos!

NORMA.

Erzähle, berichte!

KLOTHILDE.

Umsonst flehte Adalgisa und weinte.

NORMA wendet sich von Klothilde ab nach vorn.

Ihr konnt’ ich trauen,

Ihr, meiner Feindin?

Sie log, die Falsche! bestürmte

Mein Herz mit Thränen!

Sie ist hingegangen, neu ihn zu fesseln!

KLOTHILDE.

Sie kehrt zurück zum Tempel,

Trauernd, beklommen,

Bereit, das Gelübde abzulegen.

NORMA ohne Klothilde anzusehen.

Und er?

KLOTHILDE.

Er schwur, vom Altar der Götter

Sich seine Braut zu rauben.

Norma giebt Klothilde ein Zeichen.

Klothilde entfernt sich nach rechts hinter dem Druidenstein.

NORMA.

Voll ist die Sündenschale

Und erwacht ist die Rache!

Ja, Blut soll fließen, römisches Blut,

Stromweis will ich’s vergießen!

Sie geht nach rechts hinauf zur heiligen Eiche, ergreift das dort hängende Schwert und schlägt dreimal damit auf den Schild.

Drommeten links in der Nähe.

CHOR links und rechts in der Nähe.

Schallt das Erz unsrer Gottheit?

Priesterinnen kommen mit Mantel, Schleier und Kranz von rechts hinter dem Druidenstein.

Orovist, Priester, vier Tempelwächter, zwei Barden, gallische Anführer und Krieger mit Schilden,

Lanzen, Keulen und Beilen bewaffnet, kommen von links, teils über den Felsenablauf.

Achter Auftritt.

Tempelwächter. Norma. Barden. Priesterinnen. Priester. Orovist. Krieger.

CHOR.

Norma, was soll’s?

Erklungen der Schild von Gott Irmin?

Wirst du der Erde Götterspruch künden?

NORMA hält das Schwert hoch.

Kämpfe! – Schlachten! – Vertilgung!

CHOR.

Doch hat erst heute dein prophet’scher Mund

Frieden geboten!

NORMA.

Die Götter zürnen und eure Feinde fallen!

Laßt Schlachtenruf erschallen,

Ihr starken Krieger! Kämpfet, kämpfet!

Nr. 12. Schlachtgesang.

CHOR begeistert gegen Norma.

Kämpfe! Kämpfe! die gallischen Eichen

Sind nicht stärker als Galliens Mann!

Wie das hungernde Raubtier die Herden,

Fallt die römischen Phalangen an.

Schlachtgemetzel! Vernichtung und Rache!

Falle Wucht und der Sturmbock erkrache!

Wie die Mistel der Sichel erlieget,

Sei der Römer durch Schwerter besieget!

Stürzt die Adler, beschneidet die Schwingen,

Tötet alles, was Waffen noch trägt!

Laßt ins Lager der Römer uns dringen,

Wo das Herz unsres Todfeindes schlägt.

Die Barden spielen die Harfe.

Die Krieger knieen nieder, erheben die Waffen, daß sie gesegnet werden.

Die Priester und Priesterinnen segnen die Waffen mit erhobenen Händen.

Norma auch segnet, das Schwert in der Linken vor sich hinhaltend, mit ihrer Rechten.

CHOR.

Auf, ihr kräftigen Söhne der Wälder!

Lasset den Boden mit Blut uns befeuchten,

In höchster Aufregung.

Daß die Strahlen der Sonne beleuchten

Roms Verderben und Galliens Sieg!

Die Krieger erheben sich und schlagen die Waffen aneinander.

Die vier Tempelwächter entfernen sich unauffällig nach rechts hinter dem Druidenstein.

Nr. 13. Recitativ und Duett.

OROVIST.

Du willst den Göttern opfern?

Noch gewahr’ ich kein Opfer.

NORMA.

Es wird sich stellen!

Es hat noch dem Altare

Ein Opfer nie gefehlt.

Lärmen rechts entfernt.

Doch welch Getümmel?

Klothilde kommt eilig von rechts hinter dem Druidenstein.

Neunter Auftritt.

Die Vorigen. Klothilde nimmt die Mitte und steht dann zurück.

KLOTHILDE.

Der Tempel ward geschändet

Durch einen Römer. In geweihter Halle,

Wo die Jungfrauen beten, ward er ergriffen.

Große Bewegung.

OROVIST UND CHOR.

Ha, ein Römer!

NORMA beiseite.

Was hör’ ich? Wenn er es wäre!

OROVIST UND CHOR nach rechts hinten sehend.

Der Frevler nahet!

Die vier Tempelwächter führen den entwaffneten Sever von rechts hinter dem Druidenstein herbei.

Zehnter Auftritt.

Die Vorigen. Sever Orovist zur Rechten. Die Tempelwächter.

NORMA beiseite.

Er ist es!

OROVIST UND CHOR.

Ha, Sever!

Norma giebt ein Zeichen.

Die Tempelwächter lassen Sever los und treten auf ihre vorige Stelle.

NORMA beiseite.

Süß ist der Rache Stunde!

Sie tritt über die Stufen herunter.

OROVIST.

Du Lästrer unsrer Götter,

Aus welchem Grund entweihtest du

Der frommen Jungfraun Zellen,

Betratest Gott Irmins Gebiet?

SEVER.

Durchbohrt mich, doch stellet keine Fragen!

NORMA.

Ich will ihn töten! Entfernet euch!

Sie tritt zwischen Sever und Orovist.

SEVER.

Wen seh’ ich? Norma!?

NORMA.

Ja, Norma!

OROVIST ergreift das Schwert eines Kriegers und reicht es Norma.

Das Heldenschwert ergreife,

Räche die Götter!

NORMA nimmt das Schwert.

Wohlan, es sei!

Sie erhebt es, um Sever zu durchbohren, hält inne.

OROVIST UND CHOR.

Du zögerst?

NORMA beiseite.

Ach, ich vermag’s nicht!

OROVIST UND CHOR.

Du wankst? – Darfst du noch zaudern?

NORMA beiseite.

Er flößt mir Mitleid ein.

OROVIST UND CHOR.

Durchstoß’ ihn!

NORMA unsicher und wankend.

Erst muß ich ihn befragen,

Ob er allein der Schuld’ge, ob jene Jungfrau

Nicht im geheimen Bunde stand mit dem Verführer;

Ich muß ihn sprechen ganz ohne Zeugen.

Sie giebt das Schwert an Orovist zurück.

OROVIST UND CHOR.

Welch Geheimnis?

SEVER für sich.

Ich bebe!

Die Priesterinnen, Klothilde, Orovist, Tempelwächter, Priester, Barden, Krieger gehen ab, woher sie kamen.

Elfter Auftritt.

Sever, Norma zu seiner Linken.

Duett.

NORMA schwer atmend.

Nun bist du in meinen Händen,

Niemand kann dich mehr erretten,

Ich vermag es.

SEVER.

Doch du darfst nicht!

NORMA.

Ja, ich will es!

SEVER.

Du, Norma?

NORMA.

Höre!

Schwöre mir bei unsern Söhnen

Und bei Phöbus Sonnenwagen,

Adalgisa zu entsagen, und mit ihr

Zum Altare nicht zu treten;

Und ich löse dann deine Ketten,

Sah heute dich, sah dich jetzt zum letztenmal!

Schwöre!

SEVER.

Nein! Ich bin nicht feige!

NORMA drängend.

Schwöre! Schwöre!

SEVER entschlossen.

Gieb mir den Tod!

NORMA.

Hoffest du,

Daß mir genüge nur dein Leben?

SEVER.

Es ist verfallen!

NORMA nahe an ihn herantretend.

Schon gezückt

Aufs Herz der Kinder war das Eisen!

SEVER aufschreiend.

Ha, unerhört!

NORMA schmerzlich weinend.

Schlummernd wollt’ ich sie ermorden!

Treulos ist mein Mut geworden,

Ich verschonte die Kinder; doch heute

Sind sie meine sichre Beute.

Zögre ferner, und ich vergesse,

Daß ich Gattin und Mutter bin.

SEVER außer sich.

Ha! Megäre, den Stahl entblöße!

Nimm mein Leben, o nimm es hin!

Kein Erbarmen!

NORMA.

Nur dich?

SEVER.

O daß ich allein als Opfer falle!

NORMA.

Meinst du? – Alle!

Tausend nicht von Römerleichen

Können meinen Grimm erweichen.

Adalgisa –

SEVER leidenschaftlich empört.

Auch sie?

NORMA.

Sie vergaß ihr Gelübde!

SEVER.

Willst du sie töten?

NORMA.

Büßen soll sie ihr Verbrechen,

Sterben heut’ den Flammentod!

SEVER flehend.

Strafe mich, den Missethäter,

Wende ab, was sie bedroht.

NORMA.

Sinkt dein Hochmut?

Zu spät nun. Verräter!

Durch das Wort, das jene richtet,

Wirst auch du, dein Glück vernichtet.

An dem Schmerz will ich mich weiden,

Lächeln bei dem Todesstöhnen;

Rächen mich, und euch verhöhnen

Kann ich jetzt, und will es auch!

Mit unterdrückter Stimme.

Kann mich rächen und euch verhöhnen;

Ja, bebet beide, ich will es auch!

SEVER.

Laß mich mein Verbrechen büßen!

Er kniet vor ihr.

Sieh’ mich hier zu deinen Füßen!

Richte mich mit strenger Wage,

Aber schone ihrer Tage.

Norma in vor Eifersucht rasender Bewegung.

SEVER.

Magst du mich allein verderben,

Segen sei mein letzter Hauch!

NORMA.

Durch das Wort, das jene richtet –

SEVER.

Laß mich mein Verbrechen büßen!

NORMA.

Wirst nun auch du –

SEVER.

Willst du nicht?

NORMA.

Dein Glück vernichtet!

SEVER.

Richte mich mit strenger Wage,

Aber schone ihrer Tage.

NORMA.

An dem Schmerz will ich mich weiden,

Lächeln bei dem Todesstöhnen,

Rächen mich und euch verhöhnen

Kann ich jetzt und will es auch.

SEVER.

Ungerechte!

NORMA.

Rache ist so süß!

SEVER.

Magst du mich allein verderben,

Segen sei mein letzter Hauch!

Er steht auf.

NORMA.

Rächen kann ich mich an beiden,

Und will es auch!

Ich kann und will und will es auch!

Nr. 14. Recitativ und Schlußarie.

SEVER.

Gieb mir das Eisen!

NORMA.

Du wagst es? Fort von mir!

SEVER stürzt nach rechts auf die Eiche zu, um das Schwert zu ergreifen.

Das Eisen! Das Eisen!

NORMA vertritt ihm den Weg und eilt hinauf.

Herbei, ihr Wächter!

Tempelpriester, erscheinet!

Sie ergreift das Schwert und schlägt dreimal auf den Schild.

Priesterinnen kommen zurück mit Mantel, Schleier und Kranz von rechts hinter dem Druidenstein.

Orovist, Priester, Tempelwächter, zwei Barden, gallische Anführer und Krieger mit Schilden, Lanzen, Keulen und Beilen bewaffnet, ebenso von links, teils über den Felsenablauf.

Zwölfter Auftritt.

Die Vorigen. Barden. Tempelwächter. Priesterinnen. Orovist. Priester. Krieger.

Norma schreitet herunter und in die Mitte.

Alle stehen erwartungsvoll.

NORMA.

Ein neues Opfer

Liefre ich eurem Grimme!

Eine Verruchte vom Priesterstande

Schloß schnöde Liebesbande,

Verriet die Götter,

Ward treulos ihrem Lande!

OROVIST UND CHOR.

Welch Verbrechen, welche Schmach!

Entdecke alles!

NORMA.

Ihr mögt den Holzstoß rüsten.

Vier Priester entfernen sich nach links hinten.

SEVER zu Norma.

Laß dich erweichen, töte sie nicht!

OROVIST UND CHOR.

Den Namen!

NORMA.

Vernehmt ihn! –

Sie zittert heftig; für sich.

Ich Thörin, darf ich eigne Schuld

An andern rächen?

CHOR.

Norma, den Namen!

SEVER zu Norma.

O nenn’ ihn nicht!

NORMA nach einem langen Blick auf Sever.

Ich selber!

Allgemeine größte Betroffenheit.

Alle stehen bewegungslos.

CHOR.

Du? – Norma?

NORMA.

Ich selber – entflammt den Holzstoß!

CHOR.

Mich fasset Grauen!

SEVER für sich.

Es bricht mein Herz.

CHOR.

Du uns betrügen?

Norma und Sever stehen ganz frei.

SEVER.

Ihr müßt nicht glauben –

NORMA.

Kann Norma lügen?

OROVIST UND CHOR in tiefster Trauer.

O welcher Schmerz!

NORMA zu Sever wie geflüstert.

In dieser Stunde sollst du erkennen,

Was für ein Herz du dein konntest nennen.

Du wolltest fliehen – du bist bezwungen,

Treuloser Römer, du bleibest hier!

Des Schicksals Stimme, der Götter Gnade.

Hat uns vereinigt am Todespfade;

Am Holzstoß hier nur in Flammenzungen

Hat deine Norma ein Grab mit dir.

SEVER zu Norma.

Da ich verloren, was ich besessen,

Kann deine Größe ich erst ermessen,

Und mit der Reue ist meine Liebe

Mit neuer Stärke zurückgekehrt.

NORMA.

Das Herz, das du gebrochen,

Der Liebe war es doch wert!

SEVER.

Ja, laß uns sterben so fest verschlungen –

Er umfaßt sie.

NORMA.

O grause Stunde!

SEVER.

Mein letzter Seufzer soll dir gehören,

Doch laß im Scheiden die Worte hören,

Daß der Verzeihung ich dennoch wert!

OROVIST UND CHOR.

O widerrufe die harten Worte,

Die unwillkürlich dem Mund entflogen!

Sag’, daß du rasest, daß du gelogen,

Daß nur im Wahnsinn die Lippe sprach.

Rein ist der Himmel, die Götter schweigen,

Und ruhig säuseln die alten Eichen.

O widerrufe, um wegzunehmen

Von dir die Strafe, von uns die Schmach,

Von uns die Schmach!

NORMA zu den Priestern.

Ich bin die Schuld’ge!

Zu Sever.

Du sollst erkennen,

Welch Herz du dein konntest nennen. –

Du sollst erkennen,

Welch Herz du dein konntest nennen!

Dahin! – Auf immer! – Dahin, dahin!

SEVER zu Norma.

Du wirst verzeihen! Nun laß uns sterben,

Einander wert. Du bist verloren,

Du bist verloren, erhabnes Wesen,

Verzeihe, verzeihe! Du bist verloren,

Erhabnes Wesen, dahin, dahin!

Zwei Priester kommen mit einem großen schwarzen Schleier von links hinten zurück und nehmen hinter Sever und Norma Aufstellung.

CHOR.

Norma! Ach, widerrufe! – Schweigst du? – Verstummt die Zunge?

NORMA leise zu Sever.

Himmel, meine Kinder!

SEVER leise.

Ach, elternlos! Verlassen!

NORMA ebenso.

Weh, unsre Kinder!

SEVER leise.

Sind Waisen!

CHOR.

Bist du die Schuld’ge, rede!

NORMA.

Ja!

Sie nähert sich plötzlich, von einem Gedanken ergriffen, Orovist.

Sever beobachtet beide mit gespannter

Aufmerksamkeit.

NORMA.

Doppelt ist mein Verbrechen!

CHOR.

Schrecklich!

NORMA zu Orovist.

O hör’ mich!

OROVIST.

Schändliche!

NORMA.

Vater, hör’ mich!

OROVIST.

O welcher Schmerz!

NORMA leise zu ihm.

Ich bin Mutter!

OROVIST entsetzt.

Mutter?

NORMA leise.

Verborgen hat Klothilde die teuern Pfänder;

Sei ihnen Vater, beschütze sie,

Ergreife mit ihnen die Flucht!

OROVIST leise.

Deine Kinder? Fort, lasse mich!

NORMA ebenso.

O Vater, es fleht dein Kind!

Sie fällt auf die Kniee.

SEVER UND CHOR.

Ha, welcher Schmerz!

NORMA immer leise zu Orovist.

Soll für der Mutter Frevelthat

Kindliche Unschuld büßen?

Kelche, die sich erschließen,

Früchte der bösen Saat?

Blut sind sie deines Blutes.

Kannst du sie wohl verstoßen?

O Vater, sei gnädig doch,

Erbarme dich!

Orovist weint.

SEVER für sich.

Er ist gerührt, es tritt ins Aug’

Ihm schon der Schmerz.

Mein Wunsch ist erfüllet

Und froh besteig’ ich nun das Gerüst!

Ja, mein Wunsch ist erfüllt,

Da er verzeiht,

Mein Wunsch erfüllet

Und froh besteig’ ich nun das Gerüst!

NORMA leise.

Vater, du weinst und verzeihest,

Du hast verziehen, das sagt die Thräne,

Mein Schmerz gestillet, mein Wunsch erfüllet

Und froh besteig’ ich nun das Gerüst!

Sie steht auf und umarmt Orovist.

OROVIST drückt sie bewegt und zärtlich ans Herz; leise.

Das Herz des Vaters hast du gerührt,

Es tritt ins Auge schon der Schmerz.

Tochter, ach, o bestieg’ ich

Selbst das Blutgerüst!

Mein Herz ist gebrochen!

Kann das dich trösten:

Dir sei verziehn, Tochter!

Ach, o bestieg ich selbst das Blutgerüst!

CHOR.

Weine, bete, o Druide,

Nimmer lächelt dir der Friede!

Nehmt den Schmuck aus ihrem Haar,

Dann zur Bahre, wo ihr sie

Als Opfer grüßt.

Die beiden Priester bedecken Norma mit dem schwarzen Schleier.

CHOR.

Zum Schafotte! Zum Flammentode!

Hebt die Fackeln! Macht rein die Lüfte!

Steig’, Verruchte, steig’, Verfluchte in das Grab!

OROVIST.

Geh’, du Arme!

NORMA sinkt unter dem Schleier zusammen.

Ach, ich scheide!

SEVER auf die Kniee stürzend.

Eine Flamm’ verzehrt uns beide!

NORMA.

Vater, ich scheide!

SEVER.

Unsere Liebe, sie reicht noch übers Grab!

OROVIST.

Du scheidest! Ach, es reicht

Des Vaters Liebe übers Grab!

Die beiden Priester wenden sich mit Sever und Norma nach hinten.

Vincenzo Bellini – I Puritani

Vincenzo Bellini

I Puritani

Opera seria in tre atti

Personaggi

Lord Gualtiero Valton

Sir Giorgio, suo Fratello

Lord Arturo Talbot

Sir Riccardo Forth

Sir Bruno Roberton

Enriehetta

Elvira, figlia di Lord Valton

Soldati di Cromvello

Dame

Paggi

Castellani e Castellane

Atto Primo.

Spazioso Terrapieno nella Fortezza.

Scena I.

Bruno e Soldati. Sentinelle.

SENTINELLA I.

All’ erta.

SENTINELLA II.

All’ erta.

TUTTE.

L’ alba apparì.

SENTINELLA I.

La tromba …

SENTINELLA II.

Rimbomba …

TUTTE.

Nuncia del dì.

CORO.

Quando la tromba squilla

Ratto il guerrier si desta:

L’ arme tremende appresta,

Alla vittoria va!

Pari del serro al lampo,

Se l’ ira in cor sfavilla,

Degli Stuardi il campo

In cenere anderà.

BRUNO.

O di Cromvel guerrieri,

Pieghiam la mente e il cor:

Ai mattutini cantici

Sacri al Divin Fattor.

CORO.

La Luna, il sol, le stelle,

Le tenebre e il fulgor,

Dan Gloria al Creator

In lor favelle.

La terra e i firmamenti

Esaltano il Signor.

A lui dian laudi e onor

Tutte le genti!

SOLDATO I.

Udisti?

SOLDATO II.

Udii …

TUTTI.

Fini!

BRUNO.

Al Re che fece il di

L’inno do’ puri cor!

Sali su i venti!

Scena II.

Coro di Castellani e Castellane.

I.

A festa.

II.

A festa.

TUTTI.

A festa.

Almo gioir s’ appresta;

A tutti rida il cor …

Cantate un casto amor.

CORO.

Garzon, che mira Elvira,

La bella Verginella,

L’appella la sua Stella,

Regina dell’ amor.

Quel occhie suo, quel viso

Nel labro suo quel riso

È rosa in sullo stel,

È un Genio che sta in Ciel.

I.

A festa.

II.

A festa.

TUTTI.

A festa.

Almo gioir s’appresta.

A tutti ride il cor.

Se a nozze invita amor.

Tutti partono.

Scena III.

Riccardo, e Bruno.

RICCARDO.

Or dove fuggo io mai? … Dove mai celo

Gli orrendi affanni miei? Come quei canti

Rispondono al mio cor funerei pianti!

O Elvira, o Elvira, o mio sospir söave,

Per scmpre io ti perdei’ ..!

Senza speme, ed amor … in questa vita

Or che rimane a me?

BRUNO.

La gloria e il Cielo

RICCARDO.

Qual voce? … che dicesti? … È vero, è vero!

BRUNO.

Apr’ il tuo core intero

All! amistà, n’avrai conforto …

RICCARDO.

È vano.

Ah! per sempre io ti perdei,

Fior d’amore, o mia speranza.

Ah! la vita ehe m’ avanza

Sarà vita di dolor …

Sarà esempio di terror! …

Quando errai per anni ed anni

Al poter della ventura,

Io sfidai sciagura e affanni

Nella speme del tuo amor.

Ah! qual sogno ingannator!

Breve marcia i Soldati trapasasno la scena.

BRUNO.

S’ apellan le schiere

A lor condottier.

RICCARDO.

Di gloria il sentiere

M’ è chiuso al pensier.

BRUNO.

Al grido d’ onore.

Non arde il tuo cor? …

RICCARDO.

Io ardo, e il mio ardore

È amore, è furor.

BRUNO.

Deh! poni in obblio

L’ età che fioriva

Ne’ sogni d’ amor.

RICCARDO.

Bel sogno bëato,

D’ amore e rontento,

O cangia il mio fato,

O cangia il mio cor.

Oh! come è tormento

Nel di del dolor

La dolce memoria

D’ an tenere amor.

Partono.

Scena IV.

Stanze d’ Elvira.

Elvira, e Sir Giorgio.

ELVIRA.

O amato zio, e mio secondo padre!

GIORGIO.

Perchè mesta così? m’ abbraccia, Elvira!

ELVIRA.

Deh! chiamami tua figlia!

GIORGIO.

O figlia, o nome

Che la vecchiezza mia consola e alletta,

Pel dolce tempo che ti veglio accanto

E pel söave pianto

Che in questo giorno d’ allegrezza pieno

Piove dal ciglio ad inondarmi il seno …

O figlia mia diletta,

Oggi sposa sarai …!

ELVIRA.

Sposa? No: mai!

Sai com’ arde in petto mio

Bella fiamma rilucente;

Sai ch’ è puro il mio desio,

Che innocente è questo cor.

Se tremante … all’ ara innante

Strascinata – un di sarò …

Forsennata – in quell’ istante

Di dolore io morirò …

GIORGIO.

Scaccia omai pensier si nero.

ELVIRA.

Morir sì … sposa, no, mai!

GIORGIO.

Che dirai se il Cavaliero

Qui vedrai, se tuo sarà?

ELVIRA.

Ciel! repeti, chi verrà?

GIORGIO.

Egli stesso …

ELVIRA.

Egli… Chi…

GIORGIO.

Arturo.

ELVIRA.

E fia vero?

GIORGIO.

Oh figlia … il giuro!

ELVIRA.

Desso!… Arturo? oh gioja’ Arturo?

GIORGIO E ELVIRA.

Non è sogno … Oh Arturo! / Oh Elvira! … oh amor!

GIORGIO.

Piangi, o figlia, nel mio seno:

Piangi, ah! piangi di contento.

Ti cancelli ogni tormento

Questa lagrima d’ amor.

E tu mira, o Dio pietoso,

L’ innocenza in uman velo:

Benedici tu dal Cielo

Questo giglio di candor.

ELVIRA.

Quest’ alma, al duolo avvezza,

Sì vinta è dal gioir,

Che ormai non può capir

Sì gran dolcezza.

Chi mosse a’ miei desir’

Il genitor?

GIORGIO.

Ascolta.

Surgea la notte solta,

Tacea la Terra e il Ciel,

Parea Natura avvolta

D’ un fosco e mesto vel.

L’ ora propizia ai miseri

Il ino pregar, tue lagrime,

M’ avvaloràr sì l’ anima

Ch’ io corsi al genitor.

ELVIRA.

O mio consolator.

GIORGIO.

Incominclai: »Germano,«

Nè più potei parlar;

Allor bagnai sua mano

D’un muto lagrimar.

Poi ripigliai tra i gemiti:

»L’ angelica tua Elvira

Al prode Artur sospira:

Se ed altre nozze andrà…

La misera morrà!«

ELVIRA.

Oh! spirto di pietà.

Sceso dal Ciel per me.

E il padre?

GIORGIO.

Ognor tacea…

ELVIRA.

Poscia?

GIORGIO.

Scalmò: »Riccardo

Chiese, e ottenea mia fe, …

Ella mia figlia avrà!«

ELVIRA.

Ciel! solo a udirti io palpito!…

E tu?

GIORGIO.

»La figlia misera«

Io ripetea, »morrà.«

»Ah, viva« ei mi dice,

E stringemi al sen.

Sia Elvira felice,

Sia lieta d’ amor.

ELVIRA.

Odi… Oh Ciel! qual suon si desta?

GIORGIO.

Ascoltiam, ti rassicura.

E il segnal di gente d’ arme.

ARMIGERI.

Viene il prode e nobil Conte

Artur Talbo Cavalier!

GIORGIO.

Non te ‘l dissi?

ELVIRA.

Oh! padre mio!

GIORGIO.

Pago alfine è il tuo desio!

ARMIGERI.

Lord Arturo varchi il ponte.

Fate campo al pro’ guerrier.

GIORGIO.

A quel suono, al nomo amato,

Al tuo core or presta fede:

Questo giorno avventurato

D’ ogni gioja è bel sorier …!

ELVIRA.

A quel nome, al mio contento,

Al mio core io credo appena.

Tanta gioja, oh Dio! pavento,

Non ho lena a sostener!

Partono.

CORO.

Ad Artur, de’ Cavalier’

Bel campione in giostra e amor,

Le donzelle ed i guerrier’,

Fanno festa e fanno onor.

Partono.

Scena V.

Sala d’ Arme.

Lord Arturo con alcuni Scudieri e Paggi, Elvira, Valton, Sir Giorgio, Damigelle con Castellani e Castellane, Bruno e Soldati.

UOMINI.

Ad Arturo!

DONNE.

A Elvira!

TUTTI.

Onor.

Coroniam beltà e valor!

DAMIGELLE.

Ella è sior di vergineile,

Bella al par di primavera:

Come l’ astro della sera

Spira all’ alma pace e amor.

SCUDIERI.

Bello egli è tra’ Cavalieri,

Com’ è il cedro alla toresta:

In battaglia egli è tempesta,

È campione in giostra e amor.

ARTURO.

A te, o cara, amor talora

Mi guidò furtivo, e in pianto;

Or mi guida a te d’ accanto

Tra le feste e l’ esultar

Al brillar di si bell’ ora,

Se rammento il duol passato,

Vo in ebbrezza… e son bëato,

M’ è celeste il giubilar!

ELVIRA.

Oh mio Arturo!

ARTURO.

Oh Elvira mia!

ELVIRA.

Or son tua!

ARTURO.

Sì, mia tu sei!

TUTTI.

Cielo, arridi a’ voti miei,

Benedici e fede e amor.

Scena VI.

Detti, poi Enrichetta.

VULTON.

Si compia senza me l’ augusto rito.

Mercè di questo scritto

Voi sino al tempio aperto passo avrete.

Tu gli accompagnerai.

Oh nobil Dama,

L’ Alto Anglican sovrano Parlamento.

Ti chiama al suo cospetto: io ti son scorta.

ENRICHETTA.

(Ahimè ehe sento!) E che da me si chiede?

VALTON.

A me s’ addice

Obbedir e tacer. Altro non lice.

ARTURO.

E di Stuardi amica?

GIORGIO.

È prigioniera

Da molte lune, e fu da ognun creduta

Amica de’ Stuardi, e messaggera

In mentito abito e nome.

ARTURO.

(Oh dio! Che ascolto!

E deciso il suo fato: essa è perduto.

Oh sventurata!)

ENRICHETTA.

(Qual pietà in quel volto!)

VALTON.

Oh figli! al tempio alle pompose feste

Accorra ognun. La nuzïale veste

Va, o diletta, a indossar. Ite voi seco.

Fuori del vallo i miei destrier’ sin presti

Che in breve io quì sarò. La nostra andata

Ci è sorza d’ affrettar.-Com’ io vi unisca

E a voi sorrida il Cielo, o coppia amata

Scena VII.

Enrichetta ed Arturo.

ENRICHETTA.

(Pietà e dolore

Sta in fronte, e fanno sicurtà del core)

Cavalier!

ARTURO.

S’ or ti è d’ uopo di consiglio,

Di soccorso, e d’ alta, in me t’ affida!

ENRICHETTA.

Se mi stesse sul capo alto periglio?

ARTURO.

Deh! parla … oh Dio!… che temi?

ENRICHETTA.

Breve ora, e sarò spenta!… ah, tu ne fremi …

ARTURO.

Sì, fremo … io fremo

Per te, per me, pel padre mìo che spento

Cadea fido ai Stuardi! E tu chi sei?

Oh!… chi tu sii, ti vo’ salvar.

ENRICHETTA.

È tardi!

Figlia a Enrico, a Carlo sposa

Pari ad essi avrò la sorte …

ARTURO.

Oh!… Regina …

ENRICHETTA.

Attendo morte!

ARTUR.

Taci, ah! taci, per pietà!

Fuor le mura … a tutti ascosa

Ti trarrò per vie secure…

Tu n’ andrai di quì…

ENRICHETTA.

Alla scure…

Scampo e speme… o Artur non v’ha…

ARTURO.

No, Regina, ancor v’ è speme:

O te salva … o spenti ìnsieme

ENRICHETTA.

Cangia, o Arturo, il pio consiglio.

Pensa al tuo mortal periglio.

Pensa a Elvira, il tuo tosoro,

Che ti attende ai sacro altar!

ARTURO.

Non parlar di lei che adoro

Di valor non mi spogliar.

ENRICHETTA.

Sventurata prigioniera,

Il mio iato io seguirò:

Giunse a me l’ estrema sera.

Per te l’ alba incomineiò!

ARTURO.

Sarai salva, o sventurata,

O la morte incontrerò:

E una sorte fortunata

Nel morire invocherò.

Scena VIII.

Elvira, Giorgio, e detti.

ELVIRA.

Son vergin vezzosa-in vesta di sposa:

Son bianca ed amil-qual giglio d’ April:

Ho chiome odorose-cui cinser tue rose:

Ho il seno gentil-del tuo bel monil.

ENRICHETTA, ARTURO, GIORGIO.

Si miro il tuo candor,

Mi par la Luna alìor

Che tra le nubi appar

La notte a consolar.

Se ascolto il tuo cantar,

Tn Angelo mi par

Che intuoni al primo albor

Inni al supperno amor.

ELVIRA.

Dimmi, s’ è ver che m’ ami…

ENRICHETTA.

Dimmi, o gentil, che brami?

ELVIRA.

Qual mattutina stella

Bella vogl’ io brillar.

Del crin le molli annella

Mi giova ad aggraziar.

ENRICHETTA.

Elvira mia diletta,

Son presta al tuo pregar.

ARTURO, GIORGIO.

Fanciulla e semplicetta

Ognor desia scherzar.

Scusar a te s’ aspetta

Suo troppo vezzeggiar.

ELVIRA.

A illegiadrir mia prova,

Deh! non aver a vil:

Il velo in foggia nova

Sul capo tuo gentil.

ENRICHETTA.

Il vezzo m’ alletta:

Mi è caron a secondar.

ELVIRA.

O bella ti celo

Le anella del crin,

Com’ io nel hel velo

Mi voglio celar.

Ascosa, o vezzosa,

Nel velo divin

Or sembri la sposa

Che vassi all’ altar.

ENRICHETTA.

Ascosa in bianco vel

Or posso, oh Dio, celar

L’ affanno, il palpitar,

L’ angoscia del mio cor!

Deh! tu pietoso Ciel,

Raccogli con favr

La prece di dolor.

Ch’ osai a te levar!

ARTURO.

Oh! come da quel vel.

Che le nasconde il crin,

Veggio un splendor divin

Di speme a balenar.

Deh! tu, pietoso Ciel,

M’ avviva il tuo favor:

Mi fa da un reo furor

La vittima salvar!

GIORGIO.

Elvira, col suo vel

Un zeffiretto appar,

Un’ iride sul mar,

Un silfo in grembo al fior;

T’ arrida, o cara, il Ciel

Col roseo sua favor.

Tal ch’ io ti veggia ognor

Tra vezzi a giubilar!

TALTON, CORO.

Elvira, mia / deh! Elvira

Il dì l’ ore avanza!

ELVIRA.

Ah! il core mi sento.

Per gioja balzar

M’ attendi, che in breve

Vogliamo ballar.

ARTURO, GIORGIO, ENRICHETTA.

Se il padre s’ adira

Ah! riedi a tua stanza:

Sarà il tuo fedel

Che t’ erni del vel.

Elvira parte con Giorgio.

Scena IX.

Enrichetta ad Arturo.

ENRICHETTA.

Sulla virginea testa

D’ una felice un bianco vel s’ addice.

A me non già…

ARTURO.

T’ arresta!

E’ chiaro don del Ciel! cosi ravvolta

Deluderai la vigilante scorta…

Tu mi sposa parrai…

Vieni.

ENRICHETTA.

Che dici mai?

Tu corri a tua ruina, a orribil sorte!

ARTURO.

Vieni… ah vieni… t’ involo a certa morte.

Scena X.

Riccardo, e detti.

RICCARDO.

Ferma. Invan rapir pretendi

Ogni ben ch’ io aveva in terra:

Quì ti sfido a mortal guerra,

Trema… ah! trema del mio acciar!

ARTURO.

Spezzo, o audace, il tuo furore;

La mortal disfida accetto:

Questo ferro nel tuo petto

Sino all’ elsa io vo’ piuntar.

ENRICHETTA.

Pace… pace… ah! v’ arrestate.

Per me sangue non versate.

ARTURO.

Ah! che fai?

RICCARDO.

La prigioniera?

ENRICHETTA.

Dessa io son!

ARTURO.

Tua voce altéra

Or cel ferre sosterrai.

Vien…

RICCARDO.

Con lei tu illeso andrai…

ARTURO.

E fia ver?

ENRICHETTA.

(Qual savellar!)

RICCARDO.

Più non vieto a voi l’ andar.

ARTURO, ENRICHETTA.

Gente appressa… o Ciel, fuggiamo!

RICCARDO.

Si fuggite… il vuole il Cielo!

ARTURO.

Pria che siam oltre le mura

Parlerai?

RICCARDO.

No! t’ assicura.

ARTURO.

Tu le giura.

RICCARDO.

Il giuro.

ARTURO, RICCARDO, ENRICHETTA.

Addio!

Arturo ed Enrichetta partono.

Scena XI.

Riccardo, Valton, Bruno, Elvira con Damigelle, indi Soldati Puritani, Castellani e Castellane.

RICCARDO.

È’ già al poate-passa il forte

E’ alla porte – Già n’ andò.

CORO.

Al tempio, al tempio, a festa!

ELVIRA.

Dov’ è Arturo?

RICCARDO.

Dianzi fu quì…

ELVIRA.

Ovo sei, o Arthur?…

RICCARDO.

Partì!

ELVIRA, RICCARDO, GIORGIO.

Già fuor delle mora – Laggiù alla pianura.

CORO.

La tua prigioniera – La rea messaggera

Col vil Cavaliero. – Ciascun sa un destriero

Spronando… volando… – Mirate celà!

VALTON.

Soldati, accorrete, coi bronci tuonate,

All’ arme appellate, correte… volate,

Pel erin trascinate i due traditor’!

TUTTI.

All’ arme!

VALTON.

T’ affretta.

TUTTI.

All’ arme!

CORO.

Vendetta!

ELVIRA.

La dama d’ Arturo è a bianco velata

La guarda e sospira sua sposa la chiama:

Elvira è la Dama? Non sono più Elvira!

CIORGIO, CORO.

Elvira? chi dici?

ELVIRA.

Io Elvira? ah! no… no!

CORO.

La misera è pallida…

E’ immobile e squallida…

Le luci non gira…

Sorride, sospira…

Demente si fa… Oh Cieli… pietà.

ELVIRA.

Arturo, ah! già ritorni? Dunque sei fid ancor?

Ah! vieni al tempio – fedele Arturo,

Eterna fede – mio ben ti giuro!

Com’ oggi è puro – sempre avrò il core.

Vivrò d’ amore – morrò d’ amor.

CORO.

Si crede all’ ara.. Giura ad Arture…

Ella sì tenera… Ei sì spergiuro…

Ella sì candida… Ei traditor…

Misera vergine – morrà d’ amor.

GIORGIO, RICCARDO, CORO.

Oh! come ho l’ anima – trista e dolente

Udendo i gemiti – dell’ innocente.

Oh! come perfido – il traditore

Che in tanti spasimi – Iasciò quel cor!

ELVIRA.

Ti veggo… già fuggi? O ingrato, abbandoni

Chi tanto t’amò!… Arturo.. oh Dio!.. no…

CORO.

Ahi! dura sciagura – ahi lutto e dolor!

Si bella, si pura – del ciel creatura:

Nel dì bel delitto – schernita, tradita!

Andrà maledetto – il vil traditor.

ELVIRA.

Qual febbre vorace – m’ uccide: mi oface,

Qual fiamma, qual’ ira m’avampa e martira!

Fantasmi perversi – fuggite dispersi!…

O in tanto furor – sbranatami il cor.

CORO.

Non casa, non spiaggia raccolga i fuggenti!

In odio del Ciel, in odio ai viventi;

Battuti dal venti – da orrende tempeste,

Non trovin lor teste – un luogo a posar,

Erranti piangenti – in orrida guerra

Col Cielo! la Terra – il mar, gli elementi

Da tutti fuggiti, schivati, rejetti,

Negli arsi lor petti – sia vita il penar.

Atto Secondo.

Stanza come nell’ Atto primo.

Scena I.

Castellani e Castellane, Puritani, Bruno e Giorgio; poi Riccardo.

CORO.

Qual novella?

GIORGIO.

Or prende posa.

CORO.

Sventurata!… E’ ognor dolente?

GIORGIO.

Mesta, e lieta…

CORO.

E’ senza tregua.

GIORGIO.

Splende Il senno… or si dilegna

Alla misera innocente,

TUTTI.

Come mai?

GIORGIO.

Dir lo poss’ io?

Se nel duol che m’ ange il seno

Ogni voce trema e muor!

CORO.

Deh! favella…

GIORGIO.

Mi lasciate.

CORO.

Ten preghiam.

GIORGIO.

A! no: cessate.

BRUNO, CORO.

Deh! ti muova quell’ ambascia

Che ci aggrava al tuo dolor.

GIORGIO.

Siate paggi… v’ appressate

Cinta di rose e col bel crin disciolto

Talor la cara vergine s’ aggira,

E shiede all’ aura, ai fior’ con mesto volto:

Ove andò Elvira!

Bianco-vestita, qual se all’ ara innante,

Adempie il rito e va cantando: Il giu o;

Poi grida per amor tutta tromante!

Ah vieni! Arturo!

CORO.

Ahi! figlia miscra – delira ancor!

Quanto fu barbaro – il seduttor!

GIORGIO.

Geme talor qual tortora amorosa,

Or cade vinta da mortal sudore,

Or l’ odi, al suon dell’ arpa lamentosa,

Cantar d’ amore.

Or scorge Artura nell’ altrui sembiante

Poi del suo inganno accorta, e di sua sorte,

Geme, piange, s’ affanna, e ognor più ammante

Invoca morte.

CORO.

Ahi! siglia misera – morir d’ emor!

Scenda una folgore – sul traditor.

RICCARDO.

Di suo fulgore il Ciel non sarà lento!

A scure infame Artur Talbo è dannato

Dall’ Anglican Sovrano Parlamento.

È giusto fato.

CORO.

Quaggiù nel mal che questa valle serra

Ahi buoni e ai tristi è memorando esempio

Se la destra di Dio tremenda afferra

Il crin dell’ empio.

RICCARDO.

Di Valton l’innocenze a voi proclama

Il parlamento, e ai primi onor’ Io chiama.

CORO.

Qual doglia, Valton, se vedran tue eiglia

Insana ancor la tua diletta siglia!

RICCARDO.

E non v’ ha speme

Alcuna?

GIORGIO.

Medic’ arte n’ assecura

Che una subita gioja, o gran sciaguro,

Potria sanar la mente sua smarrita.

CORO.

Qual mai t’ attendc, o Artur, pena infinita!

RICCARDO.

In me, Duce primier, parla Cromvello.

Il vil, che è ognora in suga,

E dal suo seno rigettò Inghilerrta,

Lunge ue stia. E sua rea fortuna,

O malizia. Io tragga a questa terra,

Non abbia grazia, nè pietade alcuua.

Il Corto parte.

Scena II.

Elvira, e detti.

ELVIRA.

Ah! rendetemi la speme.

O lasciatemi morir

GIORGIO.

Essa qui vien… la senti?

Oh! come è grave il suon de’ suoi lamenti

ELVIRA.

Qui la voce sua soave

Mi chiamava… e poi spari.

Qui giurava esser fedele,

Poi crudele – mi fuggì!

Ah? mai più qui assorti insiemo

Nella gioja de’ sospir’.

Ah! rendetemi la spemo

O lasciatemi morir.

GIORGIO, RICCARDO.

Quanto amore è mai raccolto

In quel volto e in quel dolor.

ELVIRA.

Chi sei tu:

GIORGIO.

Non mi ravvisi?

ELVIRA.

Padre mio!… mi chiami al tempio?

Non è sogno… oh! Arturo… oh amor!

Ah! tu sorridi… asciughi il pianto!

A Imen mi guidi… al ballo, al canto!

Ognun s’ appresta a nozze, a festa!

E meco in danze esulterà.

Tu pur meco danzerai?

Vieni a nozze!

GIORGIO, RICCARDO.

Oh Cielo!

ELVIRA.

Ei piange!

Egli piange.. Ei forse amò!

GIORGIO, RICCARDO.

Chi frenar il pianto può!

ELVIRA.

M’ odi; e dimmi: amasti mai?

RICCARDO.

Gli occhi affissa in sul mio volto,

Ben mi guarda, e lo vedrai…

ELVIRA.

Ah!… se piangi… ancor tu sai

Che un cor fido nell’ amar

Sempre vive di dolor!

GIORGIO.

Deh! t’ aequeta, o mia diletta,

Tregua al duol dal tempo aspetta.

ELVIRA.

Mai!…

RICCARDO, GIORGIO.

Clemente il Ciel ti sia.

ELVIRA.

Mai.

RICCARDO, GIORGIO.

L’ ingrato alfine obblia.

ELVIRA.

Ah! mai più ti rivedrò.

RICCARDO, GIORGIO.

Si fa mia la sua ferita,

Mi dispera e squarcia il cor.

ELVIRA.

O toglietemi la vita,

O rendetemi il mio amor!

RICCARDO, GIORGIO.

Tornò il riso in sul suo aspetto,

Qual pensiero in lei brillò?

ELVIRA.

Non temer del padre mio,

Co’ miei pianti il placherò.

Ogni affanno andrà in obblio,

Tanto amor consolerò.

GIORGIO.

Essa in pene è abbandonata,

Sogna il gaudio che perdè?

RICCARDO.

Qual bell’ alma innamorata

Un rival rapiva a me!

ELVIRA.

Vien, diletto, è in Ciel la Luna;

Tutto tacc intorno intorno:

Ein che spunti in Cielo il giorno,

Vien ti posa sul mio cor.

Deh! t’ affretta, o Arturo mio,

Riedi, o caro, alla tua Elvira:

Essa piange, e ti sospira.

Riedi, o caro, al primo amor.

GIORGIO, RICCARDO.

Possa un di, quell’ inselice,

Mercè acer di tanto affetto:

Possa un giorno nel diletto

Obbliare il suo dolor!

Ricovrarti ormai t’ addice,

Stende notte il cupu orror.

Elvira parte.

Scena III.

Giorgio. Riccardo.

GIORGIO.

Il rival salvar tu dei,

Il rival salvar tu puoi.

RICCARDO.

Io nol posso…

GIORGIO.

Tu non vuoi.

RICCARDO.

No!

GIORGIO.

Tu il salva?

RICCARDO.

Ei perirà!

GIORGIO.

Tu quell’ora ben rimembri

Che fuggì la prigionlera.

RICCARDO.

Si…

GIORGIO.

D’Artur fu colpa intera?

RICCARDO.

Tua favella ormai…

GIORGIO.

E’ vera.

RICCARDO.

Parla aperto…

GIORGIO.

Ho detto assai.

RICCARDO.

Fu voler del Parlamento,

Se ha colui la pena estrema

Di tutt’ altri l’ ardimentc

In Artur si domerà.

Io non l’ odio, lo no ‘l pavento,

Ma l’ indegno perirà.

GIORGIO.

Un geloso e reo tormento

Or t’ invade e accieca… ah’ trema!

Il timorso e lo spavonto

La tua vita strazierà.

Se il rival per te fia spento

Un’ altr’ alma il seguirà.

RICCARDO.

Chi?

GIORGIO.

Due vittimo farai!

E devunque te ne andrai

L’ omhra lor ii seguirà!

Se tra il nujo un fantasma vedral

Bianco, lieve.. che geme e sospira,

Sarà Elvira-che mesta s’ aggira,

E ti grida: io son morta per te.

Quando il Cielo è in tempesta più scuro

S’ odi un’ ombra affannosa, che freme,

Sarà Artur ehe t’ incalza, ti preme,

Ti minaccia do’ morti il suror.

RICCARDO.

Se d’Elvira il fantasma dolcente

M’ apparisce e m’ incalzi e s’ ardiri,

Le mie preci, i singulti, sospiri

Mi sapranno ottenere mercè.

Se l’ adiato fantasma d’ Arturo

Sanguinosa sorgesse d’ Averno,

Ripiombarlo agli Abissi in eterno

Lo farobbe il mio immenso furor.

GIORGIO.

Il duol che si m’ accora

Vinca la tua bell’ anima.

RICCARDO.

Han vinto le tue lagrime…

Mira, ho bagnato il ciglio.

GIORGIO, RICCARDO.

Ogni virtude onora

Chi han sensi di pietà.

GIORGIO.

Mia man non è ancor gelida!

Con te combatterà.

RICCARDO.

Forse dell’ alba al sorgere

L’ oste ci assalirà.

S’ ei vi sarà.

GIORGIO.

Morrà.

Sia voce di terror,

Anglia, vittoria, onor!

RICCARDO, GIORGIO.

Suoni la tromba, e intrepido

Io pugnerò da forte.

Bello è affrontor la morte

Gridando fedeltà!

Amor di gloria impavido

Mieta i sanguigni alleri,

Poi terga i bei sudori.

E i pianti la pietà.

Atto Terzo.

Loggia in un giardino.

Scena I.

Arturo, poi Elvira.

ARTURO.

Son salvo, alfin son salvo. I miei nemici

Fallira il colpo, e mi smarrir di traccia.

Oh! come è dolce, oh! come a un infelice,

Dopo il misero errar di riva in riva,

Toccar alfin la terra sua nativa.

Vedere ad abbraciar co lei che in core

Gli fu scolpita per la man d’ amore.

ELVIRA.

A una fonte afflitto e solo

S’assideva un Trovator.

E a sfogar l’immenso duolo

Sciolse un cantico d’amor

ARTURO.

La mia canzon d’amore!… Ah! Elvira ah! Elvira.

Ove t’aggiri tu?… Nessun risponde…

A te così io cantava

Di queste selve tra le dense fronde,

E tu allor facevi eco al canto mio!

Deh! se ascoltasti l’ ameroso canto..

Odi quel d’un afflitto odi il mio pianto.

Qual suon! Alcun s’apressa.

CORO.

Agli spaldi alle torri andiam!

ARTURO.

Ancor di me in traccia.

CORO.

Si cerchera, si trovera.

ARTURO.

O Dio, ove m’ aseondo?

CORO.

No, no! non fuggira.

ARTURO.

Ad altro lato vanno i furenti.

Son già lontani. Perche mai non oso

Porro il piede entro l’adorate soglie,

Dire a Elvira il mio duol, la fede mia?

Ah no perder potrei me stesso e lei.

Or si ripigli il canto. Forse a me

Verra, se al cor le suono,

Come nei di felici, quando uniti

Dicemmo: io t’ amo.

Carre a valle, corre a monte

L’ infelice pellegrin,

Ma il dolor gli è sempre a fronte,

Gli è com agno nel cammin.

Cerca il sonno a notte scura

L’infelice pellegrin,

Sogna e il desta la sciagura

Della patria e il suo destin.

Sempre eguali ha i luoghi e l’ore

L’infelice trovador.

L’esilito allor che muore

Ga sol posa al suo dolor

Scena II.

Elvira, ed Arturo.

ELVIRA.

Finì… me lassa! oh! come dolce all’ atma

Mi scendea quella voce… Oh Dio! finì..

Mi parve… Ah! rimembranze! ah! vani sogni!

Ah! mio Arturo, ove sei?

ARTURO.

A’ piedi tnoi,

Ivira, ah! mi perdona!

ELVIRA.

Arturo? è desso!

Sei pur tu?… Or non m’inganni?

ARTURO.

Ingannarti?… ah! no… giammai

ELVIRA.

Io vacillo… Temo afianni.

ARTURO.

Non temer… spariro i guai,

Ove a noi sorride amor.

Nel mirarti un solo istante

Io sospiro, e mi consolo

D’ogni pianto e d’ogni duolo

Che provai lontau da te.

ELVIRA.

Ch’ei provò lontan da me?…

Quanto tempo?… lo rammenti.

ARTURO.

Fur tre mesi…

ELVIRA.

Ah! no: tre secoli

Di sospiri e di tormenti;

Fur tre secoli d’orror!

Ti chiamava ad ogni istante!

Riedi, o Arturo, mi consola,

E rompeva ogni paiola

Coi singulti del dolor!

ARTURO.

Den! perdona… Ella era misera

Prigioniera… abbandonata.

ELVIRA.

Dì, se a te non era cara,

A che mai seguir colci?

ARTURO.

Or t’infingi, o ignori ch’ ella

Presso a Morte…

ELVIRA.

Chi? favella

ARTURO.

La Regina.

ELVIRA.

La Regina?

ARTURO.

Un indugio… e la meschina

Su d’un pulco a morte orribile…

ELVIRA.

E fia ver? Qual lume rapido

Or balena al mio pensier.

Dunque m’ami?

ARTURO.

E puoi temer?

ELVIRA.

Dunque vuoi?

ARTURO.

Star teco ognor.

Oh mia diletta Elvira

Amor, delizia e vita,

Non mi sarai rapita

Or che ti stringo al cor.

Ansante, ognor tremante

Ti chiamo… e ognor ti bramo…

Vicn; mi ripeti: io t’amo,

T’amo d’immenso amor.

ELVIRA.

Caro, non ho parola

Ch’ esprima il mio contento:

L’ alma elevar mi sento

In estasi d’amor.

Ansante… ognor tremante

Ti chiamo, e te sol bramo.

E mille volte: io t’amo,

A te ripete il cor.

ARTURO.

Ancor di nuovo questo suon molesto.

I mici nemici!

ELVIRA.

Si, quel suon funesto:

Io conesco quel suon… ma tu non sai

Che più no ‘l temo omai! – Nella mia stanza

Squarciato ho il vel di che s’orno sua testa…

Calpestai le sue pompe.. ed all’ aurora..

Con me tu ancora…

Verrai a festa e a danze!…

ARTURO.

Oh Dio, che dici?…

ELVIRA.

Così come tu guardi,

Mi guardar essi, e intender mai non sanno

Il parlar, il mio riso… il duol, l’affanno!

ARTURO.

Oh ti scuoti… tu vaneggi?

I.

Alto la!

II.

Fedel drapello.

I.

E chi viva?

II.

Anglia e Cromvello.

TUTTI.

Vincerà!

ARTURO.

Vien: ci è forza ormci partir!

ELVIRA.

Ah tu vuoi fuggirmi ancor?…

No: colei più non t’avrà.

ARTURO.

Vien.

ELVIRA.

T’ arresti il mi dolor.

ARTURO.

Taci…

ELVIRA.

O genti… ci vuol fuggir!

ARTURO.

Taci…

ELVIRA.

Ajuto per pietà!

ARTURO.

Ah!

Scena III.

Giorgio, Riccardo, Bruno, Armigeri, Castellani e Castellane, e detti.

GIORGIO.

E’ qui Arturo?

RICCARDO.

Arturo?

TUTTI.

Arturo!…

RICCARDO.

Cavalier, ti colse il Nume

Punitor de’ tradimenti.

GIORGIO, DONNE.

Oh infelice! un destin rio

A tal spiaggia or ti guidò!

RICCARDO, ARMIGERI.

Talbo Artur la patria oh Dio!

Te alla morte condannò.

ELVIRA.

Morte!

UOMINI.

A morte!

GIORGIO, DONNE.

Ahi! qual terror!

UOMINI.

Dio ragginnge i traditor’!

ELVIRA.

Che ascoltai?

CORO.

(Sì tramutò!

Si fe’ smorta… ed avvampò!)

ARTURO.

Credeasi, misera!

Da me tradita.

Traea la vita

In tal martin!

Or sfido i fulmini,

Disprezzo il Fato.

Se a lei da lato

Potrò morir!

ELVIRA.

Qual mai funeren

Voce funesta

Mi scuote e desta

Dal mio martir!

Io fui sì baibara,

Lo trassi a morte

M’ avrà consorte

Nel suo morir!

GIORGIO.

Quel suon funereo

Feral rimbomba,

Nel sen mi piomba,

M’ agghiaccia il cor!

Sol posso, ahi misero!

Tremar e fremere:

Non ha più lagrime

Il mio dolor..

RICCARDO.

Quel suon funereo,

Ch’ apre una tomba,

Cupo rimbomba,

M’ infonde orror.

La sorte orribile,

Spense già l’ ira,

Mi affanna e inspira

Pietà e dolor.

CORO DI DONNE.

Quel suon funereo

Feral rimbomba,

Al cor ci piomba,

Gelar ci fa!

Pur fra le lagrime

Speme ci affida

Che Dio ci arrida

Di sua pietà!

CORO DI PURITANI.

Quel suon funereo,

Ch’ apre una tomba,

Cupo rimbomba,

Infonde oror,

E Dio terribile:

In sua vendetta

Gli empj ei seatta,

Sterminator!

GIORGIO, RICCARDO, DONNE.

Sol ferocia or parla in voi!

La pietade Iddio v’apprenda!

RRUNO, UOMINI.

Dio commanda ai figli suoi

Che giustizia alfin si renda.

ARTURO.

O mia Elvira!…

ELVIRA.

E vivi ancor!…

ARTURO.

Teco io sono…

ELVIRA.

Ah! il tuo perdono!…

Per me a morte, a Arturo mio…

UOMINI.

Cada alfin l’ ultrice spada

Sovra il capo al traditor!

ARTURO.

Arrestate… vi scostate!

Paventate il mio furor.

Ella è tremante,

Ella è spirante:

Anime perside,

Sorde a pietà.

Un solo istante

L’ ire affrenate,

Poi vi saziate

Di erudelià.

PURITANI.

Ah vendetta su i ribaldi!

Si, vendetta!

TUTTI.

Suon d’ araldi?

È un messaggio.

DONNE.

Un divin raggio!

Esploriam.

TUTTI.

Che mai sarà?

GIORGIO.

Esultate, ah! sì esultate:

Già i Stuardi or vinti sono,

La dole’ aura del perdòno,

Ogni cor respirerà.

RICCARDO, PURITANI.

A Cromvello onore e gloria!

La vittoria – Il guiderà…

ELVIRA, ARTURO.

Dall’ angoseia al gaudio estromo

Par quest’ alma al Ciel rapita,

Ben so dir che sia la vita.

Or che tuo / tua l’ amor mi fa.

CORO.

Siate liete alme amorose:

Qual d’ amor foste doienti:

Lunpgi di per voi ridenti

Quest’ istante segnerà.

Vincenzo Bellini – Die Puritaner

Vincenzo Bellini

Die Puritaner

Romantische Oper in drei Akten

Personen

Lord Valton, General-Gouverneur, Puritaner

Sir Georg, sein Bruder, Obrist, vom Dienst zurückgezogen, Puritaner

Lord Arthur Talbot, von Stuart’s Partei

Sir Richard Forth, Obrist, Puritaner

Sir Bruno Roberton, Offizier, Puritaner

Henriette v. Frankreich, Wittwe von Carl I.

Elvire, Tochter des Lord Valton

Soldaten Cromwell’s

Herolde und Waffenträger Arthur’s und Valton’s Puritaner. Damen. Pagen. Diener und Dienerinnen des Schlosses.

Die Handlung des ersten Aktes ist in einer Festung, in der Rähe von Plymouth; der zweite und dritte Akt in einer ländlichen Gegend, in der Nähe der Festung.

Erster Akt.

Platz in der Festung.

Erste Scene.

Roberton und Soldaten. Schildwachen

ERSTE SCHILDWACHE.

Seyd wachsam!

ZWEITE SCHILDWACHE.

Seyd wachsam!

ALLE.

Es schwand schon die Nacht!

ERSTE SCHILDWACHE.

Die Trommel –

ZWEITE SCHILDWACHE.

Schallt begrüßend –

ALLE.

Des Tages Pracht! –

CHOR.

Wenn Schlachttrompeten klingen,

Beseelet Muth den Krieger!

Den Lorbeer zu erringen,

Stürmt er zum Sieg hinan.

Schwinget die Schwerdter zum Streiten,

Den Feinden Tod zu bereiten,

Tilget in Feuergluthen

Stuart und seine Brut!

ROBERTON.

O Cromwell’s fromme Söhne,

Erhebt zu Gott das Herz!

Des Morgenliedes Töne

Steigen nun himmelwärts!

CHOR der Puritaner in der Festung.

Laut künden Mond und Sonne

Uns Gottes Allmacht an!

O Herr! lobpreisend nah’n

Wir Deinem Throne!

Der Himmel und die Erde

Erschallt von Deinem Ruhm!

Froh steigt Gesang empor,

Dich hoch zu ehren.

ERSTER SOLDAT.

Sie schweigen.

ZWEITER SOLDAT.

Zu End’ –

ALLE.

Ist das Gebet!

ROBERTON.

Der Reinen Lobgesang

Der sich zum Himmel schwang,

Ist nun verhallt.

Zweite Scene.

Die Vorigen. Diener und Dienerinnen des Schlosses.

ERSTER.

Zum Feste!

ZWEITER.

Zum Feste!

ALLE.

Zum Feste!

Die Freude belebe

Heut jedes Herz!

Es winken Lust und Scherz!

CHOR.

Kein Jüngling kann den Blicken

Elvirens widerstehen!

Er weilet mit Entzücken,

Die Holde anzusehen.

In reiner Unschuld Blüthe

Schmückt Reiz und Seelengüte

Den engelgleichen Blick –

Der Schöpfung Meisterstück!

EINIGE.

Zum Feste!

ANDERE.

Zum Feste!

ALLE.

Zum Feste!

Freut Euch Elvirens Wonne!

Auf, singe mit heiterm Blick,

Die Liebe führt zum Glück!

Alle ab. Roberton bleibt.

Dritte Scene.

Roberton. Richard.

RICHARD.

Wohin soll ich entflieh’n? Wie soll ich bergen

Der Seele herbes Leiden? Die Jubeltöne –

Durchbeben die Brust mit Höllenqualen!

Elvire! Elvire! Dir soll ich entsagen –

Auf ewig von Dir mich trennen!

Wie kann ich ohne Dich das Leben tragen?

Mein Dasein ist zerstört, wem sollt’ ich es weih’n

ROBERTON tritt vor.

Dem Vaterlande! –

RICHARD.

Was hör’ ich! Du fühlst mit mir Erbarmen?

ROBERTON.

Oeffne Dein Herz dem Freunde –

Du findest Trost in seinen Armen.

RICHARD.

Vergebens!

Ach, auf ewig muß ich entsagen

Meiner Liebe Blüthentagen,

Und ein Leben sollt’ ich tragen,

Das nur Qual und Schmerz mir beut?

Statt ersehnter Liebe Freuden,

Naht mir drohend banges Leiden,

Hoffnungslos muß ich verzagen –

Ach, Verzweiflung ist mein Loos!

Trost nur beut für herbes Scheiden

Mir der Erde dunkler Schvoß.

Eine Abtheilung Soldaten marschirt über die Bühne.

ROBERTON.

Auf! zieh’ Deinen Kriegern

Als Führer voran!

RICHARD.

Mit schloß sich auf ewig

Die ruhmvolle Bahn!

ROBERTON.

Ha, glühe nicht für Ehre

Und Vaterland Dein Herz?

RICHARD.

Mir glühet im Busen

Nur Rache, Wuth und Schmerz!

ROBERTON.

Entsage der Rache,

Zu Thaten erwache,

Wo Ehre Dir winkt!

RICHARD.

Ihr seligen Träume

Von Frieden und Wonne –

Ihr starbet im Keime,

Dahin ist mein Glück!

Gelähmt sind die Schwingen,

Umsonst ist mein Streben,

Nicht Thaten erringen,

Was mir das Schicksal raubt.

Ab.

Vierte Scene.

Zimmer der Elvire.

Elvire. Georg.

ELVIRE.

Mein theurer Oheim! O Du, mein zweiter Vater!

GEORG.

Was beweget Dein Herz? O sprich, Elvire!

ELVIRE.

Ach, nenne Tochter mich!

GEORG.

Ja – Tochter – der Name

Sei meines Alters Freude. Die heil’gen Rechte,

Die er verleihet, will ich erfüllen.

Wie sehr Dein Glück mir theuer, wird bald sich Dir enthüllen.

Mit hoher Wonne wird der Tag Dich krönen –

Dem Vater-Auge entlockt er Freudenthränen.

Ja, Dich geliebte Tochter,

Seh ich heut’ noch als Gattin.

ELVIRE.

Gattin! – Nein! Nimmermehr! –

Ach, Du kennst die sanften Triebe,

Kennst des Herzens heil’ge Flammen.

Schuldlos nährt’ ich die reine Liebe,

Ihr wollt’ ich mein Dasein weih’n.

Willst Du so Dein Kind verdammen,

Schleppst Du mich zum Traualtare,

Schmückt der Brautkranz meine Haare

Nur im Tode dann allein.

GEORG.

O verbanne den Gedanken!

ELVIRE.

Meine Treue kann nicht wanken!

GEORG.

Kündet Ahnung nicht Deinem Herzen,

Welchen Gatten ich Dir erwählt?

ELVIRE.

Gott! o rede! nenne ihn!

GEORG.

Ja, bald nah’t er –

ELVIRE.

Himmel! – Wer?

GEORG.

Dein Arthur!

ELVIRE.

Ist es Wahrheit?

GEORG.

Ja, ja ich schwöre!

ELVIRE UND GEORG.

Ist es Wahrheit –?

Ach, Arthur – welch Glück!

Es ist Wahrheit –

Dir lächelt das Glück!

GEORG.

Fließt am treuen Vaterherzen

Sanfte Thränen reiner Wonne,

Deines neuen Glückes Sonne

Leuchtet strahlend durch die Nacht.

Spende Segen, o Gott der Gnade,

Nimmer wanke vom Tugendpfade,

Die Dein Auge treu bewacht,

Güt’ger Gott, durch Deine Macht!

ELVIRE.

Ach, der Trennung Qual und Schmerzen

Lösen sich in reiner Wonne.

Meines neuen Glückes Sonne

Leuchtet strahlend durch die Nacht.

Wer stimmte für mein Glück,

Des Vaters Herz?

GEORG.

O höre!

Es deckte Erd’ und Himmel

Die Nacht mit ihrem Schleier –

Da blickt’ in stiller Feier

Ich auf zur Sternenbahn.

In dieser hehren Stunde

Gedacht ich Deiner Thränen

Ich kannte Deines Busens heißes Sehnen –

Voll Mitleid eilt’ ich zum Vater dann.

ELVIRE.

O edelmüth’ger Mann!

GEORG.

Rasch trat ich ein – mit Rührung

Ergriff ich seine Hand –

Benetzte sie mit Zähren –

Der Bruderliebe Band

Bewog ihn, mich zu hören:

»Für Arthur nährt Elvire

Im Herzen reine Triebe –

Verdammst Du ihre Liebe –

Sinkt diese Blume in’s frühe Grab.«

ELVIRE.

Dich sendete vom Himmel

Die Gottheit mir herab! –

Doch weiter! –

GEORG.

Nach ernstem Schweigen –

ELVIRE.

O Gott!

GEORG.

Sprach er endlich: »Sir Richard

Hab’ ich mein Wort gegeben,

Ihm wird der Tochter Hand!«

ELVIRE.

Gott! mich fasset Angst und Beben!

Und dann –

GEORG.

Ich wiederholte:

»So sinkt Dein Kind in’s frühe Grab.«

»Sie lebe! ja, sie lebe!«

Rief laut sein Vaterherz!

»O eile, sie zu trösten,

Besänft’ge ihren Schmerz!«

ELVIRE.

Höre! – das Horn erschallet!

GEORG.

Fürchte nichts!

Dieser Ruf gilt den Soldaten.

CHOR.

Heil dem Tapfern! Dem edlen Grafen

Arthur Talbot!

GEORG.

Nun, sprach ich Wahrheit?

ELVIRE.

O theurer Vater!

GEORG.

Fasse Dich!

CHOR.

Bald erreicht er uns’re Mauern!

Laßt mit Ehrfurcht uns ihn empfangen!

GEORG.

Deinem Glück darfst Du vertrauen,

Auf die Hoffnung gläubig bauen!

Dieser Tag gewährt nach Leiden

Deiner Seele Himmelslust!

ELVIRE.

Kaum wag’ ich dem Glück zu vertrauen;

Darf ich gläubig auf Dich bauen

Süße Hoffnung, Trost im Leiden,

Du gewährst mir Himmelslust.

Ab.

CHOR.

Heil dem Tapfern! Dem edlen Grafen

Arthur Talbot! – In Jubel – Chören

Lasset uns den Helden ehren,

Unsers Heeres Stolz und Ruhm!

Ab.

Fünfte Scene.

Gothischer Saal.

Lord Arthur Talbot. Ritter. Pagen. Dann Elvire. Lord Valton. Georg. Damen. Diener und Dienerinnen. Soldaten mit Roberton

CHOR DER MÄNNER.

Heil dem edlen Arthur!

DIE FRAUEN.

Rufet Heil Elviren!

ALLE.

Hoch verehrt Schönheit und Muth!

DIE DAMEN.

Alle Jungfrau’n überstrahlet

Sie durch Anmuth, Reiz und Würde,

Und aus jedem Munde schallet

Ihrer hohen Tugend Lob.

DIE RITTER.

Männlich schön und stark im Streite,

Würdig seines Heldenstammes,

Nennet Jeder ihn mit Freude

Zierde uns’rer Ritterschaft.

ARTHUR.

Heißgeliebte! Die reinsten Flammen

Boten uns bisher nur Qualen;

Aber heut, wo Glück und Wonne strahlen,

Reicht der Gatte Dir die Hand!

Fern, o Theure, sind jene Zeiten,

Die das Herz erfüllt mit Bangen!

Dich darf liebend mein Arm umfangen –

Neidet, Götter, meine Lust und Seligkeit!

ELVIRE.

Ach, mein Arthur!

ARTHUR.

Ach, Elvire!

ELVIRE.

Ich bin Dein!

ARTHUR.

Du bist die Meine!

ALLE.

Segne, Gott, der Liebe Flammen,

Segne ihrer Ehe Band!

Sechste Scene.

Vorige, dann Henriette.

VALTON.

Die heil’ge Handlung vollziehet ohne mich.

Mit diesem Blatt versehen,

Könnt ungehindert Ihr zur Kirche gehen.

Zu Georg.

Du wirst sie hingeleiten,

Ihr, edle Dame,

Sollt vor Englands hohem Parlamente,

Wohin ich Euch begleite, schnell erscheinen.

HENRIETTE.

(Weh’ mir! was hör’ ich?) Wozu berief man mich?

VALTON.

Nur zu gehorchen und zu schweigen,

Heischt Pflicht und streng Gebot.

ARTHUR.

Ist sie von Stuart’s Partei?

GEORG.

Seit vielen Monden

Hält man sie gefangen. Ein Jeder glaubt, daß sie

Der Stuart’s Freundin sei, weil sie verkleidet

Sich dieser Festung nahte.

ARTHUR.

(Güt’ger Himmel

Ihr Geschick ist entschieden, sie ist verloren! –

O Unglücksel’ge!)

HENRIETTE

(Mitleid spricht aus dem Blicke!)

VALTON.

Eilet nun! Zur Feier festlicher Vermählung

Bereitet Euch. Mit dem Brautgèwande

Und dem Kranz im Haar mögt Ihr sie schmücken.

Sorg’, daß im Thale die Rosse uns’rer harren.

Zu schneller Reise verpflichtet mein Befehl.

Mit Gott und meinem Segen

Geht Eurem Glück entgegen!

Siebente Scene.

Henriette, und Arthur

HENRIETTE

(Ja, den edlen Zügen vertrau’ ich!)

O Ritter! –

ARTHUR.

Sprecht! Wenn meines Rathes,

Meiner Hülfe Ihr bedürft, schenkt mir Vertrauen.

HENRIETTE.

Und wenn mein schuldlos Leben

Von Gefahr bedrohet?

ARTHUR.

O redet! laßt mich wissen, was Ihr fürchtet?

HENRIETTE.

Ich sterbe nach wenig Stunden. Doch Ihr erbebet –

ARTHUR.

Für Euch – für mich! –

Fiel nicht mein Vater, der treu dem Königblieb,

Unter dem Henkersbeil? Doch sprecht – wer seid Ihr?

Redet – wer seid Ihr – ich rette Euch!

HENRIETTE.

Unmöglich! –

Heinrich’s Tochter – Carl’s Gemahlin –

Wird das Schicksal der Edlen theilen!

ARTHUR.

Ha! Ihr die Königin!

HENRIETTE.

Ja! – Tod harret meiner!

ARTHUR.

Retten, retten werd’ ich Euch! –

Ihr müßt fliehen aus diesen Mauern –

Ja, ich selbst will Euch geleiten –

Auf geheimen, sichern Wegen –

HENRIETTE.

Ach, nur dem Beil entgegen, –

Ohne Rettung bin ich verloren.

ARTHUR.

Noch ist Hoffnung – ich will Euch retten!

Oder mit Euch sterben.

HENRIETTE.

O laß ab von dem Gedanken!

Liebend harret Dein Elvire.

Könnte Dein Entschluß noch wanken?

Ihr gehörest Du allein.

ARTHUR.

Ach, nicht ihren Namen nenne,

Raube mir nicht meinen Muth.

HENRIETTE.

Ueberlaß mich meinem Unglück,

Daß mein Schicksal sich erfülle.

Meines Lebens Stern sinkt nieder,

Doch Dein Morgenroth geht auf.

ARTHUR.

Bei der Theuren Angedenken

Sinkt dahin mein ganzer Muth.

Rettend Dein Geschick zu lenken,

Opfr’ ich heut’ mein höchstes Gut.

Achte Scene.

Elvire, Georg, die Vorigen.

ELVIRE.

Es nahet die Jungfrau im bräutlichen Kleide,

Gleich einfach, bescheiden, der Lilie im Mai

Die Rosen und Myrten, die lieblich mich kränzen –

Die Perlen, die glänzen, sind Pfänder der Treu.

GEORG, HENRIETTE, ARTHUR.

Hell strahlt im heitern Glanze

Der Unschuld lieblich Bild.

Bezauberndes Wesen,

So reizend und mild.

Seh’ ich die holde Jungfrau.

Geschmückt mit dem Kranz,

Fühlt sich von ihrer Schönheit Glanz

Die Seele hochentzückt.

ELVIRE.

Liebreich wirst Du mich belehren –

HENRIETTE.

Holde, was ist Dein Begehren?

ELVIRE.

Für ihn nur, der mir theuer,

Möchte ich reizend sein.

O schmücke mit dem Schleier

Mein Haupt, ich bitte Dich –

Zur hehren Feier.

HENRIETTE.

Ja, gern schmück’ ich Dich für ihn.

ARTHUR, GEORG.

Das Uebermaaß, die Freue,

Entschuld’ge ihr Vergeh’n;

Wer kann ihr widerstehn,

So reizend und so schön.

ELVIRE.

Doch laß zuerst den Schleier

Auf Deinem Haupt mich seh’n;

Er wird von Deinen Zügen

Die Reize noch erhöh’n.

HENRIETTE.

Du lieblich holdes Wesen,

Gern laß ich es gescheh’n.

ELVIRE.

Es berge der Schleier

Die wallenden Locken,

Zur heiligen Feier

Fein sittsam zu geh’n.

Wer Dich so erblicket,

Vom Schleier geschmücket,

Glaubt die Braut

In Dir zu seh’n.

HENRIETTE.

Zu bergen jedem Blick

Des Busens Angst und Schmerz,

Dient jetzt der Schleier mir.

Du kennst, o Gott, mein Herz,

O wende mein Geschick,

Beschütz’ mein schuldlos Haupt,

Laß mich, o Herr, nicht untergeh’n.

ARTHUR.

Sie steht im Mißgeschick,

Erhaben selbst im Schmerz,

Gleich einer Heil’gen im Schleier hier.

O stärke, Gott, mein Herz,

Zu wenden ihr Geschick.

O nimm mein Leben hin,

Nur sie laß mich gerettet seh’n.

GEORG.

Elviren’s Zauberblick

Besieget jedes Herz,

Und Alle huld’gen ihr

Der schuldlos heit’re Scherz

Erhöhet noch ihr Glück.

Ein Engel scheinet sie,

Gesandt von jenen Himmelshöh’n.

VALTON UND CHOR.

Elvire! Elvire!

Schon nahet die Stunde!

ELVIRE.

Leicht zürnet der Vater,

Hinweg muß ich eilen!

Schnell kehr’ ich zurücke,

Nicht lang’ will ich weilen.

ARTHUR, GEORG, HENRIETTE.

Ach, leicht zürnt der Vater Dir,

Ja, Du mußt jetzt eilen!

Und kehrst Du zurück,

Schmückt der Schleier Dich.

Elvire und Georg ab.

Neunte Scene.

Henriette. Arthur.

HENRIETTE.

Hinweg mit diesem Schleier! –

Nur die vom Schicksal Beglückte darf ihn tragen;

Mir ziemt er nicht.

ARTHUR.

Halt’ ein!

Ein Zeichen ist’s von Gott! Durch ihn verhüllet,

Kann es gelingen, die Wachen zu täuschen,

Daß für die Braut sie Dich halten.

Folg’ mir! –

HENRIETTE.

Was willst Du wagen?

Zu schrecklich ist das Loos, das Dich bedrohet.

ARTHUR.

Folg’ mir, weile nicht! Dich rett’ ich vom sichern Tode.

Zehnte Scene.

Die Vorigen. Richard.

RICHARD.

Halt’ ein! – Nicht sollst Du ungestraft mir rauben

Das höchste Gut des Lebens;

Nehmen werd’ ich blut’ge Rache,

Zitt’re heut vor meiner Wuth!

ARTHUR.

Ha, Dein Trotz soll hald sich legen,

Ich verlache Deine Wuth;

Muthig tret’ ich Dir entgegen –

Bald strast dieses Schwerdt den Uebermuth! –

HENRIETTE.

Haltet ein! Lebt in Frieden!

Nicht um mich fließ’ Euer Blut!

ARTHUR.

O Gott! was thust Du?

RICHARD.

Ha, die Gefang’ne! –

HENRIETTE.

Ja, ich bin’s!

ARTHUR.

Komm! Dein stolzes Drohen

Mit dem Schwerte nun zu bewähren!

RICHARD.

Nein! – Mit ihr gehst Du von hinnen –

ARTHUR.

Mit ihr?

HENRIETTE.

(Was hörte ich!)

RICHARD.

Unverwehrt sei Euch zu geh’n.

CHOR hinter der Scene.

Zur Kirche eilt! Auf, eilt zum frohen Feste!

ARTHUR.

Laß uns eilen! Schon nahen Leute.

RICHARD.

Schnell entfliehet! Gott schütz’ Euch Beide!

ARTHUR.

Und Du schweigst, bis wir entronnen

Diesen Mauern?

RICHARD.

Ich werde schweigen!

ARTHUR.

Wohlan, so schwöre –

RICHARD.

Ja, ich schwör’ es!

ALLE DREI.

Leb’ wohl!

Arthur und Henriette ab.

Elfte Scene.

Richard. Valton. Roberton. Elvire mit den Damen. Wachen. Puritaner. Diener und Dienerinnen.

RICHARD.

Schon hob die Brücke sich hinter ihnen –

Schon aus den Thoren trug sie ihr Fuß.

CHOR.

Zur Kirche eilt! Auf, zum Feste

ELVIRE.

Wo weilt Arthur?

RICHARD.

O frage nicht!

ELVIRE.

Wo weilt Arthur? Sprich!

RICHARD.

Er ist entfloh’n!

ELVIRE, RICHARD, GEORG.

Schon fern bei jenen Hütten

Eilt er mit raschen Schritten

CHOR.

Ja, mit raschen Schritten

Nah’t er jenen Höhen!

Ha, seht die Gefang’ne

Zur Seite ihm gehen.

VALTON.

Soldaten, auf, eilet!

Laßt den Donner der Geschütze

Die Lüfte durchhallen!

Schnell rächend, gleich dem Blitze,

Die Schwerdter auf sie fallen!

Ja, rächet den Verrath!

CHOR.

Ha, rächet die Frevelthat!

Ergreifet die Waffen!

Ha, zittert, Verräther!

Die Rache naht!

ELVIRE.

In Arthur’s Geleite? Gehüllt in meinen Schleier

Geht sie an seiner Seite und theure Gattin nennt er sie!

Elvire heißt die Dame – nicht ich bin mehr Elvire!

ALLE.

Elvire, was sagst Du?

ELVIRE.

Ich Elvire? Nein! Nein!

CHOR.

Die Arme ist starr und bleich,

Dem Marmorbilde gleich.

Im Wahnsinn redet sie;

Bedroht ist offenbar

Ihr Leben mit Gefahr!

ELVIRE.

Ach, Arthur! Wie, Du kehr’st zu mir zurück?

Liebe lächelt in Deinem Blick;

Ach, Arthur, folge mir zum Altare,

Ja, ew’ge Treu werd’ ich Dir schwören.

In reiner Weihe schlägt Dir mein Herz –

CHOR.

Ach, am Altare glaubt sie zu stehen,

Noch immer liebt sie den Verräther,

Der ohne Mitleid sie heut verlassen.

Sie wird ihm lieben im Tode noch.

GEORG, RICHARD, CHOR.

O mild’re, Himmel, der Armen Leiden,

Du wirst die Thränen der Unschuld rächen

Besänftige ihres Busens Schmerz,

O Gott, bestrafe die Frevelthat!

ELVIRE.

Treu schlägt für Dich mein Herz! O Gott –

Du entfliehest –

Willst grausam Du verlassen, die ewig Dich liebt?

CHOR.

Ach; wehe der Armen!

Von Wahnsinn befangen, erliegt sie dem Schmerz,

In Schönheitblüthe, voll Anmuth und Güte,

Fluch jener Stunde, wo die Verbrecher entfloh’n!

ELVIRE.

Der Hölle Gluthen gähren im Busen!

Ach, die Flamme wird mich verzehren!

In Nebel entfalten sich Schreckensgestalten –

Ihr Blick, der mir droht, verheißet mir Tod.

CHOR.

Fluch sei der Stunde, wo Beide entfloh’n!

Durch Wälder und Schluchten, von Menschen verlassen,

Ein Abscheu dem Himmel, soll Reue euch fassen.

So irrt, ihr Verfluchten, von Stürmen umgeben,

Verstoßen durchs Leben, oh’n Obdach und Ruh

In Qual und Beschwerde, in Thränen und Leiden,

Soll Himmel und Erde nie Trost Euch bereiten.

Die Rache verfolge Euch selbst im Tod’!

Zweiter Akt.

Saal mit offenen Seitenthüren.

Erste Scene.

Diener und Dienerinnen. Puritaner, Roberton, Georg. Später Richard.

CHOR.

Bringt Ihr Kunde?

GEORG.

Die Aermste schlummert.

CHOR.

Labung bringe ihr die Stunde;

Ihr Herz erfället –?

GEORG.

Bald Freude, bald Kummer.

CHOR.

Ach! Sie vergehet!

GEORG.

Dieser Wechsel von Schmerz und Freude

Hat die Sinne umhüllet.

CHOR.

Wird die Arme nie genesen?

GEORG.

Ach, dieses Hoffen ist vergebens!

Sie, die Freude meines Lebens,

Erliegt dem Schmerz.

CHOR.

Ach, so rede!

GEORG.

O theuren Freunde.

Laßt mich schweigen.

CHOR.

Ach, laß unsre Angst Dich rühren,

Theilen laß uns Deinen Schmerz.

GEORG.

Wohlan, so vernehmt ihr Leiden!

Noch schmückt ihr Haupt die Rosenkrone,

Noch prangt sie im Brautgewande;

Verzweifelnd schreit sie hinauf zu Gottes Throne:

»Wo ist Elvire? Ach sie kehrt nie zurück!«

Oft wähnt zur Trauung sie zu gehen,

Schwört ew’ge Treue mit heiterm Blicke,

Dann schreit sie plötzlich auf: »Er ist entflohen!

O theurer Arthur! Ach, kehre zurück!«

CHOR.

Ach welch grauenvoll Geschick!

Sein Verrath bricht ihr das Herz!

GEORG.

Bald träumt sie von Glück und Freude,

Bald wähnt sie sich des Todes Beute,

Dann klanget sie beim Klang der trauten Harfe

Der stillen Nacht des Busens Schmerz;

Oft glaubet sie in fremden Zügen

Den heißgeliebten zu erblicken.

Schaudernd sieht sie dann, daß sie sich täuschte

Und flehet weinend zu Gott um den Tod.

CHOR.

Ach, weh der Armen! Sie wird erliegen,

Ein Gott erbarme sich ihrer Noth.

RICHARD kommt.

Schon ereilte die Rache den Verräther.

Arthur Talbot ist verfallen dem Heukerbeile,

Durch ein Urtheil vom hohen Parlamente –

Gerecht ist die Strafe!

CHOR.

Der Fluch der That erreicht ihn noch im Leben,

O möge er Allen ein schaudernd Beispiel geben.

Es entgeht Gottes Händen

Kein Missethäter.

RICHARD.

Lord Valton, dessen Unschuld anerkannt,

Ist vom Parlamente zu hohen Würden ernannt.

CHOR.

O armer Vater! Was wirst Du empfinden,

In Wahnsinns Nacht das theure Kind zu finden?

RICHARD.

Ist keine Hoffnung mehr?

GEORG.

Alle Aerzte stimmen ein:

Nur ein Uebermaaß von Freude oder jäher Schrecken

Könnte den Geist vom Wahnsinn befrei’n.

CHOR.

Keine Buße o Arthur, sühnet den Frevel! –

RICHARD.

Durch mich, der ihm ergeben,

Spricht Cromwell heute: verfolgt auf Tod und Leben

Sei Arthur, von England ausgestoßen;

Es theilt sein Mißgeschicke, wer Schutz ihm leiht.

Wagt er frevelnd, dem Lande zu nahen,

Fällt ohne Gnade sein treulos Haupt.

Alle entfernen sich, bis auf Georg.

Zweite Scene.

Georg. Richard. Elvire.

ELVIRE.

Jede Hoffnung ist entschwunden,

Nur im Grabe lächelt Ruhe.

RICHARD UND GEORG.

Schon naht die Arme!

Wie rührend sind ihre Klagen

ELVIRE.

Seiner Stimme sanften Töne

Riefen zärtlich hier meinen Namen –

Hier vernahm ich einst die Schwüre

Ew’ger Treue, die aus seinem Herzen kamen.

Kehrt zurück, ihr Wonnestunden,

Führt den Theuren mir zurück!

Ist die Hoffnung mir entschwunden,

Find’ ich im Grabe die ersehnte Ruh’.

RICHARD, GEORG.

Ach, ihr Herz wahr’t treue Liebe

Noch dem undankbaren Mann.

ELVIRE.

Wer bist Du?

GEORG.

Kenn’st Du mich nicht, theure Tochter?

ELVIRE.

Ja, ja, mein Vater! Und Arthur, mein Geliebter?

Rede, wo weil’t er? Ach! wie Du lächelst?

Hinweg, ihr Thränen! – Zum Altar willst Du mich führen? –

Zum Tanze, zum heitern Feste –

Sind schon versammelt die Hochzeitgäste.

Ja, mit dem Kranze naht schon die Braut zum Tanze.

Ja, auch Du darfst mit mir tanzen!

Komm zum Feste!

RICHARD, GEORG.

(O Gott!)

ELVIRE.

Warum weint er?

Liebt er wohl? – Er weint? – er liebt –

RICHARD, GEORG.

Ach, nichts kann die Thränen hemmen!

ELVIRE.

Sage – hast jemals Du treu geliebt?

RICHARD.

Blick, o Theure, mir in’s Auge,

Lies im Antlitz, was mich betrübt.

ELVIRE.

Ja, Du liehst, doch stets zu Thränen,

Zu herben Leiden ist vom Schicksal

Die getreue Liebe verdammt.

GEORG.

Schweig’, o schweige, theure Tochter,

Deine Seele wird genesen.

ELVIRE.

Niemals!

RICHARD, GEORG.

Gott hört unser Fleh’n.

ELVIRE.

Niemals!

RICHARD, GEORG.

Vergessen wirst Du ihn.

ELVIRE.

Ach! ich werd’ ihn nimmer wiederseh’n.

RICHARD, GEORG.

Heil’, o Gott, des Herzens Wunde,

Wende gnädig ihr Geschick.

ELVIRE.

Nehmt, o nehmet hin mein Leben,

Oder gebt den Theuren mir zurück.

RICHARD, GEORG.

Doch sie lächelt –

Freude strahlt aus ihrem Blick.

ELVIRE.

Mir wird gelingen, zu versöhnen

Des strengen Vaters Herz

Unsre Wünsche wird er bald krönen,

Und vergessen ist jeder Schmerz.

GEORG.

Ihn, der treulos sie verlassen,

Sucht im Wahn sie liebend hier.

RICHARD.

Welche edle schöne Seele

Raubte der Verräther mir.

ELVIRE.

Hier bei Luna’s sanftem Scheine,

Unbelauscht im stillen Haine,

Laß im traulichen Vereine

Treuer Liebe uns erferu’n. –

Theurer Arthur, nicht länger weile,

Dein harret Elvire Eile, o eile!

Laß Dich meine Thränen rühren,

Komm, o theile meine Seligkeit!

RICHARD, GEORG.

Möge bald der Tag erscheinen,

Wo, befreit von bangen Qualen,

Deine Augen nicht beweinen

Ihn, der unwerth Deiner Wahl.

O gönne Ruhe Deinem Herzen,

Tröstend nahet schon die Nacht.

Elvire ab.

Dritte Scene.

Georg. Richard.

GEORG.

Richard, Du mußt Arthur retten,

Sein Geschick vermagst Du zu wenden.

RICHARD.

Ha! unmöglich! –

GEORG.

Du kannst ihn retten!

RICHARD.

Nein! –

GEORG.

Du willst nicht?

RICHARD.

Nein! Ihm werde Tod!

GEORG.

Denkst Du nimmer an jene Stunde,

Wo entflohen die Gefang’ne?

RICHARD.

Ja! –

GEORG.

Sprich, war Arthur allein der Schuld’ge?

RICHARD.

Deiner Worte Sinn –

GEORG.

Ist Wahrheit.

RICHARD.

Rede offen! –

GEORG.

Ich sprach genug.

RICHARD.

Ich gehorche dem Parlamente,

Dem Befehl beugt sich mein Wille,

Ja, es zitt’re der Rebelle! –

Englands Richter verdammen ihn allein.

Schwere Pflichten muß ich erfüllen,

Den Verräther darf ich vom Tod nicht befrein.

GEORG.

Des Hasses wilde Triebe

Nährst Du im Herzen; doch erbebe! –

Ja, die Qualen zu später Reue

Folgen drohend Dir durch’s Leben;

Muß durch Dich einst Arthur sterben,

Folgt Elvire bald dem Theuren nach.

RICHARD.

Ha! –

GEORG.

Ein Tag stürzt Beide in’s Verderben!

Und wo Dein Fuß auch weilt hienieden,

Folgt Dir dann die blut’ge That.

Wenn Dir Abends beim Mondenscheine

Bleich und seufzend ein Schatten erscheint –

Ist’s Elvire, ach sie weint –

Klagt in Dir ihren Mörder an.

Wenn der Sturm sich in Nächten erhebt,

Und Dich blutend ein Schatten umschweht –

Es ist Arthur mit Wuth in dem Blicke,

Der aus dem Grabe Dir drohend naht

RICHARD.

Wenn Elvirens Gestalt mir erscheint,

Mich als Mörder vor Gott anzuklagen,

Wird mein Seufzen und mein Sehnen,

Mir, dem Reinen, Vergebung erfleh’n!

Doch wenn Arthur’s verhaßter Schatten

Aus der Hölle mir drohend auch naht,

Stürze ihn, der Elviren verrathen,

Wuth und Rache in den Abgrund zurück! –

GEORG.

O Richard, laß durch diese Thränen

Dein edles Herz besiegen! –

RICHARD.

Kannst Du mich fühllos wähnen?

Sieh’ mich im Kampf erliegen!

BEIDE.

Ein Herz, getreu der Ehre und Ritterpflicht,

Versagt dem Unglück Mitleid nicht.

GEORG.

Noch fühl’ ich Muth und Kräfte,

An Deiner Seite zu kämpfen.

RICHARD.

Drohend nahet vielleicht der Veste

Arthur mit unsrer Feinde Schaar.

Dann treffe ihn –

GEORG.

Der Tod!

Unser Schlachtruf sei:

Alles für Ehre und Vaterland!

GEORG, RICHARD.

Wenn Schlachttrompeten tönen,

Eil’ ich zum blut’gen Streite!

Muthig dem Tod entgegen

Für Freiheit und Vaterland!

Siegend lacht Englands Söhnen

Ruhmvoll des Lorbeers Beute:

Dann lohne, was ich leide,

Mir jener Augenblick!

Dritter Akt.

Kleiner Garten – Pavillon.

Erste Scene.

Arthur. Dann Elvire.

ARTHUR.

Endlich bin ich gerettet! Die Feinde täuschte ich

Und sie verloren die Spuren meiner Schritte. –

O sel’ge Wonne! Der hoffnungslos Verbannte

Wird endlich die Theure wiedersehen!

Irrend von Strand zu Strande,

Darf ich heute, heil’ge Heimath,

Auf deinem Boden stehen.

ELVIRE.

Einsam an der Silberquelle,

Saß einst trauernd ein Troubadour,

Klagte leis’ der stillen Welle

Seiner Liebe Leiden nur.

ARTHUR.

O himmlisch – süße Klänge! Elvire! Elvire!

Wo weilest, Theure, Du? Doch wie? Du schweigest!

O Gott! – Einst tönten hier im Haine

In holder Eintracht uns’re Gesänge!

Wüßtest Du, daß Arthur liebend Dir nahe weilet –

Ja, der Verkannte kehrte treu zurücke!

Tröstung find’ er heut in Deinem Blicke

O Gott! – Es nahen Leute!

CHOR.

Ohne Weilen folget seiner Spur!

ARTHUR.

Weh’ mir, ich bin verloren!

CHOR.

Sucht ihn genau an jedem Ort!

ARTHUR.

O Himmel! Wo mich verbergen!

CHOR.

Sucht nur genau, er kann nicht fort!

ARTHUR.

Auf’s Neu verfolgen mich Cromwell’s Schergen!

Schon sind sie ferne! Dürft’ ich Unglückseliger es wagen,

Der Geliebten mich zu nahen –

Dürst’ ich ihr meinen Schmerz, meine Leiden klagen!

Doch nein! – Ich stürzte sie mit mir in’s Verderben!

Doch wird Dir, Heißbeweinte,

Meiner Stimme Klang zum Herzen dringen,

Wie einst in schönen Tagen,

Wo uns Liebe und Glück

In Wonne vereinten. –

Ueber Berge, Thal und Glüfte,

Wallt der Pilger rastlos hin,

Nur sein Schmerz erfüllt die Lüfte

Nichts erheitert seinen Sinn.

Ach, vergebens sacht sein Aug’ den Schlummer,

Nirgend findet der Verbannte Ruh’.

Rastlos verfolget ihn der Kummer,

Ewig trägt sein Sehnen ihn dem Vaterlande zu.

So vergehet Tag und Stunde

Dem verbannten Troubadour,

Seines Herzens tiefe Wunde

Heilt im dunkeln Grabe nur.

Zweite Scene.

Arthur. Elvire.

ELVIRE.

O Gott! Er schweiget! Ach, wie die sanften Töne

In die Seele mir drangen – doch wehe mir!

Er schweigt! –

Die Stimme erwecket hier ein heiß Verlangen.

Ach, mein Arthur! Wo bist Du, Theurer!

ARTHUR.

Zu Deinen Füßen!

Elvire! kannst Du vergeben?

ELVIRE.

Ach, Arthur! Ja, mein Arthur!

O Du, mein Glück, mein Leben! –

Du bist’s, Dich seh’ ich wieder!

ARTHUR.

Ach, Elvire! Selige Wonne sinkt auf mich nieder!

ELVIRE.

Sind geendet all’ unsre Leiden?

ARTHUR.

Gnädig wird der Gott uns schirmen,

Dessen Macht uns heut’ vereint.

Strahlt mir Liebe aus Deinen Blicken,

Was kann höher mich beglücken!

Darf ich, Theure, an’s Herz Dich drücken,

Ist vergessen der Trennung Schmerz!

ELVIRE.

Wir getrennt – ich war allein? –

Sprich, wie lange warst Du ferne?

ARTHUR.

Ach, drei Monden!

ELVIRE.

Nein, nein!

Schon drei Jahre! –

Ja, in Qual nicht zu ermessen,

Sind drei Jahre mir entfloh’n.

Ja, beweinend mein Geschick,

Rief ich: Arthur, ach komm’ zurück!

Von Dir getrennt, war ewig mir

Entfloh’n des Lebens Glück!

ARTHUR.

Konnte Mitleid und Erbarmen

Der Gefang’nen ich wohl versagen?

ELVIRE.

Sprich, schwurst Du ihr jemals Liebe?

Laß mich nicht vergebens fragen.

ARTHUR.

Welch ein Argwohn! Retten wollt’ ich

Sie vom Tode!

ELVIRE.

Gott! – o rede!

ARTHUR.

Nun, so wisse – es ist die Königin.

ELVIRE.

Die Königin?

ARTHUR.

Schnell vollzogen an der Armen

Ward das llrtheil, das ihr drohte!

ELVIRE.

Sprichst Du Wahrheit? welch strahlend heit’res Licht

Erhellt die Nacht in meiner Seele! –

Und Du liebst mich? –

ARTHUR.

O zweifle nicht!

ELVIRE.

Und Du schwörest –

ARTHUR.

Dir treu zu sein!

Ruhe am treuen Herzen,

O Du, mein süßes Leben!

Liebend, wenn Feinde uns umgeben,

Beschützt Dich dieser Arm.

Du nur warst mein Gedanke

In banger Trennung Tagen!

Laß dieses Aug’ Dir sagen,

Was meine Brust beseelt!

ELVIRE.

O könnt’ ich Worte finden,

Die Wonne auszudrücken!

Liebe wird mich beglücken,

Ewig bist Du nun mein!

Du warst mein Gedanke,

Dir tönten weine Klagen,

Laß dieses Aug’ Dir sagen,

Was meine Brust beseelt.

ARTHUR.

Auf’s Neue kündet dieser Ton

Die Nähe meiner Feinde!

ELVIRE.

Ja! – Die Schreckenstöne –

Sind zu gut mir bekannt – nichts soll uns trennen –

Sei ohne Sorgen – Du wirst nicht mehr verbannt!

Dort im Gemache – zerriß ich jenen Schleier

Der sie schmückte, als mit Dir sie entflohen.

Ja, schon morgen erwarten Gäste

Uns bei’m Tanz’ – bei’m Feste! –

ARTHUR.

O Gott! Was sagst Du?

ELVIRE.

Auch Du willst mich nicht verstehen!

Gleich alle Andern willst Du mein Leiden

Durch Dein Staunen noch erhöhen?

ARTHUR.

Ach – im Wahnsinn sprichst Du – o Himmel! –

ERSTER SOLDAT.

Wer da!

ZWEITER SOLDAT.

Getreue Freunde!

ERSTER SOLDAT.

Bringt die Losung!

ZWEITER SOLDAT.

Cromwell und England!

ALLE.

Ehre! Ehr’ und Sieg dem Vaterland!

ARTHUR.

Komm! wir müssen fort von hier.

ELVIRE.

Ha, auf’s Neue willst Du fliehen?

Nein, mit ihr darfst Du nicht geh’n.

ARTHUR.

Komm!

ELVIRE.

Laß meinen Schmerz Dich rühren!

ARTHUR.

Schweig!

ELVIRE.

Zu Hülfe! er will flieh’n!

ARTHUR.

Still!

ELVIRE.

Erbarmen! Helft mir!

ARTHUR.

Ha!

Dritte Scene.

Georg. Richard. Roberton. Wachen. Soldaten. Diener und Dienerinnen. Puritaner.

GEORG.

Es ist Arthur!

RICHARD.

Arthur!

ALLE.

Ha, Arthur an diesem Orte!

RICHARD.

Gottes Hund führt Dich, Verräther,

In seinem Grimme, zu diesem Strande!

GEORG, FRAUEN.

Ach, Unglücksel’ger! Welch Schicksal leitet

Dich Verbannten heut’ hierher?

RICHARD, PURITANER.

Arthur Talbot! Vom Vaterlande

Bist Du verurtheilt zum Tode!

ELVIRE.

Zum Tode!

PURITANER.

Zum Tode!

GEORG UND FRAUEN.

Unsel’ge That!

PURITANER.

Schwer räch’t Gott den Hochverrath!

ELVIRE.

Weh’! Was hört’ ich? –

ALLE.

(Es schweigt sein Mund!

Nur sein Blick giebt Leiden kund.)

ARTHUR zu Elvire.

Du wähntest grausam Dich

Von mir verrathen,

Doch schuldlos bin ich

An Deiner Qual.

Trotz biet’ ich heute dem Feind’,

Der Verräther mich nennet –

Ist Dir zur Seite

Zu sterben mir vergönnet.

ELVIRE.

Ach, welche Stimme

Tönet im Herzen,

Aus dunklem Grabe

Zu mir herauf –

Grausam fällt er durch mich

Den Mördern in die Hände!

Mit ihm auch ende

Mein düstrer Lebenslauf! –

GEORG.

Ach, seine Stimme

Ertönt im Herzen,

Sie wecket Mitleid

Im Busen auf,

Es schwimmt mein Auge

In heißen Thränen,

Nimm seine Secle,

Gott, gnädig auf!

RICHARD.

Ach, seiner Stimme Ton

Dringt mir zum Herzen,

Bald wird ihn decken

Das düstre Grab.

Furchtbar trifft ihn

Des Schicksals Zürnen,

Mitleid regt sich

Im Herzen für ihn.

CHOR DER FRAUEN.

Ach, seine Stimme

Erhöht den Schmerz.

Mitleid wecket sie

Im Herzen mir!

Bei seinen Leiden,

Bei seinem Anblick,

Lös’t sich meine Seele

In Thränen auf!

CHOR DER MÄNNER.

Der Frevler sterbe!

In Qual und Schmerzen!

Ja, Gott wird schrecklich

Sein Leben enden.

Den Landesverräther

Nimmt Gott nicht auf!

Es ende heut’ in Schmach

Sein Lebenslauf! –

Säum’t nicht länger, führt ihn zum Tode!

GEORG, RICHARD, FRAUEN.

Ihr folgt nur des Hasses Trieben,

Nicht dem Gotte, den wir ehren.

PURITANER.

Gottes Söhne, die ihn lieben,

Folgen treulich seine Lehren.

ARTHUR.

O theure Elvire!

ELVIRE.

Du lebst noch für mich? –

ARTHUR.

Ja, Heißgeliebte!

ELVIRE.

Kannst Du vergeben?

Nur ich bin schuldig an Deinem Tode!

PURITANER.

Streng’ Gerechtigkeit zu üben,

Schwingen wir das Richterschwert.

ARTHUR.

Haltet ein! – Hinweg, Barbaren!

Entfernet Euch!

Seht, wie sie bebet,

Ihr Geist entschwebet! –

Läßt dieser Anblick

Kalt Euer Herz? –

Auf Augenblicke

Bezähmet die Rache,

Dann sättigt Mordlust

Und Grausamkeit! –

PURITANER.

Zur Rache! Fort zum Tode!

Gott selbst gebot – fort, fort zum Tod! –

ALLE.

Ha! Ein Herold! –

PURITANER.

Eine Botschaft! –

ALLE ANDERN.

Was geschah?

PURITANER.

Laßt uns spähen! –

GEORG.

Frohe Kunde, Frohe Kunde!

Stuart’s Macht ist besiegt!

Ja, Vergebung, Schutz und Frieden

Kündigt England Jedem an!

RICHARD, PURITANER.

Heil sei Cromwells tapfern Schaaren,

Preiset hoch des Helden Sieg!

ELVIRE, ARTHUR.

Selige Stunde! Vom tiefsten Leide

Hebt sich die Seele zur höchsten Freude

Jede Wunde heilt die Liebe,

Mein bist Du, o süßes Glück!

CHOR.

Alle Leiden sind vergessen,

Hohe Freuden Euch beschieden.

Eurer Herzen Treue krönet

Heute segnend das Geschick.

Vincenzo Bellini – I Capuleti e i Montecchi

Vincenzo Bellini

I Capuleti e i Montecchi

Tragedia lirica in quattro atti

Personaggi

Capellio, principe fra i Capuleti

Giulietta, sua figlia

Romeo, capo dei Montecchi

Tebaldo, partigiano dei Capuleti, destinato sposo a Giulietta

Lorenzo, medico e famigliare di Capellio

Capuleti – Montecchi

Damigelle. Soldati. Armigeri

L’ azione è in Verona: I’ epoca è del tredicesimo secolo.

Atto Primo.

Galleria nel palazzo di Capellio.

Scena I.

Seguaci di Capellio.

CORO I.

Aggiorna appena … ed eccoci

Surti anzi l’ alba e uniti.

CORO II.

Che fia? Frequenti e celeri

Giunsero a noi gl’ inviti.

TUTTI.

Già cavalieri e militi

Ingombran la città.

CORO I.

Alta cagion sollecito

Così Capellio rende.

CORO II.

Forse improvviso turbine

Sul capo ai Guelfi or pende:

Forse i Montecchi insorgono

A nuova nimistà!

TUTTI.

Peran gli audaci, ah! perano

Quei Ghibellin feroci!

Pria che le porte s’ aprano

All’ orde loro atroci,

Sui Capuleti indomiti

Verona crollerà.

Scena II.

Capellio, Tebaldo, Lorenzo, e detti.

TEBALDO.

O di Capellio generosi amici,

Congiunti, difensori, è grave ed alta

La cagion che ne aduna oggi a consesso.

Prende Ezzelino istesso

All’ ire nostre parte, e de’ Montecchi

Sostenitor si svela. Oste possente

Ad assalirne invia … Duce ne viene

De’ Ghibellini il più abborrito e reo,

Il più fiero.

CORO.

Chi mai?

TEBALDO.

Romeo.

CORO.

Romeo!

CAPELLIO.

Sì, quel Romeo, quel crudo

Del mio figlio uccisor: egli (fra voi

Chi fia che il creda?) egli di pace ardisce

Patti offerir, e ambasciator mandarne

A consigliarla a noi.

CORO.

Pace! Signor!

CAPELLIO.

Giammai.

LORENZO.

Nè udire il vuoi?

Utili forse e onesti

Saranno i patti. A così lunghe gare

Giova dar fine omai:

Corse gonfio di sangue Adige assai.

CAPELLIO.

Fu vendicato. Il mio soltanto è inulto:

Chi lo versò respira. – E mai fortuna

Non l’ offerse a’ miei sguardi … Ignota a tutti,

Poichè fanciul partì, vagò Romeo

Di terra in terra, ed in Verona istessa

Ardì più volte penetrare ignoto.

TEBALDO.

Rinvenirlo io saprò: ne feci il voto.

È serbata a questo acciaro

Del tuo sangue la vendetta:

L’ ho giurato per Giulietta:

Lo sa Italia, il ciel lo sa.

Tu d’ un nodo a me sì caro

Solo affretta il dolce istante;

Ed il voto dell’ amante

Il consorte adempirà.

CAPELLIO.

Sì; mi abbraccia. A te d’ Imene

Fia l’ altar sin d’ oggi acceso.

LORENZO.

Ciel! Sin d’ oggi?

CAPELLIO.

E d’ onde viene

Lo stupor che t’ ha compreso?

LORENZO.

Ah! Signor, di febbre ardente …

Mesta, afflitta e ognor giacente …

Ella … il sai … potria soltanto

Irne a forza al sacro altar.

TEBALDO.

Come! A forza!

CAPELLIO E CORO.

E avrai tu il vanto

Di por fine al suo penar.

TEBALDO.

L’ amo, ah! l’ amo, e mi è più cara

Più del sol che me rischiara;

È riposta, è viva in lei

Ogni gioia del mio cor.

Ma se avesse il mio contento

A costarle un sol lamento,

Ah! piuttosto io sceglierei

Mille giorni di dolor.

CAPELLIO.

Non temer: tuoi dubbi acqueta:

La vedrai serena e lieta,

Quando te del suo germano

Stringa al sen vendicator.

CORO.

Nostro Duce, e nostro scampo

Snuda il ferro, ed esci in campo;

Di Giulietta sia la mano

Degno premio al tuo valor.

LORENZO.

(Ah Giulietta! Or fia svelato

Questo arcano sciagurato:

Ah non v’ ha potere umano

Che ti plachi il genitor!)

CAPELLIO.

Vanne, Lorenzo: e tu che il puoi, disponi

Giulietta al rito: anzi che il sol tramonti

Compinto il voglio. Ella doman più lieta

Fia che rallegri le paterne mura;

Ubbidisci!

Lorenzo parte.

TEBALDO.

Ah! signor …

CAPELLIO.

Ti rassicura.

Sensi da’ miei diversi

Non può nutrir Giulietta; e a lei fia caro,

Come a noi tutti, il pro’ guerrier che unisce

I suoi destini ai miei.

TEBALDO.

Di tanto bene

Mi persuade amor: è il cor propenso

A creder vero quel che più desìa.

CAPELLIO.

Ma già ver noi s’ invia

Il nemico orator. – Avvi fra voi

Chi de’ Montecchi alle proposte inclini?

TUTTI.

Odio eterno ai Montecchi, ai Ghibellini.

Scena III.

Romeo con seguito di Scudieri, e detti.

ROMEO.

Lieto del dolce incarco a cui mi elegge

De’ Ghibellini il Duce, io mi presento,

Nobili Guelfi, a voi. Lieto del pari

Possa udirmi ciascun, poichè verace

Favella io parlo d’ amistade e pace.

TEBALDO.

Chi fia che nei Montecchi

Possa affidarsi mai?

CAPELLIO.

Fu mille volte

Pace firmata, e mille volte infranta.

ROMEO.

Stassi in tua man che santa

E inviolabil sia. Pari in Verona

Abbian seggio i Montecchi, e sia Giulietta

Sposa a Romeo.

CAPELLIO.

Sorge fra noi di sangue

Fatal barriera, e non sarà mai tolta …

Giammai, lo giuro.

CORO.

E il giuriam tutti.

ROMEO.

Ascolta.

Se Romeo t’ uccise un figlio,

In battaglia a lui diè morte:

Incolpar ne dèi la sorte;

Ei ne pianse, e piange ancor.

Deh! ti placa, e un altro figlio

Troverai nel mio signor.

CAPELLIO.

Riedi al campo, e di’ allo stolto

Che altro figlio io già trovai.

ROMEO.

Come! e qual?

TEBALDO.

Io.

ROMEO.

Tu! (Che ascolto!)

Odi ancor …

CAPELLIO.

Dicesti assai.

TEBALDO E CORO.

Qui ciascuno ad una voce

Guerra a voi gridando va.

ROMEO.

Ostinati! e tal sarà.

La tremenda ultrice spada

A brandir Romeo si appresta:

Come folgore funesta

Mille morti apporterà.

Ma vi accusi al cielo irato

Tanto sangue invan versato:

Ma su voi ricada il pianto

Che alla patria costerà.

TUTTI.

Esci, audace. Un Dio soltanto

Giudicar fra noi saprà.

Partono.

Scena IV.

Gabinetto negli appartamenti di Giulietta.

GIULIETTA sola.

Eccomi in lieta vesta … Eccomi adorna …

Come vittima all’ ara. – Oh! almen potessi

Qual vittima cader dell’ ara al piede!

O nuziali tede,

Abborrite così, così fatal,

Siate, ah! siate per me faci ferali. –

Ardo … una vampa, un foco

Tutta mi strugge. Un refrigerio ai venti

Io chiedo invano. – Ove se’ tu, Romeo?

In qual terra t’ aggiri?

Dove, dove inviarti i miei sospiri?

O quante volte, oh quante

Ti chiedo al ciel piangendo!

Con quale ardor t’ attendo,

E inganno il mio desir!

Raggio del tuo sembiante

Parmi il brillar del giorno:

L’ aura che spira intorno

Mi sembra un tuo respir.

Scena V.

Lorenzo, Giulietta, indi Romeo.

LORENZO.

Propizia è l’ ora. A non sperato bene

Si prepari quell’ alma. –

Giulietta!

GIULIETTA.

Oh! mio Lorenzo!

LORENZO.

Or via; ti calma.

GIULIETTA.

Sarò tranquilla in breve,

Appien tranquilla. A poco a poco io manco,

Il dolore mi uccide … Ah se un istante

Rivedessi Romeo … Romeo potria

La fuggente arrestar anima mia.

LORENZO.

Fa cor, Giulietta … Egli è in Verona …

GIULIETTA.

Oh cielo!

Nè a me lo guidi?

LORENZO.

All’ improvvisa gioia

Reggerai tu?

GIULIETTA.

Più che all’ affanno.

LORENZO.

Or dunque

Ti prepara a vederlo: io tel guidai

Per quel segreto e a noi sol noto ingresso.

ROMEO.

Mia Giulietta! …

GIULIETTA.

Ah! … Romeo! …

LORENZO.

Parla sommesso.

Lorenzo parte.

Scena VI.

Romeo e Giulietta.

GIULIETTA.

Io ti rivedo, oh gioia!

Sì, ti rivedo ancor.

ROMEO.

O mia Giulietta!

Qual ti ritrovo io mai?

GIULIETTA.

Priva di speme,

Egra, languente, il vedi,

E vicina alla tomba. – E tu qual riedi?

ROMEO.

Infelice del pari, e stanco alfine

Di questa vita travagliata e oscura,

Non consolata mai da un tuo sorriso,

Vengo, a morir deciso,

O a rapirti per sempre a’ tuoi nemici. –

Meco fuggir dèi tu.

GIULIETTA.

Fuggir che dici?

ROMEO.

Sì, fuggire: a noi non resta

Altro scampo in danno estremo.

Miglior patria avrem di questa,

Ciel migliore ovunque andremo;

D’ ogni ben che un cor desia

A noi luogo amor terrà.

GIULIETTA.

Ah Romeo! Per me la terra

È ristretta in queste porte:

Qui mi annoda, qui mi serra

Un poter d’ amor più forte.

Solo, ahi! solo all’ alma mia

Venir teco il ciel darà.

ROMEO.

Che mai sento? E qual potere

È maggior per te d’amore?

GIULIETTA.

Quello, ah! quello del dovere,

Della legge e dell’ onore.

ROMEO.

Ah! erudel, d’ onor ragioni

Quando a me tu sei rapita?

Questa legge che mi opponi,

È smentita dal tuo cor.

Deh! t’ arrendi a’ preghi miei,

Se ti cal della mia vita:

Se fedele ancor mi sei,

Non udir che il nostro amor.

GIULIETTA.

Ah! da me che più richiedi,

S’ io t’ immolo e core e vita?

Lascia almeno, almen concedi

Un sol dritto al genitor.

Io morrò se mio non sei,

Se ogni speme è a me rapita:

Ma tu pure alcun mi dèi

Sacrifizio del tuo cor.

ROMEO.

Odi tu? L’ altar funesto

Già s’ infiora, già t’ attende.

GIULIETTA.

Fuggi, ah! fuggi.

ROMEO.

Teco io resto.

GIULIETTA.

Guai se il padre ti sorprende!

ROMEO.

Ei mi sveni, o di mia mano

Cada spento innanzi a te.

GIULIETTA.

Ah Romeo!

ROMEO.

Mi preghi invano

GIULIETTA.

Ah! pietà, di te … di me.

ROMEO.

Vieni, ah! vieni, e in me riposa:

Sei mio bene, sei mia sposa:

Questo istante che perdiamo

Più per noi non tornerà.

In tua mano è la mia sorte,

La mia vita, la mia morte …

Ah! non m’ ami come io t’ amo …

Ah! non hai di me pietà.

GIULIETTA.

Cedi, ah! cedi un sol momento

Al mio duolo, al mio spavento:

Siam perduti, estinti siamo,

Se più cieco amor ti fa.

Deh! risparmia a questo core

Maggior pena, orror maggiore …

Ah! se vivo, è perchè io t’ amo …

Ah! l’ amor con me morrà.

Atto Secondo.

Atrio interno del Palazzo di Capellio.

Scena I.

Cavalieri e Dame.

CORO.

Lieta notte, avventurosa

A rei giorni ancor succede.

Taccion l’ ire e l’ armi han posa

Dove accende Imen le tede:

Dove un riso Amor discioglie

Ivi è giubilo e piacer.

Festeggiam con danze e canti

Questo illustre e fausto imene:

Il gioir di pochi istanti

Sia compenso a molte pene;

Nè ci segua in queste soglie

Alcun torbido pensier.

Dove un riso Amor discioglie

Ivi è giubilo e piacer.

Partono.

Scena II.

Romeo e Lorenzo.

LORENZO.

Deh! per pietà t’ arresta;

Non t’ inoltrar di più: – mal ti nasconde

Questa de’ Guelfi assisa.

ROMEO.

Al mio periglio

Pensar poss’io, quando un rival si accinge

A rapirsi il mio ben! … Ma ciò non fia,

Non fia per certo, il giuro.

LORENZO.

Ahi lasso! è tolta

Forse ogni speme.

ROMEO.

Una men resta … Ascolta.

Segretamente, e in guelfe spoglie avvolti,

Col favor della tregua, entro Verona

Mille si stanno Ghibellini armati.

LORENZO.

Cielo!

ROMEO.

Non aspettati,

Piomberan sui nemici, ed interrotte

Fian le nozze così.

LORENZO.

Funesta notte!

E me di sangue e strage

Complice fai? Me traditor di questa

Famiglia rendi? …

Qual tumulto!

ROMEO.

Oh gioia estrema!

VOCI.

I Montecchi!

ROMEO.

È sava.

CORO.

All’ armi!

LORENZO.

Fuggi … va …

ROMEO.

Tebaldo! trema;

Io già corro a vendicarmi.

Quella tromba è suon ferale,

Suon di morte al mio rivale.

LORENZO.

Taci, taci: d’ ogni lato

Gente accorre … ognuno è armato …

Oh! qual scena il cor prevede

Di furore e erudeltà!

CORO.

Ah! chi d’ armi a noi provvede!

Chi soccorso, o ciel, ne dà?

Partono.

Scena III.

Giulietta sola.

Tace il fragor … silenzio

Regna fra queste porte …

Grazie ti rendo, o sorte:

Libera io sono ancor.

Ma de’ congiunti il sangue

Per me versato or viene …

Forse trafitto, esangue,

Giace l’ amato bene …

Forse … Oh! qual gel! … qual toco

Scorrer mi sento in cor!

Ah! per Romeo v’ invoco,

Cielo, Destino, Amor.

Scena IV.

Romeo e Giulietta.

ROMEO.

Giulietta!

GIULIETTA.

Ahimè! … qui vedo?

ROMEO.

Il tuo Romeo: t’ acqueta.

GIULIETTA.

Ahi lassa! … e ardisci? …

ROMEO.

Io riedo

A farti salva e lieta.

Seguimi.

GIULIETTA.

Ahi! dove? ahi! come!

Te perderesti e me.

ROMEO.

Io te lo chiedo in nome

Della giurata fè.

CORO.

Morte ai Montecchi!

GIULIETTA.

Ah! lasciami;

Gente ver noi s’ avvia.

ROMEO.

Io t’ aprirò fra i barbari

Con questo acciar la via.

Scena V.

Tebaldo e Capellio con armigeri, Lorenzo, e detti.

CAPELLIO.

Ferma.

TEBALDO.

Che miro? Il perfido

Nemico ambasciator!

LORENZO.

(Cielo! … è perduto il misero.)

ROMEO.

Oh! rabbia!

GIULIETTA.

Oh mio terror!

CAPELLIO.

Armato! in queste soglie!

TEBALDO.

Sotto mentite spoglie!

Quale novella insidia,

Empio, tentavi ordir?

Soldati, olà ..

GIULIETTA.

Fermate:

Padre … Signor … pietate …

CAPELLIO.

Scostati …

TEBALDO.

E qual pensiero

Qrendi d’ un menzognero?

CAPELLIO.

Giulietta?

TEBALDO.

Non rispondi,

Tu tremi … ti confondi?

Fellon! … chi sei?

ROMEO.

Son tale …

GIULIETTA.

Ah! no, non ti scoprir.

ROMEO.

Io sono a te rivale.

LORENZO.

(Incauto!)

GIULIETTA.

Oh rio martir!

TEBALDO, CAPELLIO.

Rivale! che intendo?

GIULIETTA.

Lorenzo, m’ aita.

LORENZO.

Oh! istante tremendo!

ROMEO.

Ahimè! l’ ho tradita.

TEBALDO, CAPELLIO, LORENZO.

Oh notte, raddensa

Le tenebre in cielo:

Ricopri d’ un velo

Il nostro rossor.

GIULIETTA, ROMEO.

Soccorso, sostegno

Accordale / Accordagli, o cielo,

Me sola / solo fa segno

Del loro furor.

CORO.

Accorriem … Romeo!

CAPELLIO, TEBALDO.

Quai grida!

ROMEO.

I miei fidi!

GIULIETTA.

Oh! gioia!

CORO.

È desso,

A salvarti un Dio ci guida:

Vien, Romeo, tuoi fidi hai presso,

CAPELLIO.

Tu Romeo! nè ti svenai?

TEBALDO.

E mi sfuggi? … e tu vivrai?

ROMEO.

Sangue, o barbari, bramate,

Ed il sangue scorrerà.

TEBALDO, CAPELLIO, ROMEO, CORO.

Al furor che si ridesta,

Alla strage che s’ appresta.

Come scossa da tremuoto

Tutta Italia tremerà.

LORENZO, GIULIETTA.

Giusto cielo tu gli arresta

Da battaglia sì funesta,

Sveglia in essi un qualche moto

Di rimorso e di pietà.

ROMEO E GIULIETTA.

Se ogni speme è a noi rapita

Di mai più vederci in vita,

Questo addio non fia l’ estremo,

Ci vedremo – almen in ciel.

TEBALDO, CAPELLIO, CORO.

Sul furor che si ridesta,

Sulla strage che si appresta

Anzi tempo, o sol, risplendi,

E dirada all’ ombre il vel.

LORENZO.

Piomba, o notte, e al ciel contendi

Lo spettacolo crudel.

Atto Terzo.

Galleria nel palazzo di Capellio.

Scena I.

Giulietta sola.

Nè alcun ritorna! … Oh! cruda,

Dolorosa incertezza! – Il suon dell’armi

Si dileguò – … Sol tratto tratto un fioco,

Incerto mormorio lunge si desta,

Come vento al cessar della tempesta.

Chi cadde, oimè! chi vinse?

Chi primo io piangerò? – Nè uscir poss’io?

E ignara di mia sorte io qui m’aggiro!

Scena II.

Giulietta e Lorenzo.

GIULIETTA.

Lorenzo, ebben? …

LORENZO.

Salvo è Romeo.

GIULIETTA.

Respiro.

LORENZO.

Nella vicina rocca

Da’ suoi sorpresa, da Ezzelin soccorso

Sperar ei puote … ma tu, lassa! … in breve

Di Tebaldo al castel tratta sarai,

Se in me non fidi, se al periglio estremo

Con estrema fermezza or non provvedi.

GIULIETTA.

Che far? Favella.

LORENZO.

Hai tu coraggio?

GIULIETTA.

E il chiedi?

LORENZO.

Prendi: tal filtro è questo,

E si possente, che sembiante a morte

Sonno produce. A te creduta estinta

Tomba fia data ne’ paterni avelli …

GIULIETTA.

Oh! che di’ tu? fra quelli

Giace il fratello da Romeo trafitto …

Esso del mio delitto

Sorgeria punitor …

LORENZO.

Al tuo svegliarti

Sarem presenti il tuo diletto ed io …

Non paventar. – Tremi? t’ arretri?

GIULIETTA.

Oh Dio!

Morte io non temo, il sai …

Sempre io la chiesi a te …

Pur non provato mai

Sorge un terrore in me.

LORENZO.

Fida, deh fida in me:

Sarai contenta.

GIULIETTA.

Se del licor possente

Fallisse la virtù! …

Se in quell’ orror giacente

Non mi destassi più …

Dubbio crudele!

LORENZO.

Prendi … gl’ istanti volano …

Il padre tuo si avanza …

GIULIETTA.

Il padre! ah! porgi, e salvami.

LORENZO.

Salva già sei: costanza.

GIULIETTA.

Guidami altrove.

Scena III.

Capellio con seguito, e detti.

CAPELLIO.

Arresta.

Ancor sei desta?

Concedo al tuo riposo

Brevi momenti ancor.

Esci: e a seguir lo sposo

Ti appresta al nuovo albor.

CORO.

Lassa! … d’ affanno è piena …

Geme … si regge appena.

Più mite a lei favella;

L’ uccide il tuo rigor.

GIULIETTA.

Ah! non poss’ io partire

Priva del tuo perdono …

Presso alla tomba io sono …

Dammi un amplesso almen.

Pace una volta all’ ire,

Pace ad un cor che more …

Dorma ogni tuo furore

Del mio sepolcro in sen.

CAPELLIO.

Lasciami …

LORENZO.

(Ah! vieni, e simula.)

CAPELLIO.

Alle tue stanze riedi.

CORO.

Ella è morente, il vedi.

Poni al tuo sdegno un fren.

Partono.

Scena IV.

Luogo remoto presso il palazzo di Capellio.

ROMEO solo.

Deserto è il loco. – Di Lorenzo in traccia

Irne poss’ io. – Crudel Lorenzo! anch’ esso

M’ oblìa nella sventura, e congiurato

Col mio destin tiranno,

M’ abbandona a me solo in tanto affanno.

Vadasi. – Alcun si appressa …

Crudele inciampo!

Scena V.

Tebaldo e Romeo.

TEBALDO.

Olà! chi sei, che ardisci

Aggirarti furtivo in queste mura? –

Non odi tu?

ROMEO.

Non t’ appressar. Funesto

Il conoscermi fora.

TEBALDO.

Io ti conosco

All’ audace parlar, all’ ira estrema

Che in me tu desti.

ROMEO.

Ebben mi guarda, e trema.

TEBALDO.

Stolto! ad un sol mio grido

Mille a punirti avrei;

Ma vittima tu sei

Serbata a questo acciar.

ROMEO.

Vieni; io ti sprezzo, e sfido

Teco i seguaci tuoi:

Tu bramerai fra noi

L’ alpi frapposte e il mar.

A DUE.

Un Nume avverso, un fato

Che la ragion ti toglie,

T’ ha spinto in queste soglie

La morte ad incontrar.

TEBALDO.

All’ armi.

ROMEO.

All’ armi.

TEBALDO.

Arresta.

ROMEO.

Qual mesto suono echeggia?

CORO.

Ahi sventurata!

ROMEO.

È questa

Voce di duol.

TEBALDO.

Si veggia.

Scena VI.

Comparisce un corteggio funebre. I detti.

CORO.

Pace alla tua bell’ anima

Dopo cotanti affanni!

Vivi, se non fra gli uomini,

Vivi, o Giulietta, in ciel.

ROMEO.

Giulietta!

TEBALDO.

Spenta! …

ROMEO.

Oh barbari!

A DUE.

Mi scende agli occhi un vel.

ROMEO.

Ella è morta, o sciagurato,

Per te morta di dolore.

Paga alfine è del tuo cuore

L’ ostinata crudeltà.

Svena, ah! svena un disperato …

Ai tuoi colpi il sen presento …

Sommo bene in tal momento

Il morir per me sarà.

TEBALDO.

Ah! di te più disperato,

Più di te son io trafitto.

L’ amor mio come un delitto

Rinfacciando il cor mi va.

Vivi, ah vivi, o sventurato,

Tu che almen non hai rimorso:

Se a’ miei dì non tronchi il corso,

Il dolor mi ucciderà.

Atto Quarto.

Recinto ove sorgono le tombe dei Capuleti.

Scena I.

Romeo coi suoi compagni.

CORO.

Siam giunti. Ah il ciel consenta,

Che non ti sia funesta

L’ esser disceso in questo

Albergo di squallor.

ROMEO.

Ecco la tomba! Ancor di fiori sparsa,

Molle di pianto ancor; il mio ricevi

Più doloroso e amaro.

CORO.

Signor, ritratti!

ROMEO.

Altro fra poco, maggior del pianto,

Altro olocausto avrai.

CORO.

Omai eccede il tuo dolor.

ROMEO.

Oh del sepolcro profonda oscurità,

Cedi un istante al lume del giorno,

E mi rivela per poco la tua preda.

L’ urna mi aprite voi, ch’ io la riveda.

Ah! Giulietta, o mia Giulietta!

Sei tu, ti veggio! Ti ritrovo ancora!

Non morta sei, dormi soltanto

E aspetti, che ti desti il tuo Romeo.

Sorgi, mio bene, al suon de’ miei sospiri;

Ti chiama il tuo Romeo.

CORO.

Lasso, deliri! Vieni, partiamo.

Periglio è l’ indugiar di più.

ROMEO.

Per pochi istanti

Me qui lasciate, arcani ha il duol, che debbe

Solo alla tomba confidar.

CORO.

Lasciarti solo, e in tanto cordoglio!

Ah, tu ci spezzi il cor.

ROMEO.

Partite, il voglio.

Coro parte.

Scena II.

Romeo solo.

Tu sola, o mia Giulietta,

M’ odi tu sola. Ahi! Vana speme; è sorda

La fredda salma di mia voce al suono,

Deserto in terra, abbandonato io sono.

Deh tu, bell’ anima,

Che al cielo ascendi,

A me rivolgiti,

Con te mi prendi.

Cosi scordarmi,

Cosi lasciarmi,

Non puoi, bell’ anima,

Nel mio dolor.

Oh tu, mia sola speme,

Tosco fatal, non mai da me diviso,

Vieni al mio labbro. Raccogliete voi

L’ ultimo mio respiro,

Tombe de’ miei nemici.

Scena III.

Giulietta si desta, Romeo.

GIULIETTA.

Ah!

ROMEO.

Qual sospiro!

GIULIETTA.

Romeo!

ROMEO.

La voce sua!

GIULIETTA.

Romeo!

ROMEO.

Mi chiama, gia m’ invita al suo sen.

Ciel, che vegg’ io.

GIULIETTA.

Romeo!

ROMEO.

Giulietta, oh Dio!

GIULIETTA.

Sei tu?

ROMEO.

Tu vivi?

GIULIETTA.

Ah, per non più lasciarti.

Io mi desto, mio ben,

La morte mia fu simulata.

ROMEO.

Oh, che dì tu?

GIULIETTA.

L’ ignori? Non vedesti Lorenzo?

ROMEO.

Altro non vidi,

Altro non seppi, ahi me!

Ch’ eri qui morta,

E qui venni, ah infelice!

GIULIETTA.

Ebben, che importa? Son teco alfin;

Ogni dolor cancella.

Un nostro amplesso, andiam!

ROMEO.

Restarmi io deggio eternamente qui.

GIULIETTA.

Che dici mai? Parla, parla!

Ah Romeo!

ROMEO.

Tutto già sai.

GIULIETTA.

Ah, crudel! Che mai facesti?

ROMEO.

Morte io volli a te vicino.

GIULIETTA.

Deh, che scampo alcun ti appresti!

ROMEO.

Ferma! E vano.

GIULIETTA.

O rio destino!

ROMEO.

Cruda morte io chiudo in seno.

GIULIETTA.

Ch’ io con te l’ incontri almeno!

Dammi il ferro!

ROMEO.

Ah, no! Giammai!

GIULIETTA.

Un veleno!

ROMEO.

Il consumai.

Vivi, ah vivi, e vien talora,

Sul mio sasso a lagrimar.

GIULIETTA.

Ciel crudele! Ah, pria ch’ ei mora,

I miei di tu dei troncar.

ROMEO.

Giulietta, al seno stringimi,

Io ti discerno appena.

GIULIETTA.

Ed io ritorno a vivere,

Quando tu dei morir.

ROMEO.

Cessa, il vederti in pena,

Accresce il mio martir.

Più non ti veggo … ah! parlami …

Un solo accento ancor …

Rammenta il nostro amor …

Io manco … addio! …

GIULIETTA.

Oh! sfortunato! attendimi …

Non mi lasciare ancor …

Posati sul mio cor …

Ei muore … oh! … Dio!

Vincenzo Bellini – Die Capuleti und die Montecchi

Vincenzo Bellini

Die Capuleti und die Montecchi

Tragische Oper in vier Akten

Personen

Capellio, Haupt der Capuleti

Giulietta, seine Tochter

Romeo, Haupt der Montecchi

Tebaldo, Anhänger der Capuleti und Giulietta’s bestimmter Gemahl

Lorenzo, Arzt, in Capellio’s Diensten

Anhänger der Familien Capuleti und Montecchi

Damen. Wachen. Bewaffnete

Die Handlung geht in Verona, im dreizehnten Jahrhundert vor.

Erster Akt.

Gallerie in Capellio’s Pallast.

Erste Scene.

Capellio’s Freunde und Verbündete.

EINIGE.

Kaum graut der Morgen, erscheinen wir,

Noch in der Dämm’rung Stunde.

ANDERE.

Was giebt es? – uns zu versammeln hier,

Kam uns die schnelle Kunde.

ALLE.

Schaaren von Kriegern zeigen sich,

Und sind zum Kampf bereit.

EINIGE.

Dinge von hoher Wichtigkeit

Sind wohl indeß geschehen? –

ANDERE.

Wohl mag der Bund der Guelfen

Neu sich bedrohet sehen,

Und die Montecchi rüsten sich

Zu blut’gem Kampf und Streit.

ALLE.

Fluch und Verderben treffe sie! –

Tod sey das Loos der Kühnen!

Eh’ unser Thor sich öffnet

Vor diesen Ghibellinen,

Eh’ sey, in Staub und Schutt zermalmt,

Verona unser Grab! –

Zweite Scene.

Capellio, Tebaldo, Lorenzo, Vorige.

TEBALDO.

Ihr, dieses Hauses treu ergeb’ne Freunde!

Vertheid’ger seines Ruhmes, aus wicht’gen Gründen

Seh’ ich heut Euch versammelt in diesen Hallen.

Wißt, Ezzelino selber

Nimmt Theil an unserm Streite.

Und stellt sich kämpfend an der Montecchi Seite.

Mit mächt’gen Schaaren ist er im Feld erschienen;

An ihrer Spitze steht der verhaßte,

Der übermüth’ge Führer der Ghibellinen.

CHOR.

Sein Name?

TEBALDO.

Romeo! –

CHOR.

Romeo? –

CAPELLIO.

Jener Romeo, der Frevler,

Der mir den Sohn erschlug! Ja er, (wer mag

Die Frechheit glauben?) er, der verhaßte Gegner,

Bietet uns Frieden. Ein Bote ward deshalb

Von ihm an uns beschieden.

CHOR.

Friede, o Herr! –

CAPELLIO.

Nein, nimmer! –

LORENZO.

Laß ihn erscheinen!

Wohl kann, was er verkündet,

Vortheil uns bringen. Zu lang’ ward in Verona

Nur Kampf und Mord geübet,

Zu lang’ schon floß die Etsch von Blut getrübet!

CAPELLIO.

Es ward gerächt! Nur meines floß ohne Rache.

Der es vergoß, er athmet. Nie führt der Zufall

Ihn meinem Blick entgegen. Von Allen ungekannt,

Weil er uns früh verlassen, irrte Romeo

Von Land zu Land. Selbst in Verona’s Mauern

Wußt’ er sich öfters tollkühn einzuschleichen! –

TEBALDO.

So vernehmt meinen Schwur! – Mein Arm soll ihn erreichen!

Diesem Schwerdte wird’s gelingen,

Blut’ge Rache Dir zu bringen;

Ja, ich schwör’s bei meiner Liebe,

Ich entdecke seine Spur.

Laß, o laß mit süßen Banden

Uns’re Herzen bald umschlingen,

Der Gemahl wird dann vollbringen,

Was der Liebende Dir schwur!

CAPELLIO.

Sohn! umarme mich! – Euch soll noch heute

Hymens Fackel sich entzünden.

LORENZO.

Wie? noch heute?

CAPELLIO.

Was soll dies Staunen?

Das mir Deine Worte künden?

LORENZO.

Denk’, o Herr, des Fiebers Schmerzen –

Qual und Kummer im kranken Herzen –

Wisse, Giulietta – ach mit Gewalt nur

Träte sie vor den Altar.

TEBALDO.

Mit Gewalt?

CAPELLIO UND CHOR.

Die Hand der Liebe

Bring’ ihr Trost und Hülfe dar.

TEBALDO.

Theurer noch, als dieses Leben,

Ist die Holde meinem Herzen.

Ihre Liebe ist mein Streben,

Meine Wonne sie allein.

Doch erpreßte mein Entzücken

Ihrer Brust nur eine Klage,

O dann soll mir jede Plage,

Jede Qual beschieden seyn!

CAPELLIO.

Laß die bangen Zweifel schwinden,

Ihre Ruhe soll sie finden,

Wirst Du kämpfend überwinden –

Ihres Bruders Rächer seyn.

CHOR.

Führ’ uns hin zum blut’gen Streite!

Ja, wir kämpfen Dir zur Seite.

Reich belohnt wirst Du Dich finden,

Denn Giulietta harret Dein.

LORENZO.

Wehe ihr! vor dem Geheimniß

Muß nun bald der Schleier schwinden

Und kein Retter wird sich finden, –

Niemand wird ihr Schutz verleih’n.

CAPELLIO.

Eile, Lorenzo! Du vermagst zur heil’gen Feier

Sie zu bewegen. Noch eh’ die Sonne sinkt,

Sey sie vollzogen. Morgen soll Lust und Freude

Aus ihren Blicken uns entgegen strahlen. –

Fort! gehorche! –

Lorenzo ab.

TEBALDO.

Herr, ich fürchte –

CAPELLIO.

Laß jede Sorge! –

Nie wird Capellio’s Tochter

Des Vaters Sinn verleugnen; und hoch geehrt,

So wie uns Allen, sey der Tapfre ihr,

Der sich mit uns verbindet.

TEBALDO.

Mag dieses Hoffen

Ein froher Ausgang krönen! Gern glaubt das Herz,

Was es erstrebet mit heißer Liebe Sehnen.

CAPELLIO.

Schon nahet sich der Sprecher,

Den uns der Feind gesandt. Ist hier wohl Einer,

Der den Montecchi die Hand zum Frieden böte?

ALLE.

Fluch den Montecchi! Tod den Ghibellinen!

Dritte Scene.

Romeo mit kriegerischem Gefolge, Vorige.

ROMEO.

Froh meines heil’gen Amtes, das mir verlieh’n,

Der Ghibellinen Haupt, nah’ ich voll Ehrfurcht,

Ihr edlen Guelfen, Euch. Mit gleicher Freude

Möge Jeder mich hören; mit frohem Munde

Bring’ ich der Freundschaft und des Friedens Kunde.

TEBALDO.

O sprich, wer baute je

Auf der Montecchi Treue?

CAPELLIO.

Oft ward der Friede

Mit Euch geschlossen, stets brach’t Ihr ihn auf’s Neue.

ROMEO.

In Deiner Hand bewahrest Du

Des ew’gen Friedens Pfand; gönn’ in Verona

Gleiches Recht den Montecchi, und gieb Romeo

Der Tochter Hand.

CAPELLIO.

Des Blutes heil’ge Schranke

Trennt uns auf immer, und nimmer kann sie schwinden,

Nimmer! ich schwöre.

ALLE.

Wir Alle schwören!

ROMEO.

O höre!

Wenn Romeo den Sohn erschlagen,

So geschah’s im Schlachtgetümmel –

Nur das Schicksal ist anzuklagen –

Heiße Thränen weiht ihm sein Schmerz.

D’rum Versöhnung! Du findest wieder

In Romeo des Sohnes Herz! –

CAPELLIO.

Kehr’ zurück, und sag’ dem Thoren,

Schon hab’ ich den Sohn erkoren.

ROMEO.

Himmel! – und wen? –

TEBALDO.

Tebaldo! –

ROMEO.

Du!

Noch ein Wort! –

CAPELLIO.

Genug der Worte! –

TEBALDO UND CHOR.

Ew’ger Kampf den Ghibellinen! –

Dies ist unser Feldgeschrei!

ROMEO.

Uebermüth’ge! – Wohlan, es sey!

Vor Romeo’s Rächer-Arme

Soll kein Gott Euch nun beschützen,

Und von seines Schwerdtes Blitzen

Treffe Euch der Todesstreich.

Doch zum Himmel schreit um Rache

All’ das Blut, das Ihr vergossen,

Jede Thräne, die geflossen,

Laste schwer, ja schwer auf Euch! –

ALLE.

Fort, Verweg’ner! – Nur der Himmel

Lenkt gerecht den Todesstreich! –

Vierte Scene.

Giulietta’s Gemach.

GIULIETTA allein.

Festlich steh’ ich geschmücket, gleich einem Opfer,

Das zum Altar man führet. Ach, könnt’ ich Verlass’ne

Als Opfer am Altar mein Leben enden! –

Flammende Hochzeitfackeln,

Die mit verhaßtem Glanz mein Auge blenden,

Leuchtet, ach leuchtet zu meiner Todtenfeier! –

Ich glühe, wildes Feuer durchtobt mich!

Will mich verzehren. Der Lüfte kühlend Fächeln

Such’ ich vergebens. Wo weilst du, o Romeo?

Sieh, mein Herz will verzagen! –

Wohin, ach, send’ ich meiner Sehnsucht Klagen?

Ach, wie so oft vom Himmel

Erfleht’ ich dich mit Thränen!

Getäuscht von meinem Sehnen

Wähn’ ich dich nah’ bei mir.

Ein Strahl aus deinen Blicken.

Scheint mir der Glanz der Sonne.

Lüfte, die mich erquicken,

Scheinen ein Hauch von dir.

Fünfte Scene.

Lorenzo, Giulietta, dann Romeo.

LORENZO.

Die Zeit ist günstig! – Zu unverhoffter Wonne

Muß ich sie vorbereiten. –

Giulietta!

GIULIETTA.

Lorenzo! –

LORENZO.

Nur Ruhe! nur Fassung! –

GIULIETTA.

Bald werd’ ich Ruhe finden,

Ja, lange Ruhe – ich fühl’s in meinem Innern,

Wie mir die Kräfte schwinden. Ha! könnt’ ich einmal,

Nur einmal noch ihn sehen! – Er nur vermag es,

Die verlöschende Flamme neu zu beleben! –

LORENZO.

Nur Muth, Giulietta! Er ist in Verona!

GIULIETTA.

O Himmel!

Und mir noch ferne?

LORENZO.

Die allzu jähe Freude,

Trägt sie Dein Herz?

GIULIETTA.

Mehr als dies Leiden! –

LORENZO.

Wohlan!

So sey gefaßt, ihn zu sehen! Ich führt’ ihn her

Auf dem geheimen, nur uns bekannten Pfade.

ROMEO.

Meine Giulietta! –

GIULIETTA.

Romeo!

LORENZO.

Sprecht nur leise!

Lorenzo ab.

Sechste Scene.

Romeo und Giulietta.

GIULIETTA.

Ich seh’ Dich wieder, o Wonne!

Endlich seh’ ich Dich wieder! –

ROMEO.

Meine Giulietta!

Wie muß ich Dich wiederfinden? –

GIULIETTA.

Ach, ohne Hoffnung,

Gramvoll und leidend. Du siehst es,

Nah’ an des Grabes Rande! Und Du, Romeo?

ROMEO.

Unglückselig, gleich Dir, und endlich müde

Dieses verhaßten, qualvollen Lebens,

Das Deiner Liebe Lächeln mir nicht verkläret,

Komm’ ich, mein Daseyn hier zu enden,

Oder Dich zu entführen aus Feindes Händen.

Du mußt mit mir entflieh’n! –

GIULIETTA.

Entflieh’n? – was sagst Du?

ROMEO.

Ja, wir flieh’n! Uns winket Beiden

Fern die Ruh’ nach schweren Leiden.

Du wirst auch in fremden Auen

Deiner Heimath Fluren schauen, –

Jedes Glück, von dem wir scheiden,

Wird die Lieb’ uns neu verleih’n!

GIULIETTA.

Ach, Romeo! im Schooß der Meinen

Laß mich mein Geschick beweinen.

Höh’rer Liebe feste Bande

Fesseln mich im Vaterlande.

Nur mein Geist darf Dich geleiten,

Ewig wird er bei Dir seyn.

ROMEO.

Ha, was hör’ ich? welche Bande

Sind so stark als Lieb’ und Treue?

GIULIETTA.

Die Gesetze, Pflicht und Ehre,

Und die Furcht vor bitt’rer Reue! –

ROMEO.

Ach, Du sprichst von Pflicht und Ehre,

Da man ewig uns will trennen!

Nur Dein Mund spricht diese Lehre,

Doch Dein Herz erkennt sie nicht.

Soll Romeo ferner leben,

So erhör’ sein dringend Flehen! –

Schlägt Dein Herz mir treu ergeben,

Höre nur, was Liebe spricht! –

GIULIETTA.

Willst Du mehr noch, als mein Leben,

Das ich ewig Dir nur weihte? –

Doch an meines Vaters Seite

Bindet mich der Tochter Pflicht.

Bald wird man in’s Grab mich senken,

Muß ich fern von Dir mich seh’n;

Und Du kannst so tief mich kränken,

Da mein Herz vor Jammer bricht! –

ROMEO.

Hörest Du? es sind die Klänge,

Die die Feier Dir verkünden.

GIULIETTA.

Fliehe! – fort! –

ROMEO.

Nein, nein, ich bleibe! –

GIULIETTA.

Weh’! der Vater wird Dich finden!

ROMEO.

Einer falle von uns Beiden,

Unser Schwerdt soll Richter seyn! –

GIULIETTA.

Ach, Romeo! –

ROMEO.

Du flehst vergebens! –

GIULIETTA.

Ach, erbarm’ Dich Dein und mein! –

ROMEO.

Theure, bau’ auf meine Treue,

Folge mir zum schönsten Bunde!

Ach, sonst wird die günst’ge Stunde

Ewig uns verloren seyn.

Des Geliebten Tod und Leben

Sind in Deine Hand gegeben.

Nein, Du fühlst nicht meine Liebe,

Kennest nicht der Sehnsucht Pein! –

GIULIETTA.

Hör’, o hör’ mein banges Flehen! –

Sieh, Geliebter, meine Leiden! –

Nur Verderben droht uns Beiden,

Nichts kann uns vom Tod’ befrei’n.

Ach, erspare meinem Herzen

Größ’re Qualen, größ’re Schmerzen! –

Dein, nur Dein war ich im Leben,

Auch im Tode bin ich Dein! –

Zweiter Akt.

Innere Halle in Capellio’s Pallast.

Erste Scene.

Ritter und Damen.

CHOR.

Wenn des Tages Stürme verfliegen,

Bringt der Abend Freud’ und Vergnügen,

Zorn und Rache seh’n wir entschwinden,

Wenn Hymens Fackeln hell sich entzünden.

Wo Amors Lächeln freundlich uns winket,

Herrscht nur Entzücken, Jubel und Lust.

Laßt mit Gesängen, mit fröhlichen Klängen

Das heut’ge Fest uns froh begehen.

Ja, diese Stunde der reinsten Freuden

Sey uns Belohnung nach langen Leiden.

Wo der Freude Becher blinket,

Flieht der Gram aus jeder Brust,

Und wo Amor’s Lächeln winket,

Herrscht Entzücken, Wonn’ und Lust.

Ab.

Zweite Scene.

Romeo, Lorenzo.

LORENZO.

Hemme die raschen Schritte! wage

Nicht weiter Dich; des Guelfen Kleidung

Schützt Dich nicht vor Verrath.

ROMEO.

Kann an Gefahren

Ich wohl noch denken, wenn der verhaßte Feind

Mir die Geliebte raubt? Ja doch beim Himmel!

Nie soll’s gescheh’n! Ich schwör’ es!

LORENZO.

Du rasest! entschwand Dir

Nicht jede Hoffnung?

ROMEO.

Eine noch bleibt mir. So höre!

Heimlich verweilen, gleich mir verkleidet,

Im Schutz des Waffenstillstandes, hier in Verona

Tausend der Meinen, zum Kampfe gerüstet.

LORENZO.

Himmel!

ROMEO.

Ganz unerwartet stürzt

Die Schaar sich auf die Feinde, und schnell geendet

Sey das heutige Fest.

LORENZO.

O Nacht voll Schrecken!

Mich machst Du zum Genossen

So blut’ger Gräuel? Machst mich zum Verräther

An diesem Hause?

Welch’ Getümmel!

ROMEO.

O Entzücken!

CHOR.

Die Montecchi!

ROMEO.

Wohl mir!

CHOR.

Zum Kampfe!

LORENZO.

Fliehe! schnell!

ROMEO.

Tebaldo, zitt’re!

Meiner Rache sollst Du fallen!

Die Trompeten hör’ erschallen,

Sie verkünden Dir den Tod!

LORENZO.

Schweige, schweige, flieh’, o fliehe!

Waffenlärm von jeder Seite!

Ach, Du bist des Todes Bente

Vom Verderben rings bedroht.

CHOR.

Bringt Waffen, schnell, ihr Leute!

Wer giebt Schutz in dieser Noth? –

Ab.

Dritte Scene.

Giulietta allein.

Still wird’s umher, – und Schweigen

Folget dem Schlachtgetümmel.

Nimm meinen Dank, o Himmel,

Frei athmet dieses Herz.

Doch an den gold’nen Decken

Sah’ ich das Blut der Meinen, –

Muß ich vielleicht, o Schrecken!

Romeo’s Fall beweinen?

Himmel! diese Angst, dies Beben –

Kaum kann ich widersteh’n.

Du nur kannst Schutz ihm geben,

Ew’ger! o hör’ mein Fleh’n!

Vierte Scene.

Romeo, Giulietta.

ROMEO.

Giulietta!

GIULIETTA.

O Gott! wen seh’ ich?

ROMEO.

Deinen Romeo, o fasse Dich!

GIULIETTA.

Entsetzen, Du wagst es?

ROMEO.

Zur Rettung

Biet’ ich Dir meine Hand.

Folg’ mir!

GIULIETTA.

Laß mich! – o Himmel!

Du tödtest mich und Dich!

ROMEO.

Komm, ich beschwöre Dich

Bei unsrer Liebe Band!

CHOR.

Tod den Montecchi!

GIULIETTA.

Fliehe!

Sie stürmen schon heran!

ROMEO.

Mitten durch ihre Reihen

Macht dieses Schwerdt uns Bahn.

Fünfte Scene.

Tebaldo und Capellio mit Bewaffneten. Lorenzo. Vorige.

CAPELLIO.

Haltet!

TEBALDO.

Was seh’ ich! der Abgesandte,

Der heut’ vom Frieden sprach?

LORENZO.

(O Gott, er ist verloren!)

ROMEO.

Ich wüthe!

GIULIETTA.

Welche Schmach!

CAPELLIO.

Bewaffnet! im Pallaste?

TEBALDO.

Gehüllt in dieses Kleid?

Hältst Du vielleicht auf’s Neue

Ein Bubenstück bereit?

Wachen, herbei!

GIULIETTA.

Haltet ein!

Vater! – O schont! Erbarmen!

CAPELLIO.

Fort von mir!

TEBALDO.

Wie kann um seinetwillen

Sorge Dein Herz erfüllen?

CAPELLIO.

Giulietta!

TEBALDO.

Keine Antwort?

Du zitterst? bist verlegen?

Wer bist Du, Bube?

ROMEO.

So wisse! –

GIULIETTA.

Nein, nein, o sprich es nicht!

ROMEO.

Ich bin Dein Nebenbuhler! –

LORENZO.

(Wie unbedacht!)

GIULIETTA.

Mein Herz – es bricht! –

TEBALDO, CAPELLIO.

Verräther, was hör’ ich? –

GIULIETTA.

Lorenzo, zu Hülfe! –

LORENZO.

O Stunde des Jammers! –

ROMEO.

Durch mich stirbt die Arme! –

TEBALDO, CAPELLIO, LORENZO.

Umflort euch, ihr Sterne! –

Bedeckt euern Schein! –

Tief hüll’ uns’re Schande

In Dunkel sich ein! –

GIULIETTA, ROMEO.

O Vorsicht, du wollest

Ihm / Ihr Rettung verleih’n!

Schwer fall’ ihre Rache

Auf mich nur allein!

CHOR.

Wir sind nah’, Romeo! –

TEBALDO, CAPELLIO.

Welch Schreien! –

ROMEO.

Meine Freunde! –

GIULIETTA.

O Wonne!

CHOR.

Er ist es!

Sieh, es kommen die Getreuen,

Dich, Romeo, zu befreien! –

CAPELLIO.

Du Romeo? – Und noch am Leben?

TEBALDO.

Ha, Verräther! Du sollst erbeben! –

ROMEO.

Blut und Leichen wollt Ihr sehen? –

Nun wohlan! es fließe Blut! –

TEBALDO, CAPELLIO, ROMEO, CHOR.

Von des Kampfes wilden Stürmen,

Die sich tobend nun erheben,

Soll Italien erbeben,

Zittern selbst des Meeres Strand! –

GIULIETTA, LORENZO.

Ende, Gott, des Kampfes Stürme,

Die sich tobend nun erheben,

Und der Rache blutig Streben

Sey in Mitleid umgewandt! –

ROMEO, GIULIETTA.

Mag für dieses Erdenleben

Jede Hoffnung uns entschwinden! –

Ja, wir werden einst uns finden,

Dort, vereint in jenem Land! –

TEBALDO, CAPELLIO, CHOR.

Zu des Kampfes wilden Stürmen,

Die sich tobend nun erheben,

Eile, Sonn’, uns Licht zu geben,

Steig’ hervor am Himmelsrand! –

LORENZO.

Sonne, steig’ mit Widerstreben

Spät hervor am Himmelsrand! –

Dritter Akt.

Gallerie in Capellio’s Pallast.

Erste Scene.

Giulietta allein.

Noch keine Kunde! – O Himmel!

Gieb mir Gewißheit! – Der Lärm der Waffen

Ist nun verstummt. Nur noch zuweilen ertönt

Mit fernen dumpfem Schalle ein leises Murmeln

Wie von Wogen des Meers nach Ungewittern.

Wer fiel im Kampfe? O Gott! wer siegte?

Wen muß ich beweinen? Dürft’ ich nur geh’n und fragen!

Gequält von bangen Zweifeln, muß ich verzagen!

Zweite Scene.

Lorenzo, Giulietta.

GIULIETTA.

Lorenzo, o sprich! –

LORENZO.

Romeo lebet!

GIULIETTA.

Ich athme! –

LORENZO.

Des nahen Felsens Gipfel

Schützt ihn und seine Schaar, bis Ezzelin

Ihm selber helfend erscheint. Doch, wisse! Du Aermste

Bald führt Tebaldo Dich nach seinem Schlosse,

Wenn Du noch zögerst, mit fester Zuversicht

Dem lang’ bewährten Freund Dich zu vertrauen!

GIULIETTA.

Was soll ich thun? – O rede! –

LORENZO.

Hast Du Muth? –

GIULIETTA.

Du fragst noch? –

LORENZO.

Nun denn! – Hier, dieses Fläschchen

Enthält ein Mittel, das in Schlummer wieget,

Aehnlich dem Tode, und Dich, die todt man wähnet,

Legt man in’s Grab an Deiner Ahnen Seite.

GIULIETTA.

Ha! welch ein Plan? Bei ihnen

Ruht auch der Bruder, den Romeo erschlagen.

Drohend wird er erstehen

Aus der modernden Gruft.

LORENZO.

Wenn Du erwachst,

Ist Dein Geliebter sammt mir in Deiner Nähe.

D’rum ohne Furcht! Du zitterst? Du zauderst?

GIULIETTA.

O Himmel! –

Mich kann der Tod nicht schrecken! –

Oft wollt’ ich ihn erflehen;

Doch ihn so nah’ zu sehen,

Erfüllt mein Herz mit Gran’n.

LORENZO.

Muthig! Auf, fasse Vertrau’n! –

Kurz wird das Grab Dich decken!

GIULIETTA.

Doch, wenn, mich zu erwecken,

Dem Trank die Kraft gebricht? –

O welch ein Bild voll Schrecken! –

Nimmer soll ich dann schauen,

Sonne, dein strahlend Licht! –

LORENZO.

Nimm doch – die Stunden fliehen,

Ich hör’ des Vaters Tritte.

GIULIETTA.

Mein Vater! – O gieb und rette mich! –

LORENZO.

Du bist gerettet, fasse Dich!

GIULIETTA.

Komm, laß uns geh’n!

Dritte Scene.

Capellio mit Gefolge. Die Vorigen.

CAPELLIO.

Verweile! –

Noch nicht im Schlummer? –

Der Ruhe kurz zu pflegen,

Gönn’ ich Dir noch die Zeit.

Geh’! dem Gemahl zu folgen,

Sey morgen dann bereit.

CHOR.

Kummer und düst’res Baugen

Hält ihren Geist umfangen.

O gönne doch der Armen

Ein Wort der Zärtlichkeit! –

GIULIETTA.

Ohne daß Du vergeben,

Kann ich von Dir nicht geh’n.

Bald schwindet dieses Leben –

Laß mich versöhnt Dich sch’n! –

Kann der so grausam strafen,

Der mir das Leben gab? –

Laß Deinen Zorn entschlafen –

Senk’ ihn mit mir in’s Grab! –

CAPELLIO.

Laß mich!

LORENZO.

(Sey ruhig! Folge mir!)

CAPELLIO.

Nach Deinen Zimmern gehe! –

CHOR.

Sie ist so nah dem Grabe –

O leg’ Dein Zürnen ab! –

Ab.

Vierte Scene.

Gegend in der Nähe von Capellio’s Pallast.

ROMEO allein.

Rings herrschet Stille! – Lorenzo erwartend

Will ich hier weilen. Saumsel’ger Freund! Auch er

Kann mich im Unglück vergessen.

Und ach, im Bund mit meinem Mißgeschicke

Läßt er mich hier allein mit meinen Qualen!

Fort von hier! Ich höre Tritte!

Grausam Verhängniß! –

Fünfte Scene.

Tebaldo. Romeo.

TEBALDO.

Wer bist Du, der Du’s wagest,

Im Kreise dieser Mauern umher zu schleichen?

Hörst Du mich nicht?

ROMEO.

Bleib ferne! Mein Erkennen

Brächte Dir nur Verderben! –

TEBALDO.

Wohl kenn’ ich Dich

An dem verweg’nen Ton, an dieser Wuth,

Die in mir glühet! –

ROMEO.

Wohlan, so sieh mich, und bebe!

TEBALDO.

Frevler! – Geb’ ich ein Zeichen,

Naht sich die Schaar der Meinen!

Doch nur von meinen Streichen

Ereilt Dich hier Dein Loos! –

ROMEO.

Komm, Feiger! ich verachte Dich,

Und Jene, die Dich umgeben.

Bald bärg’st Du gern Dein Leben

Tief in der Erde Schooß.

BEIDE.

Ein feindliches Geschicke

Umdüstert Deinen Sinn,

Und reißt mit schwarzer Tücke

Dich in’s Verderben hin! –

TEBALDO.

Zum Kampfe! –

ROMEO.

Zum Kampfe! –

TEBALDO.

Verweile! –

ROMEO.

Welche dumpfe Klagetöne! –

CHOR.

Ach, armes Mädchen! –

ROMEO.

Klänge

Der Trauer sind’s.

TEBALDO.

Wem gelten sie? –

Sechste Scene.

Ein Trauerzug erscheint. Vorige.

CHOR.

Friede sey Deiner Seele

Nach so viel bangen Leiden! –

Selige Himmelsfreuden

Winken dort oben Dir! –

ROMEO.

Giulietta!

TEBALDO.

Todt!

ROMEO.

Ha, Barbaren! –

ROMEO, TEBALDO.

Die Sinne schwinden mir! –

ROMEO.

Todt Giulietta! – Ha, Verworfener!

Nur durch Dich sank diese Rose! –

Weide jetzt an ihrem Loose

Dein verruchtes, schwarzes Herz! –

Auf! durchbohre diesen Busen –

Segnen will ich Dich im Scheiden! –

Hohes Glück in meinen Leiden

Kann der Tod mir nur verleih’n! –

TEBALDO.

Mehr als Du fühl’ ich den Jammer! –

Meine Lieb’ ist nun Verbrechen! –

Kannst du, o Himmel, so schwer dich rächen?

Mich durchglüht der Hölle Schmerz! –

Lebe, lebe, Unglücksel’ger! –

Keine Schuld darfst Du bereuen:

Von der Qual mich zu befreien,

Dies vermag der Tod allein! –

Vierter Akt.

Die Grabmäler der Capuleti.

Erste Scene.

Romeo mit seinen Gefährten.

CHOR.

Hier sind wir! – Möge Dein kühnes Wagen,

In diese Gruft zu dringen,

Dir nicht Verderben bringen,

An diesem Ort der Nacht! –

ROMEO.

Hier ist das Grabmal! Mit Blumen noch bestreut,

Ach noch von Thränen feucht! Nimm auch die meinen,

Die bitt’rer Schmerz und Zärtlichkeit ihr weinen.

CHOR.

O Herr, ermanne Dich!

ROMEO.

Ein and’res Opfer, mehr als Thränen,

Soll Dir in Kurzem werden.

CHOR.

Gebieter, o hemme der Seele Schmerz!

ROMEO.

Nächtliches Dunkel, das die Gruft umhüllt,

Weich’ einen Augenblick des Tages lichtem Glanz

Und zeige mir noch einmal deine Beute!

Oeffnet des Sarges Deckel, daß ich sie siehe!

Ha! Giulietta, meine Giulietta!

Du bist’s, – ich sehe Dich! Ja! ich habe Dich wieder!

Nein! nicht verblichen, nur leise schlummernd

Und harrend Deines Freundes, daß er Dich wecke.

Wach’, o erwache bei meinen Klagetönen!

Dich rufet Dein Romeo!

CHOR.

Er redet irre! Komm, folg’ uns, laß uns eilen!

Längeres Weilen bringet uns Gefahr.

ROMEO.

Nur einen Augenblick laßt mich noch hier.

Wohl giebt es manch Geheimniß, das der Kummer,

Ach, nur dem Grabe mag vertrauen.

CHOR.

Dich lassen? einsam? in solchem Schmerz?

Du zerreißest uns das Herz.

ROMEO.

Entfernt Euch! ich will es!

Chor ab.

Zweite Scene.

Romeo allein.

Giulietta, Du sollst allein, Theure,

Mich hören! Ach, eitles Hoffen! Verschlossen

Für meinen Jammer ist das Ohr der Geliebten.

Wie steh’ ich einsam, ach! wie verlassen auf Erden!

Verweile, reine Seele,

Daß ich an Deiner Seite

Dich selig froh geleite

Zu jenen lichten Höh’n. –

Du kannst nicht ohn’ Erbarmen

Mich einsam hier verlassen,

Und, fern von Dir, mich Armen

In meinem Jammer seh’n. –

Hervor, mein einz’ger Retter,

Du Trank des Todes, der ewig uns vereint!

O komm’ an meine Lippen! –

Und ihr empfangt von mir den letzten Athemzug,

Gräber, wo meine Feinde schlafen! –

Dritte Scene.

Giulietta erwacht. Romeo.

GIULIETTA.

Ah! –

ROMEO.

Welcher Seufzer!

GIULIETTA.

Romeo!

ROMEO.

Gott! ihre Stimme!

GIULIETTA.

Romeo!

ROMEO.

Sie spricht zu mir, sie ruft mich zu sich!

Himmel! was erblick’ ich?

GIULIETTA.

Romeo!

ROMEO.

Giulietta! o Gott!

GIULIETTA.

Bist Du’s?

ROMEO.

Du athmest?

GIULIETTA.

Ach, um nimmer Dich zu lassen,

Siehest Du mich hier erwachen;

Nur zum Schein lag ich im Tode.

ROMEO.

Ha! was sagst Du?

GIULIETTA.

Du weißt nicht? sah’st Du Lorenzo nicht?

ROMEO.

Nichts anders sah’ ich,

Nichts anders wußt’ ich,

Als Dich im Grabe,

Und ich eilte, ich Unglücksel’ger!

GIULIETTA.

Wohlan, Geliebter! Dein bin ich nun!

Und aller Schmerz entschwindet

In Deinen Armen! – Nun komm’!

ROMEO.

Hier muß ich weilen, ja, ewig, ewig, hier!

GIULIETTA.

Was muß ich hören? rede, rede! –

Ach Romeo! –

ROMEO.

Du weißt nun Alles!

GIULIETTA.

Unglücksel’ger! welch’ Beginnen!

ROMEO.

Dir zur Seite wollt’ ich erblassen!

GIULIETTA.

Helft! herbei! – Laß mich von hinnen!

ROMEO.

Bleibe, zu spät!

GIULIETTA.

Kann ich es fassen?

ROMEO.

Mir im Busen wühlt das Verderben.

GIULIETTA.

Laß mit Dir, mit Dir mich sterben!

Einen Dolch!

ROMEO.

O nein! vergebens!

GIULIETTA.

Dieses Fläschchen!

ROMEO.

Es ist geleeret! –

Leb’! o leb’, um meinen Leiden

Wehmuths-Thränen einst zu weih’n.

GIULIETTA.

Möge doch vor Deinem Scheiden

Mir der Tod beschieden seyn!

ROMEO.

Laß mich an’s Herz Dich drücken!

Nacht – wird’s – vor meinen Blicken.

GIULIETTA.

Vom Grab’ muß ich erstehen,

Ach, und Du sink’st hinein!

ROMEO.

Schweig! Deinen Schmerz zu sehen,

Ist mehr als Todespein.

Ha! welch ein Schleier, – o rede,

Ein einzig Wort von Dir!

Gedenke unsrer Liebe –

Giulietta – ich sterbe – leb’ wohl!

GIULIETTA.

Romeo! O verlaß mich nicht –

Scheide noch nicht von mir!

Hier soll Dein Ruhbett seyn –

Romeo! – Er stirbt! – O Gott!

Vincenzo Bellini – Beatrice von Tenda

Vincenzo Bellini
Beatrice von Tenda

Tragische Oper in zwei Akten

Personen

Filippo Maria Visconti, Herzog von Mailand

Beatrice von Tenda, seine Gemahlin

Agnese del Maino

Orombello, Herr von Ventimiglia

Anichino, ehemaliger Minister des Facino Cane

Rizzardo del Maino, Agnesens Bruder

Höflinge. Richter. Bewaffnete

Hofdamen. Wachen

Die Handlung spielt im Castell Binasco, im Jahre 1418.

Erster Akt.

Innere Halle im Schlosse Binasco.

Erste Scene.

Einige Höflinge. Filippo.

CHOR.

Wie, Gebieter! das Fest der Freude

Wolltet Ihr so schnell verlassen?

FILIPPO.

Laßt, o laßt mich! was dort ich sehe,

Muß ich fliehen, muß ich hassen!

CHOR.

Beatrice?

FILIPPO.

Ja! Wie drückend

Sind die Fesseln, die mich binden!

Meine Herrschaft beschränkt zu finden,

Lieb’ und Treue ihr zu lügen,

Ihren Launen mich zu fügen,

Wenn aus ihr der Argwohn spricht!

Dieser Qual muß ich erliegen –

Nein, ich trag’ es länger nicht!

CHOR.

Ja, die Last ist schwer zu tragen!

Doch des Zwanges könnt Ihr Euch entheben!

FILIPPO.

O wie gerne!

CHOR.

Wer könnt’ es wagen,

Euerm Wunsch zu widerstreben?

Nein nicht länger dürft Ihr schweigen,

Eilt, als Herrscher Euch zu zeigen!

Die Vasallen, die ihr dienen,

Könnten leicht sich sonst erkühnen,

Ihren Herzog zu verrathen,

Fielen treulos von Euch ab,

Pochend auf der Fürstin Staaten,

Die als Gattin sie Euch gab.

AGNESE.

Wahn ist’s, daß auf dem Throne

Des Lebens Glück Dir blühet.

Wenn uns die Liebe fliehet,

Kann uns kein Thron erfreu’n!

FILIPPO.

Agnese! Wie treffend!

CHOR.

In Eure Gefühle stimmt ihr Gesang mit ein.

AGNESE.

Was mag das Herz beglücken

Fern von der Lieb’ Entzücken?

Den Pfad mit Blumen schmücken

Kann Liebe nur allein!

FILIPPO.

Auf meinen Wegen

Sproßt keine Blume der Freude!

CHOR.

Eilt dem Glück entgegen!

Wagt nur die läst’gen Bande

Mit fester Hand zu trennen,

Dann werden alle Herzen

Liebend für Euch entbrennen.

Keine wird Euch verschmähen, –

Alle besieget Ihr.

FILIPPO.

Alle? (Du holde Agnese!

Ach, Du genügtest mir.

Was Du mir bist, o Theure,

Kann nur mein Herz Dir sagen!

Du stillst des Kummers Plagen,

Linderst der Sehnsucht Schmerz.

Könnt’ ich zum höchsten Throne

An meiner Hand Dich führen!

Doch keine Erdenkrone

Lohnte Dein edles Herz!)

CHOR.

Laßt die Hoffnung nicht entschwinden,

Von dem Zwang Euch zu erretten.

Schmachtend bald in schönern Ketten,

Lächelt Euch die Lieb’ auf’s Neu!

FILIPPO UND CHOR.

Nicht verzagt! Vielleicht im Stillen

Ist das Glück mit mir / Euch im Bunde

Nütz’ ich / Nützt Ihr nur die günst’ge Stunde,

Steht auch seine Gunst mir / Euch bei!

Alle ab.

Zweite Scene.

Agnesens Gemach.

OROMBELLO.

So bin ich denn am neidenswerthen Orte,

Der, theure Beatrice, Dich umfängt;

Dich, die dem Himmel mir zum Trost entstiegen;

Der hat gnädig Gott die Wunderkraft geschenkt,

Das Zürnen meines Schicksals zu besiegen.

O Heißgeliebte! wie viel Schmerzensthränen

Entladest meinem Auge Du allein;

Ja, Du wirst ewig meines Herzens Sehnen,

Die Seele meines ganzen Lebens sein.

Den Himmel seh’ ich sich vor mir erschließen,

Blickst Du mich an, und lächelst Du mir zu;

Laß mich als Edens Engel Dich begrüßen,

Der Schutzgeist meines Daseins bist ja Du.

Ha! als ich Dich zum Erstenmal gesehen,

Und wonn’entflammt in’s Antlitz Dir geschaut,

Da wagt’ ich still »O liebe mich« zu flehen,

Doch stumm blieb Deiner Lippen süßer Laut.

Allein in Deinem Auge konnt ich lesen,

Was schüchtern mir verschwieg Dein holder Mund;

Da schien es mir, Du angebetet Wesen,

Als lächle mir das ganze Weltenrund.

Dritte Scene.

Agnese, der Vorige.

AGNESE.

Saget, was soll dies Staunen?

Kommt doch näher!

OROMBELLO.

Verzeihung!

Von fern vernahm ich – die holden Töne –

Und das Verlangen, zu wissen,

Wessen Hand sie entströmten,

Ließ mich wagen – Verzeihung, Agnese!

AGNESE.

Wie, Ihr entfernt Euch? O bleibet!

Kommt näher!

OROMBELLO.

(O Gott!)

AGNESE.

Ich bitte!

Und nur der Neugier dank’ ich diese Freude,

Euch hier zu sehen?

OROMBELLO.

(Was sag’ ich ihr?)

AGNESE.

Und war es kein and’res Sehnen?

OROMBELLO.

Welch’ and’res Sehnen?

AGNESE.

Kann nicht in dieser Stunde,

Vertieft in Schwärmerei’n, ein fühlend Herz

noch wachen,

Und, unter Seufzern, der verschwieg’nen Laute

Ein theures Wort vertrauen, –

Den Namen Orombello?

OROMBELLO.

Wie? Meinen Namen? Unmöglich

AGNESE.

Weg mit Verstellung! Ihr müßt es wissen!

OROMBELLO.

(O Himmel!)

AGNESE.

Sah ich vielleicht am Hofe

Euch nie erscheinen? Drangen Eure Seufzer

Nie in mein Ohr?

OROMBELLO.

(Was muß ich hören!)

AGNESE.

Erst neulich verrieth mir Euer Auge,

Was Ihr empfindet. – Er liebet,

So sprach ich! Mehr als ein Andrer,

Ist er der Liebe würdig, –

Mehr als sein stolzer Nebenbuhler!

OROMBELLO.

Was sagt Ihr?

AGNESE.

Mag ihn Glanz und Hoheit auch umschweben!

OROMBELLO.

(Gott, was hör’ ich?)

AGNESE.

Eitler Schimmer!

Eine Seele, Euch treu ergeben, –

Sie entsagt dem Glanz auf immer!

Hand in Hand mit Euch zu gehen,

Wäre ihr das höchste Glück.

OROMBELLO.

(Alles darf ich ihr gestehen, –

Längst durchschaute mich ihr Blick.)

AGNESE.

Nun, was sagt Ihr?

OROMBELLO.

Agnese!

AGNESE.

Gelangte

Nicht ein Blatt in Eure Hände?

OROMBELLO.

Ja! – O laßt mich Euch vertrauen,

Ja, ich lieb’, und diese Liebe

Ist mein Hoffen, ist mein Glück!

AGNESE.

(Welch Geständniß, welch frohe Kunde

Tönet mir aus seinem Munde!)

OROMBELLO.

Beatrice, Du mein Alles!

AGNESE.

Himmel!

OROMBELLO.

Agnese!

AGNESE.

Ich bin verloren!

OROMBELLO.

Weh! was that ich?

AGNESE.

Für sie schlägt sein Herz!

Sie geliebet! ich verhöhnet,

Hintergangen! Unsel’ger Irrthum!

OROMBELLO.

Ach, Erbarmen! Ihre Ehre, ihr Leben

Sind in Eure Hand gegeben!

AGNESE.

Und mein Leben, meine Ehre

Kann nicht Deine Sorg’ erregen?

Laß den Sturm, den Du erwecket,

Erst in meiner Brust sich legen, –

Diesen Schimpf mach’ ungeschehen, –

Meiner Qual laß mich entgehen!

Dann vielleicht fühl’ ich Erbarmen –

Dann vielleicht kann ich verzeih’n!

OROMBELLO.

Nur Dein Herz hat Dich betrogen,

Darum magst Du mir vergeben

Gern, um Deine Qual zu lindern,

Gäb’ ich selbst mein Blut, mein Leben.

Ach, umsonst hab’ ich gerungen,

Von der Schönheit Reiz bezwungen, –

Drum verzeih’, o hab’ Erbarmen!

Liebe trägt die Schuld allein.

AGNESE.

Schweige, schweige!

OROMBELLO.

Ach nein!

AGNESE.

Entfliehe!

Blutig soll ihr Schicksal enden!

OROMBELLO.

Unglücksel’ge! – Ach, ihr Leben

Ruht allein in Deinen Händen.

AGNESE.

Diesen Schimpf mach’ ungeschehen, –

Meiner Qual laß mich entgehen!

Dann vielleicht fühl’ ich Erbarmen,

Dann vielleicht kann ich verzeih’n!

OROMBELLO.

Ach, umsonst hab’ ich gerungen,

Von der Schönheit Reiz bezwungen!

Drum verzeih’, o hab’ Crbarmen!

Liebe trägt die Schuld allein.

Beide ab.

Vierte Scene.

Ein Bosket im herzoglichen Garten.

Beatrice und ihre Frauen.

BEATRICE.

Frei athm’ ich hier! Im Schatten dieser Zweige,

Umweht von süßen Düften –

O wie erquickend scheint mir des Tages Strahl.

CHOR DER FRAUEN.

Sieh’, wie die Blüthen sich am Morgen

Mit neuem Glanz erheben!

So möge frei von Sorgen,

Neu sich Dein Herz beleben!

BEATRICE.

Ach, meine Lieben!

Neigt, vom Sturme gebrochen, ihr Kelch sich nieder,

Dann erhebt keine Sonne die Blume wieder.

Dies ist mein Schicksal! so welkt, vom Sturm

gebrochen,

Meine Blüthe dahin! – So nicht Filippo,

Wolltest Du mir vergelten, als ich Dich schützte,

Meine Liebe Dir schenkte, und meine Krone!

CHOR DER FRAUEN.

Wahrheit ist’s, was sie spricht!

BEATRICE.

Welch Loos, Du Undankbarer! ward mir zum Lohne?

Nicht allein hab’ ich dies Loos zu tragen,

Nicht allein vertraur’ ich so mein Leben!

O mein Land! ich höre Deine Klagen!

Wessen Hand hab’ ich Dich übergeben!

Solchem Jammer Dich zu weihen,

Traf mein Herz die rasche Wahl.

EHOR DER FRAUEN.

(Seht, sie weinet!)

BEATRICE.

(O meine Treuen!)

CHOR DER FRAUEN.

(Klagt und seufzet –!)

BEATRICE.

(O welche Qual!)

Auch die Meinen floh das Glück,

Dessen sie sich einst erfreut.

Und der Herrin Mißgeschick

Ward für sie zu bitterm Leid!

Doch uns schützt des Ew’gen Hand,

Mild sein Auge auf uns ruht!

Wenn die Hoffnung uns entschwand,

Bleibt, zu dulden, uns der Muth.

CHOR DER FRANEN.

(Nicht verlassen bleibt für immer

Wer die Tugend sich erkor.

Bald hebt sie mit neuem Schimmer

Aus dem Dunkel ihn empor.)

Ab.

Fünfte Scene.

Filippo und Rizzardo.

FILIPPO.

Wohin kann sie entfliehen,

Daß nicht mein Auge sie

Erreichet? Geh, sie einzuholen.

Rizzardo ab.

Mein Zorn erwacht auf’s Neue!

Und – daß sie mich verrathen,

Schmerzte mich so? wünschte ich es nicht schon lange?

Und die Beweise – sind sie mir nicht willkommen?

Sechste Scene.

Beatrice. Filippo.

BEATRICE.

Du hier, Filippo?

FILIPPO.

Wo anders

Bist Du zu finden, als an düstern Orten,

Um Dein geheimes Treiben

Scheu zu verbergen?

BEATRICE.

Ja! keine Zeugen

Will ich für meine Thränen!

Und Du, vor Allen Andern,

Sollst sie nicht schauen!

Denn schon seit langer Zeit sind sie Dir lästig.

FILIPPO.

Nicht lästig hätt’ ich sie gefunden,

Wenn Du die wahre Quelle

Mir nicht verschwiegen.

BEATRICE.

Du kennst sie lange!

Und tiefer muß es mich schmerzen,

Daß Du Dich stellst, sie nicht zu kennen!

FILIPPO.

Ich sollte sie nicht kennen!

So wisse! Dein heimlich Trachten,

Dein sträflich Sinnen, das Du zu bergen wähnest,

Les’ ich auf Deiner Stirn’, im Herzen, im Blicke!

BEATRICE.

Du? mein sträflich Sinnen? und welches?

FILIPPO.

Welches? – Unwürd’ge! Falschheit und Tücke!

BEATRICE.

Falschheit und Tücke! Undankbarer!

Dies kannst Du selbst nicht wähnen!

Kummer, getäuschtes Sehnen,

Magst Du im Aug’ mir lesen, –

Betrog’ner Hoffnung Thränen,

Gekränkter Liebe Schmerz.

FILIPPO.

Wohl kenn’ ich diese Liebe!

Du kannst sie nicht verhehlen!

Die kühne Brust beseelen

Der Herrschsucht stolze Triebe,

Und Schaam und Reue quälen

Dein schuldbelad’nes Herz.

BEATRICE.

Filippo!

FILIPPO.

Ja, Ungetreue!

Kein Schein soll mich mehr blenden!

BEATRICE.

Filippo!

FILIPPO.

Die sichern Proben

Hab’ ich in meinen Händen!

BEATRICE.

Filippo, halt’ ein!!

FILIPPO.

Zitt’re! Sieh! Dein Verbrechen ist hier!

BEATRICE.

Gott! – Wie, meine Siegel

Wagst Du zu verletzen?

FILIPPO.

Ich? Ja!

Klagen empörter Knechte, –

Straflos kannst Du sie hören, –

Zürnst nicht, wenn freche Knaben

Der Treue Eid Dir schwören.

Und wagst mich anzuklagen

Als Schöpfer Deiner Plagen?

In Schuld so tief gesunken,

Nein, nein, – glaubt’ ich Dich nicht!

BEATRICE.

Klagen bedrängter Völker

Enthalten diese Schreiben, –

Wenn ich sie hört’, Unseliger!

Würdest Du Herrscher bleiben?

Sage, sind dies die Gründe,

Daß ich so streng’ Dich finde?

Liebst Du mich nicht, so achte mich,

Raub’ mir die Ehre nicht!

Die Blätter, Filippo, o gieb sie mir wieder!

Vermeide die Schande.

FILIPPO.

Umsonst ist Dein Flehen.

BEATRICE.

Nein, keine Verräth’rin kannst Du in mir sehen.

FILIPPO.

Ja, Alles verklagt Dich, die Schande trifft Dich.

BEATRICE.

Filippo!

FILIPPO.

Hinweg!

BEATRICE.

Ich flehe in Thränen –

Gieb lieber den Tod mir.

FILIPPO.

Erwarte ihn! Fort!

BEATRICE.

Ha, Unmensch, Verleumder! Dein grausam Betragen

Ermuthigt mich wieder, – verstummet, ihr

Klagen!

Die Unschuld soll Stärke und Kraft mir verleih’n.

Die Welt sei mein Zeuge, sie möge entscheiden,

Sie mag mich vertheid’gen, mir Richterin sein.

FILIPPO.

Unwürd’ge, vertilge die Spur der Verbrechen,

Dann magst Du Dich brüsten, zu droh’n Dich

erfrechen!

Verweg’ne, dann kannst Du von Schmach Dich

befrei’n.

Die Welt soll es wissen, sie möge entscheiden,

Sie wird Dich verdammen, mir Rächerin sein!

Beide ab.

Siebente Scene.

Entlegener Theil im Schlosse Binasko.

Eine Abtheilung Bewaffneter.

ERSTER CHOR.

Nun, Ihr saht ihn?

ZWEITER CHOR.

Ja, Verwirrung

Malte sich in seinen Zügen.

ERSTER CHOR.

Und was sprach er?

ZWEITER CHOR.

Durch die Gänge

Eilt er ängstlich, still, verschwiegen!

ERSTER CHOR.

Wohin ging er?

ZWEITER CHOR.

Wie ohne Absicht,

Schlich er an den Wänden hin!

ERSTER CHOR.

Doch umsonst, – er mag sich hüten,

Seine Pläne verrathen ihn.

ALLE.

Gleiche List laßt uns gebrauchen, –

Nichts vermag uns zu entgehen,

Laßt uns lauschen, laßt uns spähen,

Doch vermeidet den Verdacht.

Nein, so dunkel ist kein Schleier,

Unser Blick wird ihn durchdringen, –

Leicht fällt er in unsre Schlingen,

Glaubt er sich nur unbewacht!

Sie gehen ab.

Achte Scene.

Beatrice allein, dann Orombello.

BEATRICE.

Hier will ich sie verbergen, des Schmerzes Thränen,

Des Kummers Klagen! Ach! könnt’ ich, o Facino,

Auch Dir sie bergen, Dir, den kaum verschieden,

Die Gattin so bald vergessen, der meinen Jammer,

Des Leichtsinns Strafe schaut, und seine Rache.

Hast Du mich einst geliebet, o so vergieb,

Du Edler! Einsam, verlassen und hülflos,

Ließ ich zu bald mich verblenden, –

Ach, allzuschwer büßt mein Herz für seine Schwäche!

Orombello tritt auf.

Alles fliehet vor mir!

OROMBELLO.

O nein! Ein Freund ist nahe!

BEATRICE.

Wen seh’ ich? Orombello!

Du hier? – und heimlich!

OROMBELLO.

Alle hör’ ich jammern über Dein Schicksal,

Ich werde handeln! Nicht länger darfst Du zaudern,

Laß Deine Zweifel schwinden,

Benütze Deine Macht! Alle Provinzen

Hab’ ich bereits durchzogen, und tausend Arme,

Dir treu ergeben, zu Deinem Schutz bewaffnet.

Komm und erhebe siegreich Facino’s Banner,

Räche als Fürstin des Volks gekränkte Rechte,

Und Deine eig’ne Schmach!

BEATRICE.

Sie ruft um Rache,

Und volle Rache soll ihr werden!

OROMBELLO.

O Wonne! – Sobald es dunkelt,

Flieh’n wir aus diesen Mauern,

Tortona’s Wälle nehmen schirmend

Uns auf! Harrend empfängt Dich

Der Getreuen tapfre Schaar. Gieb Dein Versprechen,

Durch keinen neuen Aufschub die That zu hindern.

BEATRICE.

Ach, welchen Rath willst Du mir geben?

OROMBELLO.

Noch kannst Du wanken?

BEATRICE.

Nein, nicht Du darfst mich beschützen, –

Selbst den Schein muß ich vermeiden.

OROMBELLO.

Welch ein Wort!

BEATRICE.

Der Argwohn lauschet, –

Meine Ehre darf nicht leiden!

OROMBELLO.

Deine Ehre?

BEATRICE.

Mein Vertrauen

Gilt dem Neid für Gunst der Liebe;

Deiner Ehrfurcht zarte Triebe

Für geheimer Neigung Gluth!

OROMBELLO.

Ja, ich weiß!

BEATRICE.

Du? und kannst es dulden?

OROMBELLO.

Allzuwahr ist das Gerücht!

BEATRICE.

Welche Sprache?

OROMBELLO.

O zürne nicht!

BEATRICE.

Ha, verstumme! Ach, weh mir!

OROMBELLO.

Seit mein Auge Dich gesehen,

Konnt’ ich nimmer widerstehen!

Täglich wuchsen diese Flammen,

Nährten sich an Deinem Schmerz.

Kannst Du dies Gefühl verdammen,

Dann erliegt mein wundes Herz!

BEATRICE.

Schweige! flieh’! Verweg’ner!

Wem, ach wem kann ich vertrau’n?

OROMBELLO.

O Verzeihung!

BEATRICE.

Fliehe!

Neunte Scene.

Vorige. Filippo. Rizzardo. Agnese mit Gefolge, Anichino; dann Ritter, Frauen und Soldaten.

AGNESE.

Siehst Du?

FILIPPO.

Ha, Verräther!

BEATRICE. OROMBELLO.

O Gott!

FILIPPO.

Ihr seyd ertappt

Wachen!

BEATRICE.

Halt’ ein!

FILIPPO.

O schweige!

Hoffe nicht, mich zu bethören!

Dein Verbrechen –

BEATRICE.

Mein Verbrechen

Lebet nur in Deinem Wahne,

Ach, ich kenne Dich!

FILIPPO.

Auch Dich erkennet

Nun die Welt zu meiner Schmach!

OROMBELLO.

(Sie ist verloren!)

BEATRICE.

O schwarze Seele!

FILIPPO.

Zeig’ Dich schuldlos!

CHOR.

(O Schreckenstag!)

BEATRICE.

Meine Ehre willst Du mir rauben!

Schuldig kannst Du mich nicht finden!

Nein, die Welt, sie wird nicht glauben,

Was Verleumdung aus Dir spricht! –

Daß ich ihn zu mir erhoben,

Bringt Verderben mir und Schande!

Er zerreißt die zarten Bande,

Mir zum Fluch ward der Verein!

FILIPPO.

Wehe mir, in solchen Händen

Ruhte einst mein Glück, mein Leben, –

Meine Ehre seh’ ich schänden!

Schimpf und Schmach bleibt mir allein!

OROMBELLO.

(Großer Gott, welch schrecklich Leiden

Hat mein Wagniß ihr bereitet!

Gern wollt’ ich vom Leben scheiden,

Könnt’ ich sie von Schmach befrei’n!)

AGNESE.

(Armes Herz! an seinen Qualen

Magst Du jubelnd Dich nun weiden!

Seinen Hohn will ich bezahlen!

Das Verderben harret sein.)

ANICHINO.

Mit Gefahr des eig’nen Lebens

Wollt ich von der Schmach sie retten.

Meine Sorge war vergebens,

Das Verderben brach herein!

CHOR.

Ach! zu ihrem Untergange

Hat sich alle Welt verschworen.

Großer Gott, sie ist verloren!

Allzugern glaubt er dem Schein.

FILIPPO.

Ihre Strafe zu erwarten,

Führt sie Beide in’s Gefängniß.

BEATRICE.

Und Du wagst es?

FILIPPO.

Es ist beschlossen!

BEATRICE.

O des Frevels!

OROMBELLO.

Herzòg, hört’ mich!

Nur Verleumdung darf es wagen,

Eines Fehls sie anzuklagen!

Sie ist schuldlos –

FILIPPO.

Nicht für ihr Verbrechen,

Für Dich selber magst Du sprechen.

Fort!

BEATRICE.

Filippo! geh nicht weiter!

Ach, zu spät wirst Du’s bereu’n.

FILIPPO.

Fort! Gehorcht!

DIE ANDERN.

Nichts kann sie retten,

Allzugern glaubt er dem Schein!

BEATRICE.

Steht hier Niemand mir zur Seite,

Einem Weibe Schutz zu geben?

Will für mich im offnen Streite

Keiner seinen Arm erheben?

Nun, so hör’ es, ew’ger Rächer!

Mein Vertrau’n setz’ ich auf Dich!

OROMBELLO.

Ach, ein Schwerdt nur laßt mir reichen

Rächend sei’s im Kampf erhoben!

Und ich will mit blut’gen Streichen

Ihre Unschuld Euch erproben!

Ach, vergebens ist mein Wüthen!

Und die Edle fällt durch mich!

FILIPPO.

Frevler, Euerm eitlen Grimme

Ueberlassen bleibt Ihr Beide, –

Fort, daß des Gerichtes Stimme

Ueber Euer Loos entscheide.

Eine Welt, des Spruches harrend,

Richtet ihren Blick auf mich!

AGNESE.

Also rächt des Weibes Seele

Sich an einem Undankbaren!

Welche Mittel ich erwähle,

Sollst Du zitternd bald erfahren!

Unglückselig sind wir Beide,

Aber Du noch mehr als ich!

ANICHINO UND CHOR.

Dieser Adel in den Zügen,

Diese Gluth in ihren Blicken, –

Strafet die Verleumdung Lügen,

Muß den Argwohn unterdrücken.

Ihre Unschuld Du enthülle,

Ew’ger Gott, wir bau’n auf Dich!

Zweiter Akt.

Gerichtsaal im Schlosse Binasko. Wachen an den Eingängen.

Erste Scene.

Filippo. Anichino und Soldaten.

Beatricens Damen und Höflinge.

FILIPPO.

Von nun soll unbeschränkt über ihr Schicksal

Das Gesetz nur entscheiden!

ANICHINO.

Und welch Gesetz wiche nicht Euerm Spruche?

Ach, ich beschwöre Euch, Herzog,

Bei Euerm Wohle! Bedenket doch die Folgen

Dieses Gerichts! Schon kam davon die Kunde

In die nahen Provinzen! Der Pöbel murret,

Und fühlet Mitleid!

FILIPPO.

Mich soll dies nicht schrecken!

Die Thore von Binasco bleiben geschlossen

Bis zum nächsten Morgen! Keinem sei der Eintritt

In’s Schloß gestattet! Wenn die bethörte Menge

In ihrem Abgott die Frevlerin erkennet,

Preis’t sie als Recht, was jetzt Gewalt ihr dünket.

ANICHINO.

Und wer vermag als Richter

Einen Ausspruch zu fällen,

Da, wo der Herzog die Klage führet?

FILIPPO.

Genug! Spare Deine Worte –

Zu weit führt Dich Dein Eifer!

Die Sitzung beginnt!

ANICHINO.

(O Himmel! ich bebe!)

Zweite Scene.

Vorige. Die Richter. Rizzardo. Filippo Damen und Ritter. Agnese.

ANICHINO.

(Ach! taub für meine Warnung

War Orombello! Meine Furcht hat sich bewährt!)

AGNESE.

(Der Rach’ ersehnte Stunde

Ist uun erschienen! Doch kann ich mich nicht

freuen!

Tief regt in banger Angst sich mein Gewissen!)

FILIPPO.

Wie, Richter, habt Ihr ernst’ren Grundes willen

Vor meinem Angesicht Euch noch versammelt;

Es gilt, zu richten heut so schwarze That,

Daß ich, der Herzog selbst, gezwungen ward,

Dem Spruch des Rechtes sie zu unterwerfen.

Wer auch die Schuld’ge sei, wer ihr Verkläger;

Laßt Eurem Spruch es keinen Eintrag thun;

Bedenkt nur Eins: daß ich ein Urtheil ford’re,

Wie es der höchsten Macht im Staat gebührt.

RICHTER.

Sei denn die Schuldige uns vorgeführt.

Dritte Scene.

Vorige. Beatrice von Wachen umgeben.

CHOR DER RIC HTER.

Die Klage schwerer Frevel lastet

Auf Euerm Haupte. Ihr mögt vor dem Gerichte

Von der Schuld Euch befrei’n!

BEATRICE.

Und wer gab Euch das Recht,

Ueber mich Gericht zu halten?

Wohin ich immer den Blick mag wenden,

Seh’ ich in diesem Kreise nur meine Vasallen

FILIPPO.

Und siehst Du nich

Den Herzog, den verrath’nen Gemahl?

BEATRICE.

Einen Verräther, der meine Huld und Milde

Mit Undank lohnet, meine Liebe mit Schande!

FILIPPO.

Du nennest Liebe – Verbindung

Mit den Feinden, – Empörung

Der Vasallen – und dann am Hofe

Die üppigen Gelage

Mit Zitherschlägern und frechen Harfenspielern?

Himmel! dies nennst Du Liebe?

BEATRICE.

Schweige! – o schweige!

Jede Beschuldigung vernehm’ ich unerschüttert,

Doch mein Herz empört die Klage

So niedern Frevels. O wag’ es nicht, Filippo!

So schwer mich zu beschimpfen,

Lascari’s Tochter, die Wittwe eines Helden!

CHOR DER RICHTER.

Dein Mitgefang’ner

Nennet Dich schuldig! Bringt Orombello!

BEATRICE.

O Himmel! verleih’ mir Kraft und Stärke!

CHOR DER RICHTER.

Hier ist er!

Vierte Scene.

Vorige. Orombello mit Wachen.

AGNESE.

(Weh mir! ach, wie elend

Ist der Arme durch meine Rache!)

OROMBELLO.

Zu welcher neuen Qual will man mich führen?

CHOR DER RICHTER.

Tritt näher! – Ihr gegenüber rede!

Bekräft’ge Dein Geständniß!

BEATRICE.

Orombello!

OROMBELLO.

Die Stimme, – sie ist es!

Und warum muß ich noch leben?

BEATRICE.

Unglücksel’ger! Dein falsch Bekenntniß –

Welchen Vortheil konnt’ es Dir geben?

Darfst Du hoffen, daß, wenn ich sterbe,

Sie vom Tode Dich befrei’n?

Du wirst sterben, als Verbrecher

Wird man Dich dem Tode weih’n!

OROMBELLO.

Schon’, o schone! – ach, wenn Du wüßtest –

Ja mir selber bin ich ein Gräuel!

Höllenqualen hab’ ich erduldet,

Die kein Mensch vermag zu fassen, –

Und die Kraft, sie zu ertragen,

Mußte endlich mich verlassen.

Nur der Schmerz hat mich bezwungen,

Das Geständniß mir entrungen.

Doch hier – hier in Deiner Nähe,

Wo den Tod ich vor mir sehe,

Werde laut vor allen Zeugen

Deine Unschuld offenbar.

BEATRICE.

Dank, o Gott!

AGNESE.

(Ha! mein Gewissen!)

ANICHINO.

(Hört, o Herzog!)

FILIPPO.

(Ich hör’ den Frechen!)

CHOR DER RICHTER.

Allzuweit bist Du gegangen!

Schweig’ und zitt’re!

OROMBELLO.

Nimmer soll der Tod mich schrecken,

Wenn die Edle mir verzeiht!

CHOR DER RICHTER.

Um die Wahrheit zu entdecken,

Steht die Folter noch bereit!

BEATRICE.

Volle Sühnung hast Du gegeben –

Deine Schuld ist abgetragen!

Makellos schließt sich mein Leben –

Und der Tod macht mich nicht zagen!

Möge huldvoll, wie ich vergeben,

Auch der Himmel Dir verzeih’n!

OROMBELLO.

Du wirst leben! nein! die Vorsicht

Duldet nicht ein solch Verbrechen.

Nur an mir, dem Lebensmüden,

Mag sich Haß und Bosheit rächen.

O wie gern, da Du vergeben,

Duld’ ich nun des Todes Pein!

FILIPPO UND CHOR DER RICHTER.

(Mächtig spricht in diesen Tönen

Eine Stimme mir zum Herzen!

Doch ich ließe mich versöhnen,

Rühren mich durch ihre Schmerzen?

Nein, hier walte nur die Strenge,

Fern soll uns das Mitleid sein!)

AGNESE UND CHOR DER FRAUEN.

(Das Geschick der Tiefgebeugten

Flößt mir Angst und Mitleid ein!)

FILIPPO.

Weil der Schuld’ge widerrufet,

Wollt Ihr darum nicht entscheiden?

ANICHINO.

Schenke Freiheit ihnen Beiden!

FILIPPO.

Freiheit?

AGNESE.

O Wonne!

CHOR DER RICHTER.

Nein, unmöglich!

Das Gesetz sei nicht umgangen!

Um Gewißheit zu erlangen,

Tritt auf’s Neu’ die Folter ein!

ANICHINO, AGNESE UND FRAUEN.

(Welch Entsetzen!)

BEATRICE.

(Ungeheuer!)

OROMBELLO.

Ha, wer wagt’s, sie zu verletzen?

Ew’ger Rächer, Deine Blitze

Schleud’re Du auf sie herab!

CHOR DER RICHTER.

Führet ihn zur Folter ab!

BEATRICE.

Haltet! Haltet! – Ach nur zwei Worte!

Keine Klage sollst Du hören!

Dies bedenke: Es lebt ein Rächer!

FILIPPO UND CHOR DER RICHTER.

Strafe ziemet dem Verbrecher!

Ja, sie soll vollzogen sein!

BEATRICE.

Komm’, o Freund, uns winket Beiden

Ew’ger Lohn nach kurzen Leiden.

Frommer Muth – er wird besiegen

Folterqual und Todespein!

OROMBELLO.

Ja, ich folge!

AGNESE.

Ich muß erliegen!

ANICHINO.

Keine Macht kann sie befrei’n!

FILIPPO UND CHOR DER RICHTER.

Kann die Reu’ Cuch nicht bewegen,

Das Geständniß abzulegen,

Nun so mag, es zu erzwingen,

Euch die Folter sich erneu’n!

AGNESE.

Könnt’ ich Rettung ihnen bringen!

ANICHINO UND CHOR DER FRAUEN.

Schützen kann sie Gott allein!

BEATRICE.

Ist die Tugend hier auf Erden

Roher Willkühr übergeben,

Dann entsag’ ich gern dem Leben,

Tod, Du sollst willkommen sein!

OROMBELLO UND BEATRICE.

Nein, mein Herz soll nicht erbeben,

Jenseits schwindet jede Pein!

Ab.

Fünfte Scene.

Filippo allein, dann Anichino, Damen und Höflinge.

FILIPPO.

Sie fühlt Gewissens bisse? Wenn ich sie nicht empfinde,

Wer dürft’ es? Und wer sie fühlt, mag sie verbergen!

Sie mir zeigen, heißt mich verdammen! Ruhig und

heiter

Will ich erscheinen. Bin ich’s vielleicht? Kann ich

es sein?

Nein! Von geheimen Grau’n bebt mir die Brust!

Ha! Gleich einem Nachtgespenst starrt es mich an!

Eine Grabesstimme – schaurig mir drohend,

Zittert durch die Lüfte! – Ist es Täuschung?

Traf nicht mein Ohr ein leises Jammern?

Sie ist es! sie selber, die von der Folter

Zum Kerker wanket! o halt’ ein, bange Klage!

Ha! wer nahet?

ANICHINO.

Mein Herzog! Beatrice bekannte nicht.

Doch die Versammlung verdammt sie zum Tode!

Nur noch Dein hoher Name

Fehlt hier auf diesem Blatte!

FILIPPO.

Sie bekannte nicht?

ANICHINO.

Die Unschuld beugt keine Marter.

CHOR.

In Deiner Hand, Gebieter,

Ruht das Geschick der Armen,

O zeige Huld, Erbarmen, –

Ach höre unser Fleh’n!

FILIPPO.

Nein! ich bin entschlossen,

Das verhängnißvolle Blatt, – ich will es unterschreiben!

Ha! unmöglich! Ich fühle mein Herz sich sträuben!

Als ein Flüchtling irrt’ ich im Lande,

Sie erhob mich zu Glanz und Ehre!

Und ich lohn’ ihr mit Schmach und Schande,

Ich bereite ihr – das Beil!

Flieh’n muß ich der Menschheit Blicke,

Die sich schaudernd von mir kehret.

Meine Ruhe ist zerstöret,

Und dahin mein ewig Heil!

Ja, sie lebe! – Welch’ ein Lärm!

Ha, wer nahet? Geht und sehet!

CHOR DER FRAUEN.

Welch’ ein Schrecken?

FILIPPO.

Sprecht!

CHOR.

O Herr!

Laßt die Thore schnell verwahren!

Denn die alten Kriegerbanden,

Die im Sold Facino’s standen,

Sammeln sich zu dichten Schaaren,

Um die Fürstin zu befrei’n!

FILIPPO.

Und schon hört’ ich des Mitleids Stimme,

War entschlossen, ihr zu verzeih’n?

Ja, das Urtheil sei vollzogen!

CHOR.

Gnade, Herr! hört unser Flehen!

FILIPPO.

Diese Kühnheit der wilden Menge

Stürzt die Schuld’ge in’s Verderben;

Ihr Verbrechen, nicht meine Strenge,

Führet sie zum Blutgerüst!

Tief in’s Grab mit ihr versinket

Jeder Kampf um Reich und Krone.

Ja, sie falle, – auf meinem Throne

Faßt der Raum uns Beide nicht!

CHOR.

Höret doch den Ruf der Gnade,

Der zu Euerm Herzen spricht.

Alle ab.

Sechste Scene.

Vorhof zu den Gefängnissen des Schlosses.

Frauen und Diener der Beatrice. Schildwachen.

CHOR DER FRAUEN UND DIENER.

Sie betet!

Nichts soll die arme Dulderin

In ihrer Andacht stören!

Nie stiegen rein’re Bitten

Auf zu des Himmels Sphären!

Nie blickte Gott hernieder

Auf ein so reines Herz,

Heilig durch frommen Glauben,

Und durch erlitt’nen Schmerz.

Mög’ in der letzten Stunde

Treu sich ihr Muth bewähren,

Daß selbst des Todes Qualen

Nicht ihr Vertrauen stören.

Und ihre hohe Tugend,

Die mit verruchten Händen

Die Bosheit wagt zu schänden,

Besiegle ein frommer Tod.

Siebte Scene.

Vorige. Beatrice.

BEATRICE.

Stumm war die Lippe!

Mit nie gekanntem Muthe stärkte mich

Der Himmel! und nichts bekannt’ ich!

O Wonne! Ich besiegte den Schmerz! –

Ich sterbe, Ihr Freunde!

Doch ruhmvoll sterb’ ich, und hell umstrahlet

Vom Glanze der Tugend. Nicht so jene Frevler!

Die mit der Bosheit Waffen die Unschuld verfolgen,

Ihr ruchloses Urtheil

Mag die Nachwelt bestrafen!

CHOR.

So sei’s! –

BEATRICE.

Mein Tod bring’ Filippo Schande,

Mein Blut, vom Beil vergossen,

Fall’ auf des Frevlers Haupt!

Wer es auch sei, der zu meinem Sturze

Sich mit ihm verbunden!

Achte Scene.

Vorige. Agnese.

AGNESE.

Ha!

ALLE.

Agnese!

AGNESE.

Halt’ ein! Laß Deine Zunge

Mich nicht verdammen! Im Stanb zu Deinen

Füßen

Laß mich vor Reue, vor Angst vergehen!

BEATRICE.

Agnese, Dich quälet Reue?

AGNESE.

Ja, ew’ge Reue! Durch mich gehst Du zum Tode –

Ich liebte Orombello!

BEATRICE.

Ha, was sagst Du?

AGNESE.

Ich wähnte, er sei Dir theuer!

Ich schlich in Deine Zimmer,

Stahl Deine Briefe, und kaufte Dein Verderben

Mit meiner Ehre.

BEATRICE.

Schändliche! –

Schweige, fliehe! meide meine Blicke

Daß in dieser Stunde,

Wo mein Leben sich endet,

Ein Fluch die Lippe nicht entweiht!

AGNESE.

Erbarmen!

OROMBELLO.

Ach, eine Engelsstimme

Dringet in diese Mauern.

Sie wehrt den Todesschauern,

Und – lehret mich verzeih’n!

AGNESE.

Hört, er verzeiht!

BEATRICE.

Laß uns in Frieden scheiden,

Da Dir sein Mund vergeben!

Mag Dir, versöhnt mit Beiden,

Die Ruhe sich erneu’n!

AGNESE.

Daß ich mein Dasein trage,

Hast Du mir Kraft gegeben!

Ich will mein ganzes Leben

Nur weinen und bereu’n!

ANICHINO UND CHOR.

O Gott, sieh die Thränen,

Du wollest ihr verzeih’n.

BEATRICE.

Was hör’ ich?

AGNESE.

Weh’ mir!

BEATRICE.

Ich sehe

Des Trauerzuges Nähe!

Letzte Scene.

Vorige. Rizzardo mit Hellebardieren und Gerichtspersonen.

ALLE.

Ach! die Hoffnung entschwand!

BEATRICE.

Laßt meinen Muth jetzt nicht erliegen!

Nur noch ein Tropfen, ihr Freunde!

Und endlich ist er ausgetrunken

Dieser Kelch bitt’rer Leiden! –

ALLE.

O nimm ihn, Allmächt’ger, o nimm ihn von

ihr! –

BEATRICE.

Ihn ganz zu leeren,

Hat Gott mir Kraft verliehen! –

Ich bin bereit!

AGNESE.

Weh mir, ich sterbe!

BEATRICE.

So lebt denn wohl!

Wenn man mir ein Grab vergönnet,

Laßt ein Blümchen ihm entblühen,

Betet dort auf Euern Knieen,

Für Filippo, nicht für mich! –

Dieser Armen mögt ihr verkünden,

Daß ich sterbend sie umarmet!

Laß, o Gott, sie Ruhe finden!

Ihrer Qual erbarme Dich! –

ANICHINO UND CHOR.

Unglücksel’ge! – Dies zu sehen

Hat das Schicksal uns erlesen!

Weh dem Land, wo solch ein Wesen

Durch das Henkerbeil erblich!

BEATRICE.

Nur für die, die hier verweilen,

Betet, Freunde, nicht für mich!

Kommt, ich folge!

CHOR.

Ach! Euern Segen!

Euern Segen, eh’ Ihr scheidet!

BEATRICE.

Seyd gesegnet! Ach, hemmt die Thränen!

CHOR.

Wer erwehrt der Thränen sich?

BEATRICE.

Nein, der Tod ist mir kein Leiden!

Einen Sieg hab’ ich errungen,

Gleich dem Sclaven, dem’s gelungen,

Seinen Banden zu entflieh’n.

Ohne Kummer, ohne Reue

Scheid’ ich von der Erde Freuden,

Bringe nur der Meinen Treue

Vor den Thron des Höchsten hin!

CHOR.

Möge dort zum Lohn der Leiden

Ew’ge Wonne Dir erblüh’n!

Vincenzo Bellini – Beatrice di Tenda

Vincenzo Bellini

Beatrice di Tenda

Tragedia lirica in due atti

Personaggi

Filippo Maria Visconti, Duca di Milano

Beatrice di Tenda, di lui moglie

Agnese del Maino

Orombello, signore di Ventimiglia

Anichino, antico ministro di Facino

Rizzardo del Maino, fratelio di Agnese

Cortigiani. Giudici. Uffiziali. Armigeri

Dame. Damigelle. Soldati

La Scena è nel Castello di Binasco. L’epoen è dell’ anno 1418.

Atto Primo.

Atrio interno nel castello di Binasco.

Scena I.

Alcuni cortigiani e Filippo.

CORO.

Tu, signor! lasciar sì presto

Così splendida assemblea?

FILIPPO.

M’ è importuna … io la detesto …

Per colei che n’ è la dea.

CORO.

Beatrice!

FILIPPO.

Si: di peso

Emmi il nodo a cui son preso.

Non regnar che per costei!

Simular gli affetti miei!

Un molesto amor soffrire,

Un geloso rampognar!

È tal noja, è tal martire

Ch’ io non basto a tollerar.

CORO.

Si: ben parli … è grave il giogo …

Ma spezzarlo non potrai?

FILIPPO.

Io lo bramo.

CORO.

E pieno sfogo

A tua brama a che non dai?

Sei Visconti … Duca sei,

Sei maggior, signor di lei …

Se più soffri, se più taci,

Non mai paghi, ognor più audaci

I vassalli in lei fidanti

Ponno un di mancar di fè.

Non lasciar che più si vanti

Degli stati che ti diè.

AGNESE.

Ah! non pensar che pieno

Sia nel poter diletto:

Senza un soave affetto

Pena anche in trono un cor.

FILIPPO.

O Agnese! è vero.

CORO.

Il suo canto seconda il tuo pensiero.

AGNESE.

Dove non ride amore

Giorno non v’ ha sereno:

Non ha la vita un siore,

Se non lo nutre amor.

FILIPPO.

Nè più sia lieta

D’ un sol siore la mia!

CORO.

Beatrice il vieta.

Ah! se tu sossi libero

Come gioir potresti!

Di quante belle ha Italia

Nobil desìo saresti:

Tutte a piacerti intese,

Tutte le avresi al piè.

FILIPPO.

Tutte! (O divina Agnese!

Tu basteresti a me.

Come t’ adoro, e quanto

Solo il mio cor può dirti:

Gioja mi sei nel pianto,

Pace nel mio suror.

Se della terra il trono

Dato mi sosse offrirti,

Ah! non varrebbe il dono,

Cara, del tuo bel cor.)

CORO.

Di spezzar gli, odiati nodi

Il pensier depor non dei:

Se d’ un’ altra amante sei,

L’ arti sue t’ insegni amor.

FILIPPO E CORO.

Forse già disposti i modi

Ne ha fortuna in suo segreto;

E non manca a far mi / ti lieto

Che sorprenderne il favor.

Partono.

Scena II.

Appartamento di Agnese.

OROMBELLO.

Questo è il beato luogo

Ove tu alberghi adorata Beatrice

Spirto sceso dai Cieli a consolarmi;

E l’ ira a placar del mio destin perverso

A tè concasse Iddio.

Ah! quante amare lagrime

Mio ben per te versai

Tù del mio core l’ anima

Nel viver mio sarai

Il ciel nel tuo sorrìso

Io veggo ognora in te

Angiol di Paradiso,

Un dio tu sei per me.

… … . Ti vidi,

O cara e in estasi d’ amor;

D’ amor che l’ alma invase

M’ami ti dissi, e tacito

Il labbro tuo rimase.

Ma il guardo lusinghiero

Mi savellò d’amor,

E l’universo intero

Mi parve un riso allor.

Scena III.

Agnese e detto.

AGNESE.

Onde così sorpreso?

Vi mostrate?

OROMBELLO.

Perdono. – Udìa … passando …

Soavi note … e me traea vaghezza ..

Di saper da che man venian destate.

Perdono, Agnese …

AGNESE.

Uscite voi? – Restate. –

Sedete.

OROMBELLO.

(O ciel!)

AGNESE.

Sedete. – E fia pur vero

Che curiosa brama

Sol vi spingesse?

OROMBELLO.

(Oh! incauto me!)

AGNESE.

Null’ altro

Desir fù il vostro?

OROMBELLO.

E qual, Contessa?

AGNESE.

E in queste

Ore sì tarde non può forse un core

Vegliar co’ suoi pensieri … e sospirando

Confidar al liuto un earo nome …

Il nome d’ Orombello?

OROMBELLO.

Il nome mio?

Chi mai?

AGNESE.

Che val tacerlo? Avvi.

OROMBELLO.

(Gran Dio!)

AGNESE.

Voi fra il ducal corteggio

Non veggo io forse? Sospirar non v’ odo?

Gemer sommesso? …

OROMBELLO.

(Oh! che mai sento?)

AGNESE.

Un giorno

Si riscontrar i nostri occhi intenti e fissi –

Egli ama, egli ama, io dissi …

Degno è d’amor, più che non sia mortale …

Più che l’ altero suo rival …

OROMBELLO.

Rivale!

AGNESE.

Si: rival … regnante.

OROMBELLO.

(Ciel! che ascolto!)

AGNESE.

Ma che giova?

Nulla è un regno ad alma amante:

Più che un trono in voi ritrova …

Ogni ben che in terra è dato

È per essa il vostro amor.

OROMBELLO.

(Tutto, ah! tutto è a lei svelato …

Simular che giava ancor?)

AGNESE.

Nè vi basta? …

OROMBELLO.

O Agnese!

AGNESE.

E un foglio

Un suo foglio non aveste?

OROMBELLO.

L’ ebbi … ah! sì … findar mi voglio …

Amo, è vero, e in questo amore

E riposto il ciel per me.

AGNESE.

(Al piacer resisti, o core.

Chi beato al par di te?)

OROMBELLO.

Oh! celeste Beatrice!

AGNESE.

Ella!

OROMBELLO.

Agnese! …

AGNESE.

Oh! me infelice!

OROMBELLO.

Ciel! che feci?

AGNESE.

Amata ell’ è!

Ella amata! ed io schernita! …

Io delusa! … ahi crudo areano!

OROMBELLO.

Ah! pietade … la sua vita,

La sua fama è in vestra mano!

AGNESE.

É la mia? … la mia … spietato!

Nulla è dunque agli occhi tuoi?

Ah! l’ incendio in me destato

Spegni in pria, se tu lo puoi …

Fa che un’ ombra, un sogno sia

La mia pena e l’ onta mia …

Ed allora … allor capaee

Di pietà per lei sarò.

OROMBELLO.

M’ odi, ah! m’ odi … ah! tu non sei

Nè oltraggiata, nè schernita.

Per calmarti io spenderei

Il mio sangue, la mia vita …

Ma perdona se costretto

Da potente immenso affetto

Tutto il prezzo del tuo cuore

Il mio cor sentir non può.

AGNESE.

Taci, taci.

OROMBELLO.

Ah! nò …

AGNESE.

T’ invola.

L’ ira mia di più s’accende.

OROMBELLO.

Ah! crudele, da te sola

La sua vita omai dipende.

AGNESE.

Fa che un ombra, un sogno sia

La mia pena e l’ onta mia,

Ed allora, allor capace

Di pietà per lei sarò.

OROMBELLO.

Ah! perdona se costretto

Da potente, ìmmenso affetto,

Tutto il prezzo del tuo core

Il mio cor sentir non può.

Partono.

Scena IV.

Boschetto nel Giordino Ducale.

Beatrice, Damigelle.

BEATRICE.

Respiro io qui … Fra queste ombrose piante,

All’ olezzar de’ siori, a me più dolce

Sembra il raggio del dì.

DAMIGELLE.

Come ogni cosa

Il suo sorriso allegra,

A voi dolente ed egra

Rechi conforto ancor!

BEATRICE.

Oh! mie sedeli!

Quando affeso il suo stelo il sior vien meno,

Più rav vivar nol puote il Sol sereno.

Quel sior son io: così languir m’ è forza,

Lentamente perir. – Ah! non è questa

La mercè ch’ io sperai d’ averti accolto,

E difeso, o Filippo, e al soglio alzato!

DAMIGELLE.

Misera! è ver.

BEATRICE.

Che non mi diè l’ingrato?

(Ma la sola, oimè! son io,

Che penar per lui si veda?

O mie genti! o suol natìo!

Di chi mai vi diedì in preda?

Ed io stessa, ed io potei

Soggettarvì a tal signor?)

DAMIGELLE.

(Ella piange.)

BEATRICE.

(Oh! regni miei!)

DAMIGELLE.

(Smania, freme …)

BEATRICE.

(Oh! mio rossor!

Ah! la pena in lor piombò

Dell’ amor che mi perdè;

I martir dovuti a me

Il destino a lor serbò.

Ma se in ciel sperar si può

Un sol raggio di pietà,

La costanza a noi darà,

Se la pace ne involò.

DAMIGELLE.

(Ah! per sempre non sarà

Vilipesa la virtù:

Più contenta e bella più

Dalle pene sorgerà.)

Partono.

Scena V.

Filippo e Rizzardo.

FILIPPO.

Ovo fuggir può tanto

Che non la segua il mio vegliante sguardo?

Va, la raggiungi.

Rizzardo parte.

Io fremo d’ira ed ardo.

L’ esser da lei tradito

Duolmi cosi! Non lo bramai sinora?

Non ne cercai, non ne sperai le prove?

Scena VI.

Beatrice e Filippo.

BEATRICE.

Tu quì, Filippo?

FILIPPO.

E altrove

Poss’ io trovarti, che in segreti luoghi,

Ove misteriosa ognor t’ aggiri?

BEATRICE.

Sì … testimoni non vo’ a’ miei sospiri.

E a te celarli io tento,

Più che ad altrui. Troppo ti son molesti

Già da gran tempo.

FILIPPO.

Nè molesti mai

Stati sarian, se la cagion verace

Detta ne avessi.

BEATRICE.

Oh! ben ti è nota … e grave

Più me la rende il simular che fai

Tù d’ ignorarla.

FILIPPO.

E ch’ io la ignori speri?

Non sai che i tuoi pensieri,

E i più segreti, e i più gelosi e rei

Io ti leggo negli occhi, in fronte, in core?

BEATRICE.

Io rei pensieri! … e quali?

FILIPPO.

Odio e livore.

BEATRICE.

Odio e livore! – ingrato!

Nè il pensi tu, nè il credi.

Duolo d’ un cor piagato,

Pianto d’ amor vi vedi,

Speme delusa, e smania

Di gelosia crudel.

FILIPPO.

Smania gelosa, è vero,

Negli occhi tuoi si stampa …

Ma gelosia d’ impero,

Ma d’altro amore è vampa,

Ma l’ ira insieme e l’ onta

D’ un’ anima infedel.

BEATRICE.

Filippo!

FILIPPO.

Sì: spergiura!

Più simular non giova.

BEATRICE.

Filippo!!

FILIPPO.

Ho in man sicura

Del tuo sallir la prova.

Trema.

BEATRICE.

Filippo!!! Basti.

FILIPPO.

La tua persidia è quì.

BEATRICE.

Ciel! … violare osasti …

Tu i miei segreti?

FILIPPO.

Io … sì.

Quì di ribelli sudditi

Soffri le mire audaci:

D’ un temarario giovane

Quì dell’ ardor ti piaci …

E a me delitti apponi?

E a me d’ amor ragioni?

Ah! non ti avrei sì perlido

Giammai creduto il cor.

BEATRICE.

Questi d’ amanti popoli

Voti e lamenti sono.

S’ io gli ascoltassi, o barbaro,

Meco sarcsti in trono?

Ah! non voler fra questi

Vili cercar pretesti.

Se amar non puoi, rispettami …

Mi lascia almen l’ onor.

Quei fogli, o Filippo – quei fogli mi rendi.

Infami il tuo nome.

FILIPPO.

E tanto pretendi?

BEATRICE.

Non farti quest’onta: io sono innocente …

FILIPPO.

No, tutto t’ accusa: tua l’ onta sarà.

BEATRICE.

Filippo!

FILIPPO.

Ti scocta.

BEATRICE.

Tel chiedo piangente …

La morte piuttosto …

FILIPPO.

Attendila … va.

BEATRICE.

Spietato! codardo! eccesso cotanto

Mi rende a me stessa, paventa

Il grido d’ un core che macchia non ha.

Il mondo che invoco, che io chiamo in difesa,

Il mondo d’ entrambi giustizia farà.

FILIPPO.

Del fallo cancella, distruggi la traccia …

Annientala, indegna! poi fremi e minaccia …

Poi spera che illesa tua fama sarà.

Il mondo che invochi, che chiami in defesa,

Il mondo d’ entrambi vendetta farà!

Partono.

Scena VII.

Parte remota nel castello di Binasco.

Un drappello d’ Armigeri.

CORO 1.

Lo vedeste?

CORO 2.

Sì: fremente

Ei ci parve, e insiem confuso.

CORO 1.

Nulla ei disse?

CORO 2.

Nò: tacente

Ei si tenne, e in sè rinchiuso.

CORO 1.

Or dov’ è?

CORO 2.

Qua e là s’ aggira,

Qual chi scopo alcun non ha.

CORO 1.

Finge invan: l’ amore o l’ ira

A tradirsi il porterà.

TUTTI.

Arte egual si ponga in opra;

Nulla ssugga agli occhi nostri,

Ma spiarlo alcun non mostri,

Nè seguirlo ovunque va.

Vel non sia, per quanto il copra,

Che da noi non sia squarciato,

S’ ei si stima inosservato,

S’ ei si crede in securtà.

Si allontanano.

Scena VIII.

Beatrice sola, indi Orombello.

BEATRICE.

Il mio dolore, e l’ ira … inutil ira …

S’ asconda a tutti. – Oh! potess’ io celarla

A te, Facino! … a te obbliato, o prode,

Appena estinto, a te, che forse or miri

Siccome tua vendetta ogni mio scorno. –

Deh! se mi amasti un giorno,

Non m’accusare, o prode. Sola, deserta, inerme

Io mi lasciai sedurre … e caro assai

Della mia debolezza io pago il sio.

Mi abbandona ciascun.

OROMBELLO.

Ciastun, non io.

BEATRICE.

Chi vedo? tu Orombello!

Tu qui surtivo?

OROMBELLO.

Della tua sventura

Favellan tutti – Opro sol io – Le lunghe

Dubbiezze tue vincer tu devi alsine,

Usar del tuo poter. Io tutte ho corse

Le terre a te soggette, e mille in tutte

Fedeli braccia a tua difesa armai.

Vieni – Si spieghi omai

Di Facino il vessillo; e di tue genti

Vendica i dritti offesi e i propri insulti.

BEATRICE.

Son essi al colmo, e non saranno inulti.

OROMBELLO.

Oh! gioja! Appena annotti,

Fuggirem queste mura e di Tortona

Ci accorranno i ripari .. Ivi raggiunta

Da più prodi sarai … Solo prometti,

Che non porrai più inciampo al mio disegno,

BEATRICE.

Oh! che mai mi consigli?

OROMBELLO.

E indigi ancora?

BEATRICE.

A ciascun sidar vorrei,

Fuor che a te la mia difesa.

OROMBELLO.

Che dì tu?

BEATRICE.

Sospetto sei …

La mia fama io voglio illcsa.

OROMBELLO.

La tua fama!

BEATRICE.

Si – Ia fede

Che in te pongo … amor si crede;

La pietà che tu nudrisci …

Tua pietà … creduta è amor.

OROMBELLO.

Io … lo so.

BEATRICE.

Nè inorridici?

OROMBELLO.

Ah! non legger nel mio cor.

BEATRICE.

Qual favella!

OROMBELLO.

Ah’ tu v’ hai letto.

BEATRICE.

Io! t’ acqueta … intesi … intesi …

OROMBELLO.

Sì: d’ immenso, estremo affetto

Da primi anni in te m’ accessi …

Coll’ età si fè maggiore …

Si nutrì del tuo dolore …

Mi sforzai celarlo invano …

O perdono morte avrò.

BEATRICE.

Taci … parti … audace! insano!

Oh! in qual cor più siderò?

OROMBELLO.

Deh! perdona.

BEATRICE.

Sorgi.

Scena IX.

Filippo, Rizzardo, Agnese con seguito, Anichino, indi Cavalieri, Dame e soldati.

AGNESE.

Vedi?

FILIPPO.

Traditori!

BEATRICE. OROMBELLO.

Oh! ciel!

FILIPPO.

Guardie!

BEATRICE.

Arresta.

FILIPPO.

E credi …

Poter sì che ancor t’ ascolti?

La tua colpa …

BEATRICE.

Non seguire.

Ella esiste in tuo desire.

Ti conosco.

FILIPPO.

E a mia vergogna

Conosciuta or sei tu quì.

OROMBELLO.

(L’ ho perduta!)

BEATRICE.

O vil rampogna!

FILIPPO.

Puoi scolparti?

CORO.

(Oh! infausto dì)

BEATRICE.

Al tuo core, al reo tuo core

Lascio, indegno, il discolparmi;

Cerchi invano, o traditore,

D’ avvilirmi, d’ infamarmi.

Ah! tal onta io meritai

Quando a me quest’ empio alzai.

Dell’ amor che mi ha perduta

Sol tal frutto a me restò.

FILIPPO.

A ben tristo e amaro prezzo

Di tal donna ebb’ io l’ amore:

Se il disprezzo è in me maggiore

O lo sdegno io dir non sò.

OROMBELLO.

(Sconsigliato! in qual la trassi

Di miseria abisso orrendo!

Giusto ciel, n eppur morendo

L’ error mio scontar potrò.)

AGNESE.

(Godi, esulta, o cor sprezzato,

Del dolor di questo ingrato:

Vide il tuo, lo vide estremo,

Nè pietà per te provò.)

ANICHINO.

Ciel, tu sai com’ io volea

Prevenir sì ria sventura!

Ah! fù vana ogni mia cura

Il destino l’ affrettò.)

CORL.

(Tutto, ah! tutto a farla rea

Qui congiura a un tempo istesso:

Giusto ciel, d’ innanzi ad esso

Come mai scolpar si può?)

FILIPPO.

Al castigo lor dovuto

Ambo in ferri custodite.

BEATRICE.

E tu l’ osi?

FILIPPO.

Ho risoluto.

BEATRICE.

L’ empio l’ osa!!

OROMBELLO.

Duca, udito…

Innocente è la duchessa…

Insuìtata a torto è d’ essa…

Caluuniata…

FILIPPO.

Te, non lei,

Traditore difender dei.

Va …

BEATRICE.

Filippo! è troppo eccesso…

Pensa ancor: ti puoi pentir.

FILIPPO.

Ubbidite.

CORO.

Ah! certo è desso,

Certo appien del suo fallir.

BEATRICE.

Nè fra voi, fra voi si trova

Chi si levi in mia difesa?

Uom non avvi che si mova

A favor di donna offesa?

A te, vindice supremo,

lo mi volgo e fido in te.

OROMBELLO.

Deh! un momento un sol momento

Un acciaro a me porgete,

Se è colpevole, s’ io mento,

Alme perfide, vedrete.

Oh! furor! inerme io fremo…

Ah! più fè, più onor non v’ è.

FILIPPO.

Ite, iniqui! all’ impossente

Ira vostra io v’ abbandono:

Ogni core è qui fremente,

Sa ciascun che offeso io sono:

Pena estrema a fallo estremo

Terra e ciel domanda a me.

AGNESE.

(Questo, ingrato, il primo è questo

Colpo in te di mia vendetta:

Altro in breve, e più funesto

Più terribile ne aspetta.

Ambo miseri saremo;

Sì … ma tu … più assai di me.)

ANICHINO E CORO.

Ah! quel nobile suo sdegno,

Quel rossor di cui s’ accende,

D’ innocenza è certo pegno,

D’ ogni accusa la difende..

A te, giudice supremo,

Noto è solo il reo qual è.

Atto Secondoo.

Sala nel eastello di Binasco preparata per tener tribunale, Guardie alle porte.

Scena I.

Filippo, Anichino, soldati. Damigelle di Beatrice e Cortigiani.

FILIPPO.

Omai del suo destino arbitra solo

Esser deve la legge.

ANICHINO.

E qual v’ ha legge

Che a voi non ceda? – Oh! vene prego, o Duca,

Per l’ util vostro. A voi funesto io temo

Questo giudizio: già ne corse il grido

Per le vicine terre, e il popol freme,

E lei compiange.

FILIPPO.

Nè Filippo il temo

Fino al novello dì sian di Binasco

Chiuse le porte nè venir vi possa,

Nè uscirne alcuno. – Allor che il popol ved.

Quest’ idol suo di tanto error convinto,

Dirà giustizia quel che forza or dice.

ANICHINO.

E chi di Beatrice

Retto giudice fia dove l’ accusa

Filippo intenti?

FILIPPO.

Or besta…

Omai pon modo al tuo soverchio zelo.

Il consiglio s’ aduna.

ANICHINO.

(Oh! instante! io gelo.)

Scena II.

Escono i Giudici, Rizzardo, Filippo, Dame e Cavalieri, Agnese, e detti.

ANICHINO.

(O troppo a mie preghiere

Sordo Orombello! Fu presago

Il mio timor.)

AGNESE.

(Di mia vendetta è giunta

L’ ora bramata … eppur non sono io lieta.

Qual mi sgomenta il cor voce segreta!)

FILIPPO.

Giudici! Al mio cospetto

Non v’ adunaste mai

Per più grave cagion.

Portar sentenza

Dovete voi

Di cosi nero eccesso

Che a denunziarlo

Fui costretto io stesso.

Pure al giudizio vostro

Forza non faccia alcuna

L’ accusator nè l’ accusata.

E in mente abbiate sol

Che a voi sentenza io chiedo

Cui proferir potea

Sovrana autorità.

GIUDICI.

Venga la rea.

Scena III.

Beatrice fra le guardie, e detti.

GIUDICI.

Di grave accusa il peso

Pende sul capo vostro – A noi d’ innanzi

Vi possiate scolpar!

BEATRICE.

E chi vi diede

Di giudicarmi il dritto? Ovunque io volga

Gli occhi sorpresì, altro non veggio intorno

Che miei vassalli.

FILIPPO.

E il tuo sovran non vedi?

Il tradito tuo sposo?

BEATRICE.

Io veggo un empio

Che i beneficii miei paga d’ infamia,

L’ amor mio di vergogna.

FILIPPO.

Amor tu dici

Tramar co’ miei nemici,

Ribellarmi i vassalli e far mia corto

Campo di tresche oscene

Con citaredi, quanto abbietti, audaci,

Chiami Filippo amar?

BEATRICE.

Taci, deh! taci.

Ferma udir posso ogni altra.

Accusa tua … ma il cor si scote e freme

A sì vil taccia. Oh! non voler, Filippo,

De’ Lascari la figlia, e d’ un eroe

La vedova infamar.

GIUDICI.

Il reo t’ accusa

Complice tuo. – Venga Orombello.

BEATRICE.

(Oh cielo!

La mia virtù sostieni.)

GIUDICI.

Eccolo.

Scena IV.

Orombello fra le guardie, e detti.

AGNESE.

(Oh! come)

Lo ridusse infelice il furor mio!

OROMBELLO.

A quai nuovi martiri tratto son io!

GIUDICI.

Ti rinfranca: a noi t’ appressa.

Parla: e il ver conferma a lei.

BEATRICE.

Orombello!

OROMBELLO.

(Oh! voce! è dessa…

E morire io non potei!)

BEATRICE.

Orombello! – Oh! sciagurato!

Dal mentir che hai tu sperato?

Viver forse? ah! dove ìo moro

Vita speri da costoro?

Tu morrai, con me morrai

Ma qual reo, qual traditor.

OROMBELLO.

Cessa, cessa – Ah! tu non sai…

Di me stesso io son l’ orror.

Io soffrii … soffrii tortura

Cui pensiero non comprende…

Non potè la fral natura

Sopportar le pene orrende…

La mia mente vaneggiava…

Il dolor, non io, parlava…

Ma quì, teco, al mondo in faccia,

Or che morte ne minaccia,

Innocente io ti proclamo,

Grido perfidi costor.

BEATRICE.

Grazie, o cielo!

AGNESE.

(Oh! mio rimorso!)

ANICHINO.

(L’ odi o Duca?)

FILIPPO.

(L’ odo e fremo)

GIUDICI.

Troppo omai tu sei trascorso:

Bada e trema.

OROMBELLO.

Io più non tremo.

Sol ch’ io mora perdonato

Da quest’ angelo d’ amor!

FILIPPO E GIUDICI.

V’ han supplizii, o forsennato,

A strapparti il vero ancor.

BEATRICE.

Al tuo fallo ammenda festi

Generosa, inaspettata.

Il coraggio mi rendesti,

Moro pura ed onorata…

Ti perdoni il ciel clemente,

Col mio labbro, col mio cor.

OROMBELLO.

Non morrai: nè ciel, nè terra

Soffrirà sì nero eccesso.

A me stanco in tanta guerra,

A me sia morir concesso.

Mi offrirò col tuo perdono

Lieto innanzi al mio signor.

FILIPPO E GIUDICI.

(In quegli atti, in quegli accenti

V’ ha poter ch’ io dir non posso,

Cederesti ai lor lamenti,

Ne saresti o cor commosso?

Nò: sottentri a vil pietade

Inflessible rigor.)

AGNESE E DAMIGELLE.

(Ah! sul cor, sul cor mi cade

Quel compianto e quel dolor.

FILIPPO.

Poi che il reo smenti sè stesso,

Fia sosposa la sentenza?

ANICHINO.

Sciorgli entrambi è mio pensiero:

Fia giustizia la clemenza.

FILIPPO.

Sciorgli?

AGNESE.

Oh! gioja!

GIUDICI.

No: non puoi,

Vuol la legge i dritti suoi.

Nuovo esame infra i tormenti

Denno in pria subìr costor.

AGNESE. ANICHINO E DAMIGELLE.

(Ella pure!)

BEATRICE.

(O iniqui!)

OROMBELLO.

Oh! mostri!

Chi porrà su lei le mani?

Tuoni pria sui capi vostri,

Tuoni il cielo …

GIUDICI.

Si allontani.

BEATRICE.

Deh! un istanie… Un solo accento.

Non temer di udir lamento …

Sol t’ avverto … Il ciel ti vede …

O Filippo! hai tempo ancor.

FILIPPO.

Va: pei rei non v’ è mercede …

Ti abbandono al suo rigor.

BEATRICE.

Vieni, amico … insiem soffriamo:

A soffrir per poco abbiamo.

Il destin per breve pena

Ci riserba eterno onor.

OROMBELLO.

Teco io sono.

AGNESE.

(Io reggo appena.)

ANICHINO.

(Oh! pietâ! si spezza il cor.)

FILIPPO E CORO.

Ite entrambi, e poi che il vero

Il rimorso non vi detta,

Il supplizio che vi aspetta

Vi costringa, e strappi il vel.

AGNESE.

(Chi mi cela al mondo intero?)

ANICHINO E DAMIGELLE.

O misfatto! ho in core un gel!)

BEATRICE.

Ah! se in terra frà tiranni

È virtude abbandonata,

D’ una vita sventurata

È la morte men crudel.

OROMBELLO E BEATRICE.

Di costanza armiamo il core:

Qui supplizi, onore in ciel.

Partono.

Scena V.

Filippo solo, indi Anichino, Dame, Cortigiani.

FILIPPO.

Rimorso in lei? … Dove io non ho rimorso

Altri lo avrà? – Dove alcun l’ abbia, il celi:

Il mostrarlo è accusarmi. Esser tranquillo,

Sereno io voglìo – E il sono io forse, e il posso!

No, da terror percosso.

Mi sento io pur, qual se vicino avessi

Terribil larva, qual se udissi intorno

Una minaccia rimbombar sul vento –

M’ inganno?… o mi colpì flebil lamento!

No, non m’ ingenno … è dessa,

Che dai tormenti

Al carcer passa

Ch’ io non n’ oda la voce

Oh! chi s’ appressa!

ANICHINO.

Filippo, la duchessa

Non confessò… pur la condanna

Tutto il consiglio, e il nome tuo sol manca

Alla morta! sentenza.

FILIPPO.

Non confessò!!

ANICHINO.

Constante è l’ innocenza.

CORO.

È in vostra man, signore,

Dell’ infelice il fato:

Ceda il rigor placato

Al grido di pietà.

FILIPPO.

Nò… si resista…

Il decreto fatal si segni alfine…

Ah! non poss’ io: mi si solleva il crine.

Qui mi accolse oppresso, errante,

Qui diè fine a mie sventure…

Io preparo a lei la scure!

Per amor supplizio io dò!

Ah! mai più d’ uman sembiante

Sostener potrò l’ aspetto:

Sulta terra maledetto,

Condannato in ciel sarò

Ella viva! – Qual fragore!

Chi si appressa? – Ite – vedete.

DAMIGELLE.

Crudo inciampo!

FILIPPO.

Ebben?

CORO.

Signore,

Alle mura provvedete.

Di Facian le bande antiche

Si palesano nemiche,

Osan chieder laduchessa.

E Binasco minacciar.

FILIPPO.

Ed io, vil, gemea ger essa!

M’ accingeva a perdonar!

Si eseguisca la sentenza.

CORO.

Ah! Signor pietà, clemenza.

FILIPPO.

Non son io che la condanno:

È la sua, l’ altrui baldanza.

Empia lei, non me tiranno

Alla terra io mostrerò.

(Cada alfine, e tronco il volo

Sia così di sua fidanza.

Un sol trono, un regno solo

Vivi entrambi unir non può.)

CORO.

(Ah! per lei non v’ ha speranza.

Il destin l’ abbandonò.)

Partono.

Scena VI.

Vestibolo terreno che mette alle prigione del castello.

Damigelle, e femiliari di Beatrice.

CORO.

Prega. – Ah! non sia la misera

Nel suo pregar turbata.

Mai non salì di martire

Prece al Signor più grata:

Nè mai più puro spirito

Ei contempiò dal cielo,

Santo d’ amor, di zelo,

Santo del suo soffrir.

Oh! la constanza impavida

Onde sfidò i tormenti,

Data le sia negli ultimi

Terribili momenti!

E la virtù che tentano

Macchiare i suoi tiranni,

Provin gli estremi affanni,

Suggelli un pio morir!

Scena VII.

Beatrice, e detti.

BEATRICE.

Nulla diss’ io… Di sovrumana forza.

Mi armava il cielo … Io nulla dissi, oh! gioja!

Trionfai del dolor. – Perchè piangete!

Nè con me v’ ailegrate? Io moro, o amici!

Ma gloriosa, ma di mia virtude

Nel manto avvolta. Non così gl’iniqui,

Che calpestata e afflitta han l’nnocenza!…

Dell’ iniqua sentenza

L’universo gli accusi.

CORO.

Ah! sì.

BEATRICE.

Mia morte

Filippo infami, e il sangue mio versato

Piombi sul tradìtor, qualunque ei sìa,

Che dell’ misfatto complice si rese.

Dio il punisca… colla vita.

Scena VIII.

Agnese, e detti.

AGNESE.

Ah!

TUTTI.

Agnese!

AGNESE.

Pietà… la mia condanna

Mon proferir… a piedi tuoi mi lascia

Morir d’ angoscia e di rimorso.

BEATRICE.

Oh! Agnese!

Rimorso in te!

AGNESE.

Rimorso etenno. A morte

Ti spingo io sola… Io d’Orombello ardeà.

BEATRICE.

Oh! che dì tu?

AGNESE.

Credea

Tè mia rivale… e violai tuo stanze,

Furai tuoi scritti… e il sangue tuo comprai

Coll’ onor mio…

BEATRICE.

Perfida!… cessa… fuggi

Ch’ io non ti vegga… ch’ io non sia costretta

In quest’ ora funesta

Col cor morente a maledir…

AGNESE.

Oh! arresta…

OROMBELLO.

Angiol di pace all’ anima

La voce tua mi suona.

Segui, e pietoso, inspirami

Virtù di perdonar.

AGNESE.

Egli… perdona!…

BEATRICE.

Con quel perdouo, o misera,

Ricevi il mio perdono.

Salga con queste lagrime

A un Dio di pace e amor.

AGNESE.

Ah! la virtù di vivere

Da te ricevo in dono …

Vivrò, vivrò per piangere

Finchè sl spezzi il cor.

ANICHINO E CORO.

Salga quel pianto al trono

D’ un Dio di pace e amor.

BEATRICE.

Chi giunge?

AGNESE.

Oimè!

BEATRICE.

Lo veggìn …

Il funebre corteggio …

Scena ultima.

Rizzardo con’ Alabardieri e Uffiziali, e detti.

CORO.

E più speme non v’ è!

BEATRICE.

La mia costanza

Non mi togliete. Anche una stilla, e poi

Fia vuotato del tutto e inaridito

Questo calice amare.

TUTTI.

E Iddio ritrarlo

Dal tuo labbro non può!

BEATRICE.

Mi diè coraggio

Per consumarlo Iddio.

Eccomi pronta …

AGNESE.

Io più non reggo.

BEATRICE.

Addio.

Deh! se un urna è a me concessa

Senza un fior non la lasciate,

E sovr’ essa il ciel pregate

Per Filippo, e non per me.

Rammentate a questa oppressa

Che morendo io l’ abbracciai:

Che all’ Eterno il core alzai

A implorar per lei mercè.

ANICHINO E CORO.

Oh! infelice! Oh a qual serbate

Fur le genti orrendo esempio!

Tristo il suolo in cui lo scempio

Di tal donna, o Dio, si fe’!

BEATRICE.

Per chi resta il ciel pregate,

Per chi resta, e non per me.

Io vi seguo.

CORI.

Deh! un amplesso…

Un amplesso concedete..

BEATRICE.

Io vi abbraccio … non piangete.

CORI.

Chi non piange non ha cor.

BEATRICE.

Ah! la morte a cui m’ appresso

È trionfo, e non è pena.

Qual chi fugge a sua catena,

Lasci in terra il mio dolor.

È del Giusto al sommo seggio

Ch’ io già miro e già vagheggio,

Della vita a cui m’ involo

Porto solo – il vostro amor.

CORI.

Il suo spirto, o ciel, ricevi,

E perdona all’ uccisor.

Ludwig van Beethoven – Fidelio

Ludwig van Beethoven

Fidelio

Oper in zwei Aufzügen

Personen

Don Fernando, Minister (Bariton)

Don Pizarro, Gouverneur eines Staatsgefängnisses (Bariton)

Florestan, ein Gefangener (Tenor)

Leonore, seine Gemahlin, unter dem Namen Fidelio (Sopran)

Rocco, Kerkermeister (Baß)

Marzelline, seine Tochter (Sopran)

Jaquino, Pförtner (Tenor)

Erster Gefangener (Tenor)

Zweiter Gefangener (Baß)

Wachthauptmann. Offiziere. Soldaten. Staatsgefangene. Volk

Die Handlung geht in einem spanischen Staatsgefängnisse, einige Meilen von Sevilla vor. 18. Jahrhundert

Spieldauer: 2,5 Stunden

Text, Dekorationsangaben und Regiebemerkungen sind nach dem ursprünglichen Wortlaut, der heute meist sehr verkürzte Dialog strichlos wiedergegeben.

Ouvertüre

Erster Aufzug

Der Hof des Staatsgefängnisses

Im Hintergrunde das Haupttor und eine hohe Wallmauer, über die Bäume hervorragen. Im geschlossenen Tore selbst ist eine kleine Pforte, die für einzelne Fußgänger geöffnet wird. Neben dem Tore das Stübchen des Pförtners. Die Kulissen, von den Zuschauern links, stellen die Wohngebäude der Gefangenen vor, alle Fenster haben Gitter, und die mit Nummern bezeichneten Türen sind mit Eisen beschlagen und mit starken Riegeln verwahrt. In der vordersten Kulisse ist die Tür zur Wohnung des Gefangenenwärters. Rechts stehen Bäume, mit eisernen Geländern eingefaßt, welche nebst einem Gartentore den Eingang zum Schloßgarten bezeichnen.

Erster Auftritt

Marzelline plättet vor ihrer Tür Wäsche; neben ihr steht ein Kohlenbecken, in dem sie den Stahl wärmt. Jaquino hält sich nahe bei seinem Stübchen; er öffnet die Tür mehreren Personen, die ihm Pakete übergeben, die er in sein Stübchen legt.

Nr. 1. Duett

JAQUINO verliebt und sich die Hände reibend.

Jetzt, Schätzchen, jetzt sind wir allein,

Wir können vertraulich nun plaudern.

MARZELLINE ihre Arbeit fortsetzend.

Es wird ja nichts Wichtiges sein,

Ich darf bei der Arbeit nicht zaudern.

JAQUINO.

Ein Wörtchen, du Trotzige du!

MARZELLINE.

So sprich nur, ich höre ja zu.

JAQUINO.

Wenn du mir nicht freundlicher blickest,

So bring ich kein Wörtchen hervor.

MARZELLINE.

Wenn du dich nicht in mich schickest,

Verstopf ich mir vollends das Ohr.

JAQUINO.

Ein Weilchen nur höre mir zu,

Dann laß ich dich wieder in Ruh’.

MARZELLINE.

So hab ich denn nimmermehr Ruh’;

So rede, so rede nur zu.

JAQUINO.

Ich habe zum Weib dich gewählet,

Verstehst du?

MARZELLINE.

Das ist doch klar.

JAQUINO.

Und, wenn mir dein Jawort nicht fehlet,

Was meinst du?

MARZELLINE.

So sind wir ein Paar.

JAQUINO.

Wir könnten in wenigen Wochen –

MARZELLINE.

Recht schön, du bestimmst schon die Zeit.

Man pocht.

JAQUINO.

Zum Henker das ewige Pochen!

MARZELLINE.

So bin ich doch endlich befreit!

JAQUINO.

Da war ich so herrlich im Gang,

Und immer entwischt mir der Fang.

MARZELLINE.

Wie macht seine Liebe mir bang,

Wie werden die Stunden mir lang.

Jaquino öffnet die Pforte, nimmt ein Paket ab und legt es in sein Stübchen. Marzelline fährt unterdessen fort.

Ich weiß, daß der Arme sich quälet,

Es tut mir so leid auch um ihn!

Fidelio hab ich gewählet,

Ihn lieben ist süßer Gewinn.

JAQUINO zurückkommend.

Wo war ich? – Sie sieht mich nicht an.

MARZELLINE.

Da ist er – er fängt wieder an.

JAQUINO.

Wann wirst du das Jawort mir geben?

Es könnte ja heute noch sein.

MARZELLINE beiseite.

O weh, er verbittert mein Leben!

Zu ihm.

Jetzt, morgen und immer: nein, nein!

JAQUINO.

Du bist doch wahrhaftig von Stein!

Kein Wünschen, kein Bitten geht ein.

MARZELLINE für sich.

Ich muß ja so hart mit ihm sein,

Er hofft bei dem mindesten Schein.

JAQUINO.

So wirst du dich nimmer bekehren?

Was meinst du?

MARZELLINE.

Du könntest nun gehn.

JAQUINO.

Wie? Dich anzusehn willst du mir wehren?

Auch das noch!

MARZELLINE.

So bleibe hier stehn!

JAQUINO.

Du hast mir so oft doch versprochen –

MARZELLINE.

Versprochen? Nein, das geht zu weit!

Man pocht.

JAQUINO.

Zum Henker das ewige Pochen!

MARZELLINE.

So bin ich doch endlich befreit!

JAQUINO.

Es ward ihr im Ernste schon bang,

Wer weiß, ob es mir nicht gelang.

MARZELLINE.

Das ist ein willkommener Klang,

Es wurde zu Tode mir bang.

Es wird wieder ein Paket abgegeben.

JAQUINO. Wenn ich diese Tür heute nicht schon zweihundertmal aufgemacht habe, so will ich nicht Kaspar Eustach Jaquino heißen. Zu Marzelline. Endlich kann ich doch wieder einmal plaudern. Man pocht. Zum Wetter! schon wieder! Er geht, um zu öffnen.

MARZELLINE auf der Vorderbühne. Was kann ich dafür, daß ich ihn nicht mehr so gern wie sonst haben kann?

JAQUINO zu dem, der gepocht hat, indem er hastig zuschließt. Ich werde es besorgen. Schon recht! Vorgehend zu Marzelline. So! – Nun, hoffe ich, soll niemand mehr uns stören.

ROCCO ruft im Schloßgarten. Jaquino! Jaquino!

MARZELLINE. Hörst du? Der Vater ruft!

JAQUINO. Lassen wir ihn ein wenig warten. Also, auf unsere Liebe zu kommen –

MARZELLINE. So geh doch. Der Vater wird sich nach Fidelio erkundigen wollen.

JAQUINO eifersüchtig. Ei freilich, da kann man nicht schnell genug sein.

ROCCO ruft wieder. Jaquino, hörst du nicht?

JAQUINO schreiend. Ich komme schon! Zu Marzelline. Bleib fein hier, in zwei Minuten sind wir wieder beisammen. Ab in den Garten, dessen Tür offen ist.

Zweiter Auftritt

Marzelline allein.

MARZELLINE. Der arme Jaquino dauert mich beinahe. Kann ich es aber ändern? Ich war ihm sonst recht gut, da kam Fidelio in unser Haus, und seit der Zeit ist alles in mir und um mich verändert. Ach! Sie seufzt verschämt. Aus dem Mitleiden, das ich mit Jaquino habe, merke ich erst, wie sehr gut ich Fidelio bin. Ich glaube auch, daß Fidelio mir recht gut ist, und wenn ich die Gesinnungen des Vaters wüßte, so könnte vielleicht mein Glück bald vollkommen werden.

Nr. 2. Arie

MARZELLINE.

O wär’ ich schon mit dir vereint

Und dürfte Mann dich nennen!

Ein Mädchen darf ja, was es meint,

Zur Hälfte nur bekennen.

Doch wenn ich nicht erröten muß

Ob einem warmen Herzenskuß,

Wenn nichts uns stört auf Erden –

Die Hoffnung schon erfüllt die Brust

Mit unaussprechlich süßer Lust,

Wie glücklich will ich werden!

In Ruhe stiller Häuslichkeit

Erwach ich jeden Morgen,

Wir grüßen uns mit Zärtlichkeit,

Der Fleiß verscheucht die Sorgen.

Und ist die Arbeit abgetan,

Dann schleicht die holde Nacht heran,

Dann ruhn wir von Beschwerden.

Die Hoffnung schon erfüllt die Brust

Mit unaussprechlich süßer Lust,

Wie glücklich will ich werden!

Dritter Auftritt

Marzelline. Rocco. Jaquino.

Rocco kommt aus dem Garten. Jaquino trägt Gartengeräte hinter ihm her und geht damit in Roccos Haus.

ROCCO. Guten Tag, Marzelline. Ist Fidelio noch nicht zurückgekommen?

MARZELLINE. Nein, Vater.

ROCCO. Die Stunde naht, wo ich dem Gouverneur die Briefschaften bringen muß, welche Fidelio abholen sollte. Ich erwarte ihn mit Ungeduld. Während der letzten Worte wird an die Pforte geklopft.

JAQUINO kommt aus Roccos Hause. Ich komme schon! Er läuft geschäftig, um aufzuschließen.

MARZELLINE. Er wird gewiß so lange bei dem Schmied haben warten müssen. Sie hat währenddessen Leonore zur Tür hereinkommen sehen; mit Lebhaftigkeit. Da ist er!

Vierter Auftritt

Vorige. Leonore.

Leonore trägt ein dunkles Wams, ein rotes Gilet, dunkles Beinkleid, kurze Stiefel, einen breiten Gürtel von schwarzem Leder mit einer kupfernen Schnalle; ihre Haare sind in eine Netzhaube gesteckt. Auf dem Rücken trägt sie ein Behältnis mit Lebensmitteln, auf den Armen Ketten, die sie beim Eintreten an dem Stübchen des Pförtners ablegt; an der Seite hängt ihr eine blecherne Büchse an einer Schnur.

MARZELLINE auf Leonore zulaufend. Wie er belastet ist. Lieber Gott! Der Schweiß läuft ihm von der Stirn. Sie nimmt ihr Schnupftuch und versucht, ihr das Gesicht abzutrocknen.

ROCCO. Warte! Warte! Er hilft mit Marzelline ihr das Behältnis vom Rücken nehmen; es wird beim Bogengange links niedergesetzt.

JAQUINO beiseite auf der Vorderbühne. Es war auch der Mühe wert, so schnell aufzumachen, um den Patron da hereinzulassen. Er geht in sein Stübchen, kommt aber bald wieder heraus, macht den Geschäftigen, sucht aber eigentlich Marzelline, Leonore und Rocco zu beobachten.

ROCCO zu Leonore. Armer Fidelio, diesmal hast du dir zuviel aufgeladen.

LEONORE vorgehend und sich das Gesicht abtrocknend. Ich muß gestehen, ich bin ein wenig ermüdet. Der Schmied hatte an den Ketten so lange auszubessern, daß ich glaubte, er würde nicht damit fertig werden.

ROCCO. Sind sie jetzt gut gemacht?

LEONORE. O gewiß, recht gut und stark. Keiner der Gefangenen wird sie zerbrechen.

ROCCO. Wieviel kostet alles zusammen?

LEONORE. Zwölf Piaster ungefähr. Hier ist die genaue Berechnung.

ROCCO durchgeht die Rechnung. Gut, brav! Zum Wetter! Da gibt’s Artikel, auf denen wir wenigstens das Doppelte gewinnen können. Du bist ein kluger Junge! Ich kann gar nicht begreifen, wie du deine Rechnungen machst. Du kaufst alles wohlfeiler als ich. In den sechs Monaten, seit ich dir die Anschaffung der Lebensmittel übertrug, hast du mehr gewonnen als ich vorher in einem ganzen Jahr. Beiseite. Der Schelm gibt sich alle diese Mühe offenbar meiner Marzelline wegen.

LEONORE. Ich suche zu tun, was mir möglich ist.

ROCCO. Ja, ja, du bist brav, man kann nicht eifriger, nicht verständiger sein. Ich habe dich aber auch mit jedem Tage lieber und – sei versichert, dein Lohn soll nicht ausbleiben. Er wirft während der letzten Worte wechselnde Blicke auf Leonore und Marzelline.

LEONORE verlegen. O glaubt nicht, daß ich meine Schuldigkeit nur des Lohnes wegen –

ROCCO. Still! Mit Blicken wie vorher. Meinst du, ich könnte dir nicht ins Herz sehen? Er scheint sich an der zunehmenden Verlegenheit Leonores zu weiden und geht dann beiseite, um die Ketten zu betrachten.

Nr. 3. Quartett Kanon

MARZELLINE welche während des Lobes, das Rocco Leonore erteilte, die größte Teilnahme hat blicken lassen und Leonore mit immer zunehmender Bewegung liebevoll betrachtet hat, für sich.

Mir ist so wunderbar,

Es engt das Herz mir ein.

Er liebt mich, es ist klar,

Ich werde glücklich sein.

LEONORE für sich.

Wie groß ist die Gefahr,

Wie schwach der Hoffnung Schein.

Sie liebt mich, es ist klar,

O namenlose Pein!

ROCCO der währenddessen wieder auf die Vorderbühne zurückgekehrt ist, für sich.

Sie liebt ihn, es ist klar;

Ja, Mädchen, er wird dein.

Ein gutes, junges Paar,

Sie werden glücklich sein.

JAQUINO der unter dem Beobachten sich immer mehr genähert hat, auf der Seite und etwas hinter den übrigen stehend, für sich.

Mir sträubt sich schon das Haar,

Der Vater willigt ein.

Mir wird so wunderbar,

Mir fällt kein Mittel ein.

Er geht in seine Stube zurück.

ROCCO. Höre, Fidelio, wenn ich auch nicht weiß, wie und wo du auf die Welt gekommen bist, und wenn du auch gar keinen Vater gehabt hättest, so weiß ich doch, was ich tue – ich – ich mache dich zu meinem Tochtermann.

MARZELLINE hastig. Wirst du es bald tun, lieber Vater?

ROCCO lachend. Ei, ei, wie eilfertig! Ernsthafter. Sobald der Gouverneur nach Sevilla gereist sein wird, dann haben wir mehr Muße. Ihr wißt ja, daß er alle Monate hingeht, um über alles, was hier in dem Staatsgefängnis vorfällt, Rechenschaft zu geben. In einigen Tagen muß er wieder fort, und den Tag nach seiner Abreise gebe ich euch zusammen. Darauf könnt ihr rechnen.

MARZELLINE. Den Tag nach seiner Abreise? Das machst du vernünftig, lieber Vater.

LEONORE schon vorher sehr betreten, aber jetzt sich freudig stellend. Den Tag nach seiner Abreise? Beiseite. O welche neue Verlegenheit!

ROCCO. Nun, meine Kinder, ihr habt euch doch recht herzlich lieb, nicht wahr? Aber das ist noch nicht alles, was zu einer guten, vergnügten Haushaltung gehört; man braucht auch –

Er macht die Gebärde des Geldzählens.

Nr. 4. Arie

ROCCO.

Hat man nicht auch Gold beineben,

Kann man nicht ganz glücklich sein;

Traurig schleppt sich fort das Leben,

Mancher Kummer stellt sich ein.

Doch wenn’s in den Taschen fein klingelt und rollt,

Da hält man das Schicksal gefangen,

Und Macht und Liebe verschafft dir das Gold

Und stillet das kühnste Verlangen.

Das Glück dient wie ein Knecht für Sold,

Es ist ein schönes Ding, das Gold.

Wenn sich nichts mit nichts verbindet,

Ist und bleibt die Summe klein;

Wer bei Tisch nur Liebe findet,

Wird nach Tische hungrig sein.

Drum lächle der Zufall euch gnädig und hold

Und segne und lenk’ euer Streben;

Das Liebchen im Arme, im Beutel das Gold,

So mögt ihr viel Jahre durchleben.

Das Glück dient wie ein Knecht für Sold,

Es ist ein mächtig Ding, das Gold.

LEONORE. Ihr könnt das leicht sagen, Meister Rocco, aber ich, ich behaupte, daß die Vereinigung zweier gleichgestimmter Herzen die Quelle des wahren ehelichen Glückes ist. Mit Wärme. O dieses Glück muß der größte Schatz auf Erden sein! Sich wieder fassend und mäßigend. Freilich gibt es noch etwas, was mir nicht weniger kostbar sein würde, aber mit Kummer sehe ich, daß ich es durch alle meine Bemühungen nicht erhalten werde.

ROCCO. Und was wäre denn das?

LEONORE. Euer Vertrauen! Verzeiht mir diesen kleinen Vorwurf, aber oft sehe ich Euch aus den unterirdischen Gewölben dieses Schlosses ganz außer Atem und ermattet zurückkommen. Warum erlaubt Ihr mir nicht, Euch dahin zu begleiten? Es wäre mir so lieb, wenn ich Euch bei Eurer Arbeit helfen und Eure Beschwerden teilen könnte.

ROCCO. Du weißt doch, daß ich den strengsten Befehl habe, niemanden, wer es auch sein mag, zu den Staatsgefangenen zu lassen.

MARZELLINE. Es sind ihrer aber gar zu viele in dieser Festung. Du arbeitest dich ja zu Tode, lieber Vater.

LEONORE. Sie hat recht, Meister Rocco. Man soll allerdings seine Schuldigkeit tun; Zärtlich. aber es ist doch auch erlaubt, mein ich, zuweilen daran zu denken, wie man sich für die, die uns angehören und lieben, ein bißchen schonen kann. Sie drückt eine seiner Hände in den ihrigen.

MARZELLINE Roccos andere Hand an ihre Brust drückend. Man muß sich für seine Kinder zu erhalten suchen.

ROCCO sieht beide gerührt an. Ja, ihr habt recht, diese schwere Arbeit würde mir doch endlich zuviel werden. Der Gouverneur ist zwar sehr streng, er muß mir aber doch erlauben, dich in die geheimen Kerker mit mir zu nehmen. Leonore macht eine heftige Gebärde der Freude. Indessen gibt es ein Gewölbe, in das ich dich wohl nie werde führen dürfen, obschon ich mich ganz auf dich verlassen kann.

MARZELLINE. Vermutlich, wo der Gefangene sitzt, von dem du schon einige Male gesprochen hast?

ROCCO. Du hast’s erraten.

LEONORE forschend. Ich glaube, es ist schon lange her, daß er gefangen ist?

ROCCO. Es ist schon über zwei Jahre.

LEONORE heftig. Zwei Jahre, sagt Ihr? Sich fassend. Er muß ein großer Verbrecher sein.

ROCCO. Oder er muß große Feinde haben, das kommt ungefähr auf eins heraus.

MARZELLINE. So hat man denn nie erfahren können, woher er ist und wie er heißt?

ROCCO. O wie oft hat er mit mir von alledem reden wollen.

LEONORE. Nun?

ROCCO. Für unsereinen ist’s aber am besten, so wenig Geheimnisse als möglich zu wissen, darum hab ich ihn auch nie angehört. Ich hätte mich verplappern können, und ihm hätte ich doch nicht genützt. Geheimnisvoll. Nun, er wird mich nicht lange mehr quälen. Es kann nicht mehr lange mit ihm dauern.

LEONORE beiseite. Großer Gott!

MARZELLINE. Lieber Himmel! Wie hat er denn eine so schwere Strafe verdient?

ROCCO noch geheimnisvoller. Seit einem Monat schon muß ich auf Pizarros Befehl seine Portion immer kleiner machen. Jetzt hat er binnen vierundzwanzig Stunden nicht mehr als zwei Unzen schwarzes Brot und ein halb Maß Wasser; kein Licht als den Schein einer Lampe – kein Stroh mehr – nichts –

MARZELLINE. O lieber Vater, führe Fidelio ja nicht zu ihm! Diesen Anblick könnte er nicht ertragen.

LEONORE. Warum denn nicht? Ich habe Mut und Stärke!

ROCCO sie auf die Schulter klopfend. Brav, mein Sohn, brav! Wenn ich dir erzählen wollte, wie ich anfangs in meinem Stande mit meinem Herzen zu kämpfen hatte! – Und ich war doch ein ganz anderer Kerl als du mit deiner feinen Haut und deinen weichen Händen.

Nr. 5. Terzett

ROCCO.

Gut, Söhnchen, gut,

Hab immer Mut,

Dann wird dir’s auch gelingen.

Das Herz wird hart

Durch Gegenwart

Bei fürchterlichen Dingen.

LEONORE mit Kraft.

Ich habe Mut!

Mit kaltem Blut

Will ich hinab mich wagen.

Für hohen Lohn

Kann Liebe schon

Auch hohe Leiden tragen.

MARZELLINE zärtlich.

Dein gutes Herz

Wird manchen Schmerz

In diesen Grüften leiden.

Dann kehrt zurück

Der Liebe Glück

Und unnennbare Freuden.

ROCCO.

Du wirst dein Glück ganz sicher bauen.

LEONORE.

Ich hab auf Gott und Recht Vertrauen.

MARZELLINE.

Du darfst mir auch ins Auge schauen,

Der Liebe Macht ist auch nicht klein.

Ja, wir werden glücklich sein.

LEONORE.

Ja, ich kann noch glücklich sein.

ROCCO.

Ja, ihr werdet glücklich sein. –

Der Gouverneur soll heut erlauben,

Daß du mit mir die Arbeit teilst.

LEONORE.

Du wirst mir alle Ruhe rauben,

Wenn du bis morgen nur verweilst.

MARZELLINE.

Ja, guter Vater, bitt ihn heute,

In kurzem sind wir dann ein Paar.

ROCCO.

Ich bin ja bald des Grabes Beute,

Ich brauche Hilf’, es ist ja wahr.

LEONORE für sich.

Wie lang bin ich des Kummers Beute!

Du, Hoffnung, reichst mir Labung dar.

MARZELLINE zärtlich zu Rocco.

Ach, lieber Vater, was fällt Euch ein?

Lang Freund und Rater müßt Ihr uns sein.

ROCCO.

Nur auf der Hut, dann geht es gut,

Gestillt wird euer Sehnen.

Gebt euch die Hand und schließt das Band

In süßen Freudentränen.

LEONORE.

Ihr seid so gut, Ihr macht mir Mut,

Gestillt wird bald mein Sehnen!

Für sich.

Ich gab die Hand zum süßen Band,

Es kostet bittre Tränen.

MARZELLINE.

O habe Mut! O welche Glut!

O welch ein tiefes Sehnen!

Ein festes Band mit Herz und Hand.

O süße, süße Tränen!

ROCCO. Aber nun ist es Zeit, daß ich dem Gouverneur die Briefschaften überbringe.

Nr. 6. Marsch

ROCCO. Ah! Er kommt selbst hierher! Zu Leonore. Gib sie, Fidelio, und dann entfernt euch!

Leonore nimmt die Blechbüchse ab, gibt sie Rocco und geht mit Marzelline ab ins Haus.

Während des zuvor begonnenen Marsches wird das Haupttor durch Schildwachen von außen geöffnet, Offiziere ziehen mit einem Detachement ein, dann kommt Pizarro, das Tor wird wieder geschlossen.

Fünfter Auftritt

Rocco. Pizarro. Offiziere. Wachen.

PIZARRO zu den Offizieren. Drei Schildwachen auf den Wall! Sechs Mann Tag und Nacht an die Zugbrücke, ebenso viele gegen den Garten zu, und jedermann, der sich dem Graben der Festung nähert, werde sogleich vor mich gebracht! Zu Rocco. Ist etwas Neues vorgefallen?

ROCCO. Nein, Herr.

PIZARRO. Wo sind die Depeschen?

ROCCO nimmt die Briefe aus der Blechbüchse. Hier sind sie.

PIZARRO öffnet die Papiere und durchgeht sie. Immer Empfehlungen oder Vorwürfe. Wenn ich auf alles das achten wollte, würde ich nie damit zu Ende kommen. Er hält bei einem Briefe an. Was seh ich? Mich dünkt, ich kenne diese Schrift. Er öffnet den Brief, geht weiter vor. Rocco und die Wachen ziehen sich mehr zurück. Er liest. »Ich gebe Ihnen Nachricht, daß der Minister in Erfahrung gebracht hat, daß die Staatsgefängnisse, denen Sie vorstehen, mehrere Opfer willkürlicher Gewalt enthalten. Er reist morgen ab, um Sie mit einer Untersuchung zu überraschen. Seien Sie auf Ihrer Hut und suchen Sie sich sicherzustellen.« Betreten. Ah, wenn er entdeckte, daß ich diesen Florestan in Ketten liegen habe, den er längst tot glaubt, ihn, der so oft meine Rache reizte, der mich vor dem Minister enthüllen und mir seine Gunst entziehen wollte. – Doch, es gibt ein Mittel! Rasch. Eine kühne Tat kann alle Besorgnisse zerstreuen!

Nr. 7. Arie mit Chor

PIZARRO.

Ha, welch ein Augenblick!

Die Rache werd ich kühlen,

Dich rufet dein Geschick!

In seinem Herzen wühlen,

O Wonne, großes Glück!

Schon war ich nah, im Staube,

Dem lauten Spott zum Raube,

Dahingestreckt zu sein.

Nun ist es mir geworden,

Den Mörder selbst zu morden;

In seiner letzten Stunde,

Den Stahl in seiner Wunde,

Ihm noch ins Ohr zu schrein:

Triumph! Der Sieg ist mein!

CHOR DER WACHE halblaut unter sich.

Er spricht von Tod und Wunde!

Nun fort auf unsre Runde,

Wie wichtig muß es sein!

Er spricht von Tod und Wunde!

Wacht scharf auf eurer Runde,

Wie wichtig muß es sein!

PIZARRO. Ich darf keinen Augenblick säumen, alle Anstalten zu meinem Vorhaben zu treffen. Heute soll der Minister ankommen. Nur die größte Vorsicht und Eile können mich retten. Zu dem Offizier. Hauptmann! Hören Sie. Er führt ihn vor und spricht leise mit ihm. Besteigen Sie mit einem Trompeter sogleich den Turm. Sehen Sie unablässig und mit der größten Achtsamkeit auf die Straße von Sevilla. Sobald Sie einen Wagen von Reitern begleitet erblicken, lassen Sie augenblicklich ein Zeichen geben. Verstehn Sie, augenblicklich! Ich erwarte die größte Pünktlichkeit. Sie haften mir mit Ihrem Kopf dafür. Der Offizier geht ab. Pizarro zur Wache. Fort auf eure Posten! Die Wache geht. Pizarro zu Rocco. Alter!

ROCCO. Herr!

PIZARRO betrachtet ihn eine Weile aufmerksam, für sich. Ich muß ihn zu gewinnen suchen. Ohne seine Hilfe kann ich es nicht ausführen. Laut. Komm näher!

Nr. 8. Duett

PIZARRO.

Jetzt, Alter, hat es Eile!

Dir wird ein Glück zuteile,

Du wirst ein reicher Mann;

Er wirft ihm einen Beutel zu.

Das geb ich nur daran.

ROCCO.

So sagt doch nur in Eile,

Womit ich dienen kann.

PIZARRO.

Du bist von kaltem Blute,

Von unverzagtem Mute

Durch langen Dienst geworden.

ROCCO.

Was soll ich? Redet!

PIZARRO.

Morden!

ROCCO erschreckt.

Wie?

PIZARRO.

Höre mich nur an!

Du bebst? Bist du ein Mann?

Wir dürfen gar nicht säumen;

Dem Staate liegt daran,

Den bösen Untertan

Schnell aus dem Weg zu räumen.

ROCCO.

O Herr!

PIZARRO.

Du stehst noch an?

Für sich.

Er darf nicht länger leben,

Sonst ist’s um mich geschehn,

Pizarro sollte beben?

Du fällst – ich werde stehn.

ROCCO.

Die Glieder fühl ich beben,

Wie könnt’ ich das bestehn?

Ich nehm ihm nicht das Leben,

Mag, was da will, geschehn. –

Nein, Herr, das Leben nehmen,

Das ist nicht meine Pflicht.

PIZARRO.

Ich will mich selbst bequemen,

Wenn dir’s am Mut gebricht;

Nun eile rasch und munter

Zu jenem Mann hinunter –

Du weißt –

ROCCO.

Der kaum mehr lebt

Und wie ein Schatten schwebt?

PIZARRO mit Grimm.

Zu dem, zu dem hinab!

Ich wart in kleiner Ferne,

Du gräbst in der Zisterne

Sehr schnell ein Grab.

ROCCO.

Und dann?

PIZARRO.

Dann werd ich selbst, vermummt,

Mich in den Kerker schleichen –

Er zeigt den Dolch.

Ein Stoß – und er verstummt!

ROCCO.

Verhungernd in den Ketten

Ertrug er lange Pein,

Ihn töten, heißt ihn retten,

Der Dolch wird ihn befrein.

PIZARRO.

Er sterb’ in seinen Ketten,

Zu kurz war seine Pein,

Sein Tod nur kann mich retten,

Dann werd ich ruhig sein.

Jetzt, Alter, jetzt hat es Eile!

Hast du mich verstanden?

Du gibst ein Zeichen!

Dann werd ich selbst, vermummt,

Mich in den Kerker schleichen –

Ein Stoß – und er verstummt!

ROCCO.

Verhungernd in den Ketten

Ertrug er lange Pein,

Ihn töten, heißt ihn retten,

Der Dolch wird ihn befrein.

PIZARRO.

Er sterb’ in seinen Ketten,

Zu kurz war seine Pein,

Sein Tod nur kann mich retten,

Dann werd ich ruhig sein.

Ab gegen den Garten. Rocco folgt ihm.

Sechster Auftritt

Leonore allein.

Leonore tritt in heftiger innerer Bewegung von der andern Seite auf und sieht den Abgehenden mit steigender Unruhe nach.

Nr. 9. Rezitativ und Arie

Rezitativ

Abscheulicher! Wo eilst du hin?

Was hast du vor in wildem Grimme?

Des Mitleids Ruf, der Menschheit Stimme,

Rührt nichts mehr deinen Tigersinn?

Doch toben auch wie Meereswogen

Dir in der Seele Zorn und Wut,

So leuchtet mir ein Farbenbogen,

Der hell auf dunklen Wolken ruht:

Der blickt so still, so friedlich nieder,

Der spiegelt alte Zeiten wider,

Und neu besänftigt wallt mein Blut.

Arie

Komm, Hoffnung, laß den letzten Stern

Der Müden nicht erbleichen!

Erhell mein Ziel, sei’s noch so fern,

Die Liebe wird’s erreichen.

Ich folg dem innern Triebe,

Ich wanke nicht,

Mich stärkt die Pflicht

Der treuen Gattenliebe!

O du, für den ich alles trug,

Könnt’ ich zur Stelle dringen,

Wo Bosheit dich in Fesseln schlug,

Und süßen Trost dir bringen!

Ich folg dem innern Triebe,

Ich wanke nicht,

Mich stärkt die Pflicht

Der treuen Gattenliebe!

Ab gegen den Garten.

Siebenter Auftritt

Marzelline kommt aus dem Hause. Jaquino folgt ihr.

JAQUINO. Aber, Marzelline –

MARZELLINE. Kein Wort, keine Silbe. Ich will nichts mehr von deinen albernen Liebesseufzern hören, und dabei bleibt es.

JAQUINO. Wer mir das vorher gesagt hätte, als ich mir vornahm, mich recht ordentlich in dich zu verlieben. Damals, ja da war ich der gute, der liebe Jaquino an allen Orten und Ecken. Ich mußte dir das Eisen in den Ofen legen, Wäsche in Falten schlagen, Päckchen zu den Gefangenen bringen, kurz alles tun, was ein ehrbares Mädchen einem ehrbaren Junggesellen erlauben kann. Aber seit dieser Fidelio –

MARZELLINE rasch einfallend. Ich leugne nicht, ich war dir gut, aber sieh, ich bin offenherzig, das war keine Liebe. Fidelio zieht mich weit mehr an, zwischen ihm und mir fühle ich eine weit größere Übereinstimmung.

JAQUINO. Was? Übereinstimmung mit einem solchen hergelaufenen Jungen, der Gott weiß woher ist, den der Vater aus bloßem Mitleid am Tor dort aufgenommen hat, der – der –

MARZELLINE ärgerlich. Der arm und verlassen ist – und den ich doch heirate.

JAQUINO. Glaubst du, daß ich das leiden werde? He, daß es ja nicht in meiner Gegenwart geschieht, ich möchte euch einen gewaltigen Streich spielen!

Achter Auftritt

Vorige. Rocco, Leonore aus dem Garten.

ROCCO. Was habt ihr denn beide wieder zu zanken?

MARZELLINE. Ach, Vater, er verfolgt mich immer.

ROCCO. Warum denn?

MARZELLINE. Er will, daß ich ihn lieben, daß ich ihn heiraten soll.

JAQUINO. Ja, ja, sie soll mich lieben, sie soll mich wenigstens heiraten, und ich –

ROCCO. Was? Ich sollte eine einzige Tochter so gut gepflegt Er streichelt Marzelline am Kinn, mit so viel Mühe bis in ihr sechzehntes Jahr erzogen haben, und das alles für den Herrn da? Er blickt lachend auf Jaquino. Nein, Jaquino, von deiner Heirat ist jetzt keine Rede, mich beschäftigen andere, klügere Absichten.

MARZELLINE. Ich verstehe, Vater. Zärtlich leise. Fidelio!

LEONORE. Brechen wir davon ab. – Rocco, ich ersuchte Euch schon einige Male, die armen Gefangenen, die hier über der Erde wohnen, in unsern Festungsgarten zu lassen. Ihr verspracht und verschobt es immer. Heute ist das Wetter so schön, der Gouverneur kommt um diese Zeit nicht hierher.

MARZELLINE. O ja! Ich bitte mit ihm!

ROCCO. Kinder, ohne Erlaubnis des Gouverneurs?

MARZELLINE. Aber er sprach so lange mit Euch. Vielleicht sollt Ihr ihm einen Gefallen tun, und dann wird er es so genau nicht nehmen.

ROCCO. Einen Gefallen? Du hast recht, Marzelline. Auf diese Gefahr hin kann ich es wagen. Wohl denn, Jaquino und Fidelio, öffnet die leichteren Gefängnisse. Ich aber gehe zu Pizarro und halte ihn zurück, indem ich Gegen Marzelline. für dein Bestes rede.

MARZELLINE drückt ihm die Hand. So recht, Vater.

Rocco ab in den Garten. Leonore und Jaquino schließen die wohlverwahrten Gefängnistüren auf, ziehen sich dann mit Marzelline in den Hintergrund und beobachten mit Teilnahme die nach und nach auftretenden Gefangenen.

Neunter Auftritt

Die Gefangenen.

Nr. 10. Finale

Während des Vorspiels kommen die Gefangenen nach und nach auf die Bühne.

CHOR DER GEFANGENEN.

O welche Lust, in freier Luft

Den Atem leicht zu heben!

Nur hier, nur hier ist Leben,

Der Kerker eine Gruft.

ERSTER GEFANGENER.

Wir wollen mit Vertrauen

Auf Gottes Hilfe bauen!

Die Hoffnung flüstert sanft mir zu:

Wir werden frei, wir finden Ruh’.

ALLE ANDERN.

O Himmel! Rettung! Welch ein Glück!

O Freiheit! kehrest du zurück?

Hier erscheint ein Offizier auf dem Walle und entfernt sich wieder.

ZWEITER GEFANGENER.

Sprecht leise! Haltet euch zurück!

Wir sind belauscht mit Ohr und Blick.

ALLE.

Sprecht leise! Haltet euch zurück!

Wir sind belauscht mit Ohr und Blick. –

O welche Lust, in freier Luft

Den Atem leicht zu heben!

Nur hier, nur hier ist Leben.

Sprecht leise, haltet euch zurück!

Wir sind belauscht mit Ohr und Blick.

Ehe der Chor noch ganz geendigt ist, erscheint Rocco im Hintergrunde der Bühne und redet angelegentlich mit Leonore. Die Gefangenen entfernen sich in den Garten. Marzelline und Jaquino folgen dahin. Rocco und Leonore nähern sich der Vorderbühne.

Zehnter Auftritt

Rocco. Leonore.

Rezitativ

LEONORE.

Nun sprecht, wie ging’s?

ROCCO.

Recht gut, recht gut!

Zusammen rafft’ ich meinen Mut

Und trug ihm alles vor;

Und sollst du’s glauben,

Was er zur Antwort mir gab?

Die Heirat und daß du mir hilfst, will er erlauben;

Noch heute führ ich in die Kerker dich hinab.

Duett

LEONORE ausbrechend.

Noch heute, noch heute!

O welch ein Glück! O welche Wonne!

ROCCO.

Ich sehe deine Freude;

Nur noch ein Augenblick,

Dann gehen wir schon beide –

LEONORE.

Wohin?

ROCCO.

Zu jenem Mann hinab,

Dem ich seit vielen Wochen

Stets weniger zu essen gab.

LEONORE.

Ha! – Wird er losgesprochen?

ROCCO.

O nein!

LEONORE.

So sprich!

ROCCO.

O nein, o nein!

Geheimnisvoll.

Wir müssen ihn, doch wie? befrein!

Er muß in einer Stunde –

Den Finger auf dem Munde –

Von uns begraben sein!

LEONORE.

So ist er tot?

ROCCO.

Noch nicht, noch nicht.

LEONORE zurückfragend.

Ist ihn zu töten deine Pflicht?

ROCCO.

Nein, guter Junge, zittre nicht,

Zum Morden dingt sich Rocco nicht.

Der Gouverneur kommt selbst hinab,

Wir beide graben nur das Grab.

LEONORE beiseite.

Vielleicht das Grab des Gatten graben,

O was kann fürchterlicher sein?

ROCCO.

Ich darf ihn nicht mit Speise laben,

Ihm wird im Grabe besser sein. –

Wir müssen gleich zu Werke schreiten,

Du mußt mir helfen, mich begleiten;

Hart ist des Kerkermeisters Brot.

LEONORE.

Ich folge dir, wär’s in den Tod.

ROCCO.

In der zerfallenen Zisterne

Bereiten wir die Grube leicht.

Ich tu es, glaube mir, nicht gerne;

Auch dir ist schaurig, wie mich deucht?

LEONORE.

Ich bin es nur noch nicht gewohnt.

ROCCO.

Ich hätte gerne dich verschont.

Doch wird es mir allein zu schwer,

Und gar so streng ist unser Herr.

LEONORE für sich.

O welch ein Schmerz!

ROCCO für sich.

Mir scheint, er weint.

Laut.

Nein, du bleibst hier – ich geh alleine,

Ich geh allein.

LEONORE innig sich an ihn klammernd.

O nein, o nein!

Ich muß ihn sehn; den Armen sehen,

Und müßt’ ich selbst zugrunde gehen.

ROCCO UND LEONORE.

So säumen wir nun länger nicht,

Wir folgen unsrer strengen Pflicht.

Elfter Auftritt

Vorige. Jaquino und Marzelline atemlos hereinstürzend.

MARZELLINE.

Ach, Vater, eilt!

ROCCO.

Was hast du denn?

JAQUINO.

Nicht länger weilt!

ROCCO.

Was ist geschehn?

MARZELLINE.

Voll Zorn folgt mir

Pizarro nach!

Er drohet dir.

ROCCO.

Gemach! Gemach!

LEONORE.

So eilet fort!

ROCCO.

Nur noch dies Wort:

Sprich, weiß er schon?

JAQUINO.

Ja, er weiß es schon.

MARZELLINE.

Der Offizier

Sagt’ ihm, was wir

Jetzt den Gefangenen gewähren.

ROCCO.

Laßt alle schnell zurückekehren.

Jaquino ab in den Garten.

MARZELLINE.

Ihr wißt ja, wie er tobet,

Und kennet seine Wut.

Sie eilt Jaquino nach.

LEONORE.

Wie mir’s im Herzen tobet!

Empöret ist mein Blut.

ROCCO.

Mein Herz hat mich gelobet,

Sei der Tyrann in Wut.

Zwölfter Auftritt

Vorige. Pizarro. Später Marzelline und Jaquino mit den Gefangenen.

PIZARRO.

Verwegner Alter, welche Rechte

Legst du dir frevelnd selber bei?

Und ziemt es dem gedungnen Knechte,

Zu geben die Gefangnen frei?

ROCCO verlegen.

O Herr!

PIZARRO.

Wohlan!

ROCCO eine Entschuldigung suchend.

Des Frühlings Kommen,

Das heitre warme Sonnenlicht,

Dann:

Sich fassend.

habt Ihr wohl in acht genommen,

Was sonst zu meinem Vorteil spricht?

Die Mütze abnehmend.

Des Königs Namensfest ist heute,

Das feiern wir auf solche Art.

Geheim zu Pizarro.

Der unten stirbt – doch laßt die andern

Jetzt fröhlich hin und wider wandern;

Für jenen sei der Zorn gespart.

PIZARRO leise.

So eile, ihm sein Grab zu graben,

Hier will ich stille Ruhe haben.

Schließ die Gefangnen wieder ein,

Mögst du nie mehr verwegen sein!

DIE GEFANGENEN kommen aus dem Garten zurück.

Leb wohl, du warmes Sonnenlicht,

Schnell schwindest du uns wieder;

Schon sinkt die Nacht hernieder,

Aus der so bald kein Morgen bricht.

MARZELLINE die Gefangenen betrachtend.

Wie eilten sie zum Sonnenlicht

Und scheiden traurig wieder.

Für sich.

Die andern murmeln nieder:

Hier wohnt die Lust, die Freude nicht.

LEONORE zu den Gefangenen.

Ihr hört das Wort, drum zögert nicht,

Kehrt in den Kerker wieder.

Für sich.

Angst rinnt durch meine Glieder.

Ereilt den Frevler kein Gericht?

JAQUINO zu den Gefangenen.

Ihr hört das Wort, drum zögert nicht,

Kehrt in den Kerker wieder.

Für sich, Rocco und Leonore betrachtend.

Sie sinnen auf und nieder!

Könnt’ ich verstehn, was jeder spricht!

PIZARRO.

Nun, Rocco, zögre länger nicht,

Steig in den Kerker nieder.

Leise.

Nicht eher kehrst du wieder,

Bis ich vollzogen das Gericht.

ROCCO.

Nein, Herr, ich zögre länger nicht,

Ich steige eilend nieder.

Für sich.

Mir beben meine Glieder;

O unglückselig harte Pflicht!

Die Gefangenen gehen in ihre Zellen, die Leonore und Jaquino verschließen.

Zweiter Aufzug

Ein unterirdischer dunkler Kerker

Links ist eine mit Steinen und Schutt bedeckte Zisterne. Im Hintergrunde sind mehrere mit Gitterwerk verwahrte Öffnungen in der Mauer, durch die man die Stufen einer von der Höhe herunterführenden Treppe sieht; rechts die letzten Stufen und die Tür in das Gefängnis. Eine Lampe brennt.

Erster Auftritt

Florestan sitzt auf einem Stein, um den Leib hat er eine lange Kette, deren Ende in der Mauer befestigt ist.

Nr. 11. Orchestervorspiel, Rezitativ und Arie

Rezitativ

FLORESTAN.

Gott! Welch Dunkel hier! O grauenvolle Stille.

Öd ist es um mich her. Nichts lebet außer mir.

O schwere Prüfung! – Doch gerecht ist Gottes Wille!

Ich murre nicht! Das Maß der Leiden steht bei dir.

Arie

In des Lebens Frühlingstagen

Ist das Glück von mir geflohn!

Wahrheit wagt’ ich kühn zu sagen,

Und die Ketten sind mein Lohn.

Willig duld ich alle Schmerzen,

Ende schmählich meine Bahn;

Süßer Trost in meinem Herzen:

Meine Pflicht hab ich getan!

In einer an Wahnsinn grenzenden, doch ruhigen Begeisterung.

Und spür ich nicht linde, sanft säuselnde Luft?

Und ist nicht mein Grab mir erhellet?

Ich seh, wie ein Engel im rosigen Duft

Sich tröstend zur Seite mir stellet,

Ein Engel, Leonoren, der Gattin, so gleich,

Der führt mich zur Freiheit ins himmlische Reich.

Er sinkt, erschöpft von der letzten Gemütsbewegung, auf den Felsensitz nieder, seine Hände verhüllen sein Gesicht.

Zweiter Auftritt

Florestan, Rocco und Leonore, die man durch die Öffnungen bei dem Schein einer Laterne die Treppe herabsteigen sah, tragen einen Krug und die Werkzeuge zum Graben. Die Hintertür öffnet sich, und das Theater erhellt sich zur Hälfte.

Nr. 12. Melodram und Duett

Melodram

LEONORE halblaut. Wie kalt ist es in diesem unterirdischen Gewölbe!

ROCCO. Das ist natürlich, es ist ja so tief.

LEONORE sieht unruhig nach allen Seiten umher. Ich glaubte schon, wir würden den Eingang gar nicht finden.

ROCCO sich gegen Florestans Seite wendend. Da ist er.

LEONORE mit gebrochener Stimme, indem sie den Gefangenen zu erkennen sucht. Er scheint ganz ohne Bewegung.

ROCCO. Vielleicht ist er tot.

LEONORE schaudernd. Ihr meint es?

Florestan macht eine Bewegung.

ROCCO. Nein, nein, er schläft. – – Das müssen wir benutzen und gleich ans Werk gehen; wir haben keine Zeit zu verlieren.

LEONORE beiseite. Es ist unmöglich, seine Züge zu unterscheiden. – Gott steh’ mir bei, wenn er es ist!

ROCCO setzt seine Laterne auf die Trümmer. Hier, unter diesen Trümmern ist die Zisterne, von der ich dir gesagt habe. – Wir brauchen nicht viel zu graben, um an die Öffnung zu kommen. Gib mir eine Haue, und du, stelle dich hierher. Er steigt bis an den Gürtel in die Höhlung hinab, stellt den Krug und legt den Schlüsselbund neben sich. Leonore steht am Rande und reicht ihm die Haue. Du zitterst, fürchtest du dich?

LEONORE mit erzwungener Festigkeit des Tones. O nein, es ist nur so kalt.

ROCCO rasch. So mache fort, im Arbeiten wird dir schon warm werden.

Rocco fängt gleich mit dem Vorspiel an zu arbeiten; währenddessen benutzt Leonore die Momente, wo sich Rocco bückt, um den Gefangenen zu betrachten. Das Duett wird durchaus halblaut gesungen.

Duett

ROCCO mit halblauter Stimme während der Arbeit.

Nur hurtig fort, nur frisch gegraben,

Es währt nicht lang, er kommt herein.

LEONORE ebenfalls arbeitend.

Ihr sollt ja nicht zu klagen haben,

Ihr sollt gewiß zufrieden sein.

ROCCO einen großen Stein hebend.

Komm, hilf doch diesen Stein mir heben –

Hab acht! Hab acht! Er hat Gewicht!

LEONORE hilft heben.

Ich helfe schon, sorgt Euch nicht;

Ich will mir alle Mühe geben.

ROCCO.

Ein wenig noch!

LEONORE.

Geduld!

ROCCO.

Er weicht.

LEONORE.

Nur etwas noch!

ROCCO.

Es ist nicht leicht!

Sie lassen den Stein über die Trümmer rollen und holen Atem.

ROCCO weiterarbeitend.

Nur hurtig fort, nur frisch gegraben,

Es währt nicht lang, er kommt herein.

LEONORE.

Laßt mich nur wieder Kräfte haben,

Wir werden bald zu Ende sein.

Sie sucht den Gefangenen zu betrachten; für sich.

Wer du auch seist, ich will dich retten,

Bei Gott, du sollst kein Opfer sein!

Gewiß, ich löse deine Ketten,

Ich will, du Armer, dich befrein.

ROCCO sich schnell aufrichtend.

Was zauderst du in deiner Pflicht?

LEONORE fängt wieder an zu arbeiten.

Mein Vater, nein, ich zaudre nicht.

ROCCO.

Nur hurtig fort, nur frisch gegraben,

Es währt nicht lang, so kommt er her.

LEONORE.

Ihr sollt ja nicht zu klagen haben,

Laßt mich nur wieder Kräfte haben,

Denn mir wird keine Arbeit schwer.

Rocco trinkt. Florestan erholt sich und hebt das Haupt in die Höhe, ohne sich nach Leonore zu wenden.

LEONORE. Er erwacht!

ROCCO plötzlich im Trinken einhaltend. Er erwacht, sagst du?

LEONORE in größter Verwirrung immer nach Florestan sehend. Ja, er hat eben den Kopf in die Höhe gehoben.

ROCCO. Ohne Zweifel wird er wieder tausend Fragen an mich stellen. Ich muß allein mit ihm reden. Nun hat er es bald überstanden. Er steigt aus der Grube. Steig du statt meiner hinab und räume noch so viel weg, daß man die Zisterne öffnen kann.

LEONORE steigt zitternd ein paar Stufen hinab. Was in mir vorgeht, ist unaussprechlich!

ROCCO nach einer kleinen Pause zu Florestan. Nun, Ihr habt wieder einige Augenblicke geruht?

FLORESTAN. Geruht? Wie fände ich Ruhe?

LEONORE für sich. Diese Stimme! – Wenn ich nur einen Augenblick sein Gesicht sehen könnte.

FLORESTAN. Werdet Ihr immer bei meinen Klagen taub sein, grausamer Mann? Mit den letzten Worten wendet er sein Gesicht gegen Leonore.

LEONORE für sich. Gott! Er ist’s! Sie fällt ohne Bewußtsein an den Rand der Grube.

ROCCO. Was verlangt Ihr denn von mir? Ich vollziehe die Befehle, die man mir gibt; das ist mein Amt, meine Pflicht.

FLORESTAN. Sagt mir endlich einmal, wer ist Gouverneur dieses Gefängnisses?

ROCCO beiseite. Jetzt kann ich ihm ja ohne Gefahr genugtun. Zu Florestan. Der Gouverneur dieses Gefängnisses ist Don Pizarro.

FLORESTAN. Pizarro!

LEONORE sich allmählich erholend. O Barbar! Deine Grausamkeit gibt mir meine Kräfte wieder.

FLORESTAN. O schickt so bald als möglich nach Sevilla, fragt nach Leonore Florestan –

LEONORE. Gott! Er ahnt nicht, daß sie jetzt sein Grab gräbt!

FLORESTAN. Sagt ihr, daß ich hier in Ketten liege.

ROCCO. Es ist unmöglich, sag ich Euch. Ich würde mich ins Verderben stürzen, ohne Euch genützt zu haben.

FLORESTAN. Wenn ich denn verdammt bin, hier mein Leben zu enden, o so laßt mich nicht langsam verschmachten.

LEONORE springt auf und hält sich an der Mauer fest. O Gott! Wer kann das ertragen?

FLORESTAN. Aus Barmherzigkeit, gib mir nur einen Tropfen Wasser. Das ist ja so wenig.

ROCCO beiseite. Es geht mir wider meinen Willen zu Herzen. Leonore. Er scheint sich zu erweichen.

FLORESTAN. Du gibst mir keine Antwort?

ROCCO. Ich kann Euch nicht verschaffen, was Ihr verlangt. Alles, was ich Euch anbieten kann, ist ein Restchen Wein, das ich in meinem Kruge habe. – Fidelio!

LEONORE den Krug in größter Eile bringend. Da ist er! Da ist er!

FLORESTAN Leonore betrachtend. Wer ist das?

ROCCO. Mein Schließer und in wenigen Tagen mein Eidam. Er reicht Florestan den Krug. Trinkt! Es ist freilich nur wenig Wein, aber ich gebe ihn Euch gern. Zu Leonore. Du bist ja ganz in Bewegung?

LEONORE in größter Verwirrung. Wer sollte es nicht sein? Ihr selbst, Meister Rocco –

ROCCO. Es ist wahr, der Mensch hat so eine Stimme …

LEONORE. Jawohl, sie dringt in die Tiefe des Herzens.

Nr. 13. Terzett

FLORESTAN.

Euch werde Lohn in bessern Welten,

Der Himmel hat Euch mir geschickt.

O Dank! Ihr habt mich süß erquickt;

Ich kann die Wohltat nicht vergelten.

ROCCO leise zu Leonore, die er beiseite zieht.

Ich labt’ ihn gern, den armen Mann,

Es ist ja bald um ihn getan.

LEONORE für sich.

Wie heftig pochet dieses Herz,

Es wogt in Freud’ und scharfem Schmerz.

FLORESTAN für sich.

Bewegt seh ich den Jüngling hier,

Und Rührung zeigt auch dieser Mann.

O Gott, du sendest Hoffnung mir,

Daß ich sie noch gewinnen kann.

LEONORE.

Die hehre, bange Stunde winkt,

Die Tod mir oder Rettung bringt.

ROCCO.

Ich tu, was meine Pflicht gebeut,

Doch haß ich alle Grausamkeit.

LEONORE leise zu Rocco, indem sie ein Stück Brot aus der Tasche zieht.

Dies Stückchen Brot – ja, seit zwei Tagen

Trag ich es immer schon bei mir.

ROCCO.

Ich möchte gern, doch sag ich dir,

Das hieße wirklich zu viel wagen.

LEONORE.

Ach!

Schmeichelnd.

Ihr labtet gern den armen Mann.

ROCCO.

Das geht nicht an, das geht nicht an.

LEONORE wie vorhin.

Es ist ja bald um ihn getan.

ROCCO.

So sei es – ja, so sei’s – du kannst es wagen.

LEONORE in größter Bewegung Florestan das Brot reichend.

Da, nimm das Brot – du armer Mann!

FLORESTAN Leonores Hand ergreifend und an sich drückend.

O Dank dir, Dank! O Dank! O Dank!

Euch werde Lohn in bessern Welten,

Der Himmel hat Euch mir geschickt.

O Dank! Ihr habt mich süß erquickt,

Ich kann die Wohltat nicht vergelten.

LEONORE.

Der Himmel schicke Rettung dir,

Dann wird mir hoher Lohn gewährt.

ROCCO.

Mich rührte oft dein Leiden hier,

Doch Hilfe war mir streng verwehrt.

Für sich.

Ich labt’ ihn gern, den armen Mann,

Es ist ja bald um ihn getan.

LEONORE.

O mehr, als ich ertragen kann!

FLORESTAN.

O daß ich Euch nicht lohnen kann!

Er ißt das Brot.

ROCCO nach augenblicklichem Stillschweigen zu Leonore. Alles ist bereit. Ich gehe, das Signal zu geben. Er geht in den Hintergrund.

LEONORE. O Gott, gib mir Mut und Stärke!

FLORESTAN zu Leonore während Rocco die Türen zu öffnen geht. Wo geht er hin? Rocco öffnet die Türen und gibt durch einen starken Pfiff das Zeichen. Ist das der Vorbote meines Todes?

LEONORE in der heftigsten Bewegung. Nein, nein! Beruhige dich, lieber Gefangener.

FLORESTAN. O meine Leonore! So soll ich dich nie wieder sehen?

LEONORE fühlt sich zu Florestan hingerissen und sucht diesen Trieb zu überwältigen. Mein ganzes Herz reißt mich zu ihm hin! Zu Florestan. Sei ruhig, sag ich dir! Vergiß nicht, was du auch hören und sehen magst, daß überall eine Vorsehung ist. – Ja, ja, es gibt eine Vorsehung! Sie entfernt sich gegen die Zisterne.

Dritter Auftritt

Vorige. Pizarro, vermummt in einen Mantel.

PIZARRO zu Rocco, die Stimme verstellend. Ist alles bereit?

ROCCO. Ja, die Zisterne braucht nur geöffnet zu werden.

PIZARRO. Gut, der Junge soll sich entfernen.

ROCCO zu Leonore. Geh, entferne dich!

LEONORE in größter Verwirrung. Wer? – Ich? – Und Ihr?

ROCCO. Muß ich nicht dem Gefangenen die Eisen abnehmen? Geh, geh!

Leonore entfernt sich in den Hintergrund und nähert sich allmählich wieder im Schatten gegen Florestan, die Augen immer auf Pizarro gerichtet.

PIZARRO beiseite, einen Blick auf Rocco und Leonore werfend. Die muß ich mir noch heute beide vom Halse schaffen, damit alles verborgen bleibt.

ROCCO zu Pizarro. Soll ich ihm die Ketten abnehmen?

PIZARRO. Nein, aber schließe ihn von dem Stein los. Beiseite. Die Zeit ist dringend. Er zieht einen Dolch.

Nr. 14. Quartett

PIZARRO.

Er sterbe! – Doch er soll erst wissen,

Wer ihm sein stolzes Herz zerfleischt.

Der Rache Dunkel sei zerrissen,

Sieh her! Du hast dich nicht getäuscht!

Er schlägt den Mantel auf.

Pizarro, den du stürzen wolltest,

Pizarro, den du fürchten solltest,

Steht nun als Rächer hier.

FLORESTAN gefaßt.

Ein Mörder steht vor mir!

PIZARRO.

Noch einmal ruf ich dir,

Was du getan, zurück;

Nur noch ein Augenblick,

Und dieser Dolch –

Er will Florestan durchbohren.

LEONORE stürzt mit einem durchdringenden Schrei hervor und bedeckt Florestan mit ihrem Leibe.

Zurück!

FLORESTAN.

O Gott!

ROCCO.

Was soll?

LEONORE.

Durchbohren

Mußt du erst diese Brust.

Der Tod sei dir geschworen

Für deine Mörderlust.

PIZARRO schleudert sie fort.

Wahnsinniger!

ROCCO zu Leonore.

Halt ein!

PIZARRO.

Er soll bestrafet sein.

LEONORE noch einmal ihren Mann deckend.

Töt erst sein Weib!

ROCCO UND PIZARRO.

Sein Weib?

FLORESTAN.

Mein Weib!

LEONORE zu Florestan.

Ja, sieh hier Leonoren!

FLORESTAN.

Leonore!

LEONORE zu den anderen.

Ich bin sein Weib, geschworen

Hab ich ihm Trost, Verderben dir!

PIZARRO für sich.

Welch unerhörter Mut!

FLORESTAN zu Leonore.

Vor Freude starrt mein Blut!

ROCCO für sich.

Mir starrt vor Angst mein Blut!

LEONORE für sich.

Ich trotze seiner Wut!

PIZARRO.

Soll ich vor einem Weibe beben?

LEONORE.

Der Tod sei dir geschworen.

PIZARRO.

So opfr’ ich beide meinem Grimm.

Er dringt wieder auf sie und Florestan ein.

LEONORE.

Durchbohren mußt du erst diese Brust!

PIZARRO.

Geteilt hast du mit ihm das Leben,

So teile nun den Tod mit ihm.

LEONORE ihm schnell eine Pistole vorhaltend.

Noch einen Laut – und du bist tot!

Man hört die Trompete von dem Turm.

LEONORE hängt an Florestans Halse.

Ach, du bist gerettet! Großer Gott!

FLORESTAN.

Ach, ich bin gerettet! Großer Gott!

PIZARRO betäubt.

Ha, der Minister! Höll’ und Tod!

ROCCO betäubt.

O was ist das, gerechter Gott!

Man hört die Trompete stärker.

Vierter Aufritt

Vorige. Jaquino. Soldaten mit Fackeln erscheinen an der obersten Gitteröffnung der Treppe.

JAQUINO spricht. Vater Rocco! Der Herr Minister kommt an. Sein Gefolge ist schon vor dem Schloßtor.

ROCCO freudig und überrascht, für sich. Gelobt sei Gott! Zu Jaquino sehr laut. Wir kommen – ja, wir kommen augenblicklich. Und diese Leute mit Fackeln sollen heruntersteigen und den Herrn Gouverneur hinaufbegleiten.

Die Soldaten kommen bis an die Tür herunter. Jaquino geht ab.

LEONORE UND FLORESTAN.

Es schlägt der Rache Stunde!

Du sollst / Ich soll gerettet sein;

Die Liebe wird im Bunde

Mit Mute dich / mich befrein.

PIZARRO.

Verflucht sei diese Stunde!

Die Heuchler spotten mein;

Verzweiflung wird im Bunde

Mit meiner Rache sein.

ROCCO.

O fürchterliche Stunde!

O Gott, was wartet mein?

Ich will nicht mehr im Bunde

Mit diesem Wütrich sein.

Pizarro stürzt ab. Rocco gibt im Abgehen Leonore beruhigende Winke. Soldaten mit Fackeln vorauf.

Fünfter Auftritt

Leonore. Florestan.

FLORESTAN. Meine Leonore! Geliebtes Weib! Engel, den Gott wie ein Wunder zu meiner Rettung mir gesendet, laß an dies Herz dich drücken. Umarmung. Aber dürfen wir noch hoffen?

LEONORE. Wir dürfen es. Die Ankunft des Ministers, den wir kennen, Pizarros Verwirrung und vor allem Vater Roccos tröstende Zeichen sind mir ebenso viele Gründe, zu glauben, unser Leiden sei am Ziele und die Zeit unseres Glückes wolle beginnen.

FLORESTAN. Sprich, wie kamst du hierher?

LEONORE schnell. Ich verließ Sevilla, ich kam zu Fuß in Manneskleidern, der Kerkermeister nahm mich in seine Dienste, dein Verfolger selbst machte mich zum Schließer.

FLORESTAN. Treues Weib! Frau ohnegleichen! Was hast du meinetwegen erduldet!

LEONORE. Nichts, mein Florestan! Meine Seele war mit dir; wie hätte der Körper sich nicht stark gefühlt, indem er für sein besseres Selbst kämpfte?

Nr. 15. Duett

LEONORE.

O namenlose Freude!

Mein Mann an meiner Brust!

FLORESTAN.

O namenlose Freude!

An Leonorens Brust!

BEIDE.

Nach unnennbarem Leide

So übergroße Lust!

LEONORE.

Du wieder nun in meinen Armen!

FLORESTAN.

O Gott, wie groß ist dein Erbarmen!

BEIDE.

O Dank dir, Gott, für diese Lust!

Mein Mann / Weib, mein Mann / Weib an meiner Brust!

FLORESTAN.

Du bist’s!

LEONORE.

Ich bin’s!

FLORESTAN.

O himmlisches Entzücken!

Leonore!

LEONORE.

Florestan.

BEIDE.

O namenlose Freude!

Nach unnennbarem Leide

So übergroße Lust!

Sechster Auftritt

Vorige. Rocco.

ROCCO hereinstürzend. Gute Botschaft, ihr armen Leidenden! Der Herr Minister hat eine Liste aller Gefangenen mit sich; alle sollen ihm vorgeführt werden. Jaquino öffnet die oberen Gefängnisse. Ihr allein Zu Florestan. seid nicht erwähnt. Euer Aufenthalt hier ist eine Eigenmächtigkeit des Gouverneurs. Kommt, folgt mir hinauf. Auch Ihr, gnädige Frau. Und gibt Gott meinen Worten Kraft und lohnt er die Heldentat der edelsten Gattin, so werdet Ihr frei, und Euer Glück ist mein Werk.

FLORESTAN. Leonore!

LEONORE. Durch welche Wunder!

ROCCO. Fort, zögert nicht! Oben werdet ihr alles erfahren. Auch diese Fesseln behaltet noch. Gott gebe, daß sie Euch Mitleid erflehen und dem Grausamen angelegt werden, der Euch so viele Leiden bereitete.

Alle drei ab.

Verwandlung

Paradeplatz des Schlosses mit der Statue des Königs

Siebenter Auftritt

Die Schloßwachen marschieren auf und bilden ein offenes Viereck. Dann erscheint von der Seite der Minister Don Fernando, von Pizarro und Offizieren begleitet. Volk eilt herzu. Von der andern Seite treten, von Jaquino und Marzelline geführt, die Staatsgefangenen ein, die vor Fernando niederknien.

Nr. 16. Finale

CHOR der Gefangenen und des Volkes.

Heil sei dem Tag, Heil sei der Stunde,

Die lang ersehnt, doch unvermeint,

Gerechtigkeit mit Huld im Bunde

Vor unsres Grabes Tor erscheint!

FERNANDO.

Des besten Königs Wink und Wille

Führt mich zu euch, ihr Armen, her,

Daß ich der Frevel Nacht enthülle,

Die all umfangen schwarz und schwer.

Nein, nicht länger knieet sklavisch nieder,

Die Gefangenen stehen auf.

Tyrannenstrenge sei mir fern.

Es sucht der Bruder seine Brüder,

Und kann er helfen, hilft er gern.

CHOR.

Heil sei dem Tag, Heil sei der Stunde!

FERNANDO wiederholt.

Es sucht der Bruder seine Brüder,

Und kann er helfen, hilft er gern.

Achter Auftritt

Vorige. Rocco, durch die Wachen dringend, hinter ihm Leonore und Florestan.

ROCCO.

Wohlan, so helfet! Helft den Armen!

PIZARRO.

Was seh ich? Ha!

ROCCO zu Pizarro.

Bewegt es dich?

PIZARRO zu Rocco.

Fort! fort!

FERNANDO zu Rocco.

Nein, rede!

ROCCO.

All Erbarmen

Vereine diesem Paare sich.

Florestan vorführend.

Don Florestan –

FERNANDO staunend.

Der Totgeglaubte,

Der Edle, der für Wahrheit stritt?

ROCCO.

Und Qualen ohne Zahl erlitt.

FERNANDO.

Mein Freund! Mein Freund! Der Totgeglaubte? –

Gefesselt, bleich steht er vor mir.

ROCCO UND LEONORE.

Ja, Florestan, Ihr seht ihn hier.

ROCCO Leonore vorstellend.

Und Leonore –

FERNANDO noch mehr betroffen.

Leonore?

ROCCO.

Der Frauen Zierde führ ich vor.

Sie kam hierher –

PIZARRO.

Zwei Worte sagen –

FERNANDO.

Kein Wort!

Zu Rocco.

Sie kam –

ROCCO.

dort an mein Tor

Und trat als Knecht in meine Dienste

Und tat so brave, treue Dienste,

Daß ich – zum Eidam sie erkor.

MARZELLINE.

O weh mir, was vernimmt mein Ohr!

ROCCO.

Der Unmensch wollt’ in dieser Stunde

Vollziehn an Florestan den Mord.

PIZARRO in größter Wut.

Vollziehn mit ihm!

ROCCO auf sich und Leonore zeigend.

Mit uns im Bunde!

Zu Fernando.

Nur Euer Kommen rief ihn fort.

CHOR sehr lebhaft.

Bestrafet sei der Bösewicht,

Der Unschuld unterdrückt.

Gerechtigkeit hält zum Gericht

Der Rache Schwert gezückt.

Pizarro wird auf einen Wink Fernandos von der Wache abgeführt.

FERNANDO zu Rocco.

Du schlossest auf des Edlen Grab,

Jetzt nimm ihm seine Ketten ab –

Doch halt! – Euch, edle Frau, allein,

Euch ziemt es, ganz ihn zu befrein.

LEONORE nimmt die Schlüssel, löst in größter Bewegung Florestan die Ketten ab; er sinkt in Leonores Arme.

O Gott! – Welch ein Augenblick!

FLORESTAN.

O unaussprechlich süßes Glück!

FERNANDO.

Gerecht, o Gott, ist dein Gericht!

MARZELLINE UND ROCCO.

Du prüfest, du verläßt uns nicht.

ALLE.

O Gott! o welch ein Augenblick!

O unaussprechlich süßes Glück!

Gerecht, o Gott, ist dein Gericht,

Du prüfest, du verläßt uns nicht!

CHOR.

Wer ein holdes Weib errungen,

Stimm’ in unsern Jubel ein!

Nie wird es zu hoch besungen,

Retterin des Gatten sein.

FLORESTAN.

Deine Treu’ erhielt mein Leben,

Tugend schreckt den Bösewicht.

LEONORE.

Liebe führte mein Bestreben,

Wahre Liebe fürchtet nicht.

CHOR.

Preist mit hoher Freude Glut

Leonorens edlen Mut.

FLORESTAN vortretend und auf Leonore weisend.

Wer ein solches Weib errungen,

Stimm’ in unsern Jubel ein!

Nie wird es zu hoch besungen,

Retterin des Gatten sein.

LEONORE ihn umarmend.

Liebend ist es mir gelungen,

Dich aus Ketten zu befrein.

Liebend sei es hoch besungen:

Florestan ist wieder mein!

CHOR.

Wer ein holdes Weib errungen,

Stimm’ in unsern Jubel ein!

Nie wird es zu hoch besungen,

Retterin des Gatten sein.

LEONORE.

Liebend sei es hoch besungen:

Florestan ist wieder mein!

ALLE ÜBRIGEN.

Nie wird es zu hoch besungen,

Retterin des Gatten sein.

Charles Baudelaire – Die Blumen des Bösen

Charles Baudelaire

Die Blumen des Bösen (Auswahl)

(Les Fleurs du Mal)

Spleen und Ideal

Der Albatros.

Oft fängt die Mannschaft auf den Schiffen zum Vergnügen

Sich Albatrosse ein, Seevögel kühnbeschwingt,

Die still und ruhevoll auf ihren weite Zügen

Dem Fahrzeug folgen, wie es durch die Salzflut dringt.

Sobald auf das Verdeck sie die Gefangnen bringen,

So hängen voller Scham, verstört und ungeschickt,

Die Kön’ge des Azurs die mächtgen, weißen Schwingen

Wie Ruder rechts und links, hinschleifend und geknickt.

Der Wandrer, leicht beschwingt, daß er die Luft durchschweife,

Wie häßlich ist er nun, wie plump, verhöhnt und schwach.

Der eine kitzelt ihm den Schnabel mit der Pfeife,

Der andre macht im Spott sein lahmes Wanken nach.

Der Dichter ist der Fürst der stolzen Wolkenthrone,

Der Bogenschützen trotzt und lacht des Seesturms Wehn;

Doch hindern auf dem Land, umringt von lautem Hohne,

Die Riesenflügel den Gewaltigen am Gehn.

Erhebung.

Hoch über den Bergen, hoch über den Meeren,

Den Wäldern, den Talen, den Wolken, der Flur,

Der flammenden Sonne, dem weiten Azur,

Hoch über den Reichen der sternigen Sphären,

Beschwingst du, mein Geist, dich, und tief in der Brust,

Wie ein Schwimmer, den schwellend die Wogen umgleiten,

Fühl froh ich, durchfurchend unendliche Weiten,

Eine unaussprechliche, männliche Lust,

Entfliehe fern in die reineren Düfte,

Befreit von dem Dunst, der betäubend und krank,

Und schlürfe als hellen und göttlichen Trank

Das klare Feuer der ewigen Lüfte.

Weit hinter des Grams und des Trübsinns Gebiet,

Die das irdische Leben in Nebel verschlingen –

Glückselig der, der mit kräftigen Schwingen

Zu strahlenden, heitren Gefilden entflieht,

Dessen Geist, wann die Lichter des Morgens erglühten,

Wie die Lerche aufsteigend den Himmel durchschweift,

Der das Sein überfliegend mühlos begreift

Die Sprache der stummen Welt und der Blüten.

Zusammenhänge.

Lebendgem Tempel gleicht das Wesen der Natur,

Aus seinen Säulenreihn tönt tief geheimes Flüstern,

Durch Wälder geht der Mensch, wo Zeichen ihn umdüstern,

Die stillvertrauten Blicks verfolgen seine Spur.

Geheim verschmelzend wie das Echo fernster Klüfte,

In großer Einheit und voll dunkeltiefer Macht,

Weit wie des Äthers Glanz und die gewaltge Nacht,

Antworten Töne rings und Farben sich und Düfte.

Gerüche sind, wie Duft, der über Kindern ruht,

Grün wie die Wiesen, sanft wie der Hoboen Klingen,

Und andre, die verderbt, reich und voll stolzer Glut,

Still atmend in der Kraft von unbegrenzten Dingen,

Wie Ambra, Benzoe und fremden Weihrauchs Flut,

Stolz tönend den Triumph von unsrem Geist und Blut.

Die Leuchttürme.

Rubens, Gefild der Rast, Strom der Vergessenheiten,

Ein Ruhbett blühnden Fleischs und doch von Liebe leer,

Darin das Leben wogt in ruhelosen Weiten,

Wie im Azur die Luft und wie das Meer im Meer.

Da Vinci, Spiegel, draus sich tiefe Träume heben,

Wo selger Engelschar stillfrohes Lächeln glänzt,

Die in geheimem Duft das Schattenland durchschweben,

Das sich mit Gletschern und mit schlanken Pinien kränzt.

Rembrandt, ein Armenhaus, von Murmeln bang verdüstert,

Wo aller Schmuck der Wand ein Kruzifix allein,

Wo weinendes Gebet aus Schmutz und Lumpen flüstert,

Die kalt und hart durchstrahlt ein winterlicher Schein.

Buonarotti, Nacht, wo in des Dunkels Schweigen

Sich Herakles’ Gestalt mit Christusbildern mengt,

Wo Riesenwesen starr der Dämmerung entsteigen

Und die gestreckte Hand das Leichentuch zersprengt.

Der Faunen freche Glut, des Faustkampfs zornig Toben,

Du, dem aus schmutzgem Troß die Schönheit sich gebar,

Hinfällger, gelber Mann, das Herz von Stolz gehoben,

Puget, gramvoller Fürst im Reich der Sträflingsschar.

Watteau, ein Karneval, wo manche edle Herzen

Wie Schmetterlinge irrn in wechselvollem Glanz,

Gewande, leicht und bunt, erhellt von tausend Kerzen,

Die die Verzückung sprühn dem tollen Wirbeltanz.

Goya, ein schwerer Traum, wo Finsternisse zürnen,

Geburten, die man kocht in zaubertrunkner Wut,

Im Spiegel alte Fraun und junge, nackte Dirnen,

Die Strümpfe glättend, schön für der Dämonen Glut.

Ein Blutsee, Delacroix, mit bösen Engelscharen,

Beschattet durch ein Holz von Fichten, ewig grün,

Wo in vergrämter Luft fremd tönende Fanfaren

Gleich einem Seufzerhauch von Weber fern verglühn.

Dies Lästern, dieser Fluch, dies Weh von Klagesängen,

Dies Heulen, dies Tedeum, dieser wilde Schmerz,

Sie sind ein Widerhall aus tausend irren Gängen,

Ein göttlich Opium für unser sterblich Herz.

Es ist ein Ruf, den man durch tausend Wachen kündet,

Es ist ein Losungswort, das tausendfach erschallt,

Es ist ein Leuchtturm, der auf tausend Festen zündet,

Ein Schrei von Jägern ists, verirrt im großen Wald.

Denn klarer kann sich, Herr, kein Zeugnis offenbaren,

Das unsrem innern Wert je eine Stimme leiht,

Als dieser glühnde Schrei, der rollt von Jahr zu Jahren

Und sterbend untergeht am Rand der Ewigkeit.

Die kranke Muse.

Was, arme Muse, hast du diesen Morgen? sprich!

Noch bebt dein hohler Blick vom Traum, der dich bedrängte,

Abwechselnd breiten bleich auf deinem Antlitz sich

Wahnsinn und Schreck, der stumm und eisig dich beengte.

War es ein grüner Elf, ein rot Gespenst, das dich

Mit Liebe oder Furcht aus seiner Urne tränkte?

War es ein schwerer Traum, der herb und fürchterlich

In einem zaubrischen Minturnä dich versenkte?

Ich wollte, es enthaucht’ den Duft gesunder Kraft

Dein Busen, der stets neu Gedanken formt und schafft,

Es flöss dein christlich Blut in Rhythmen auf und nieder.

Wie mannigfaltiges Getön antiker Lieder,

Da, wo mit Phöbus, dem die Sangkunst untertan,

Vereint, der Ernte Herr regiert, der große Pan.

Der schlechte Mönch.

In alten Klöstern sah auf den gewaltgen Mauern

Die Wahrheit man gemalt in heilgem Strahlenkleid,

Das Herz erwärmte sie den büßenden Beschauern

Und milderte den Frost der strengen Frömmigkeit.

Als damals Christi Saat gesproßt aus Segensschauern,

Nahm mancher Mönch, des Ruhm verlöscht ist durch die Zeit,

Zu seiner Werkstatt sich des Grabfelds ernstes Trauern

Und feierte den Tod mit schlichter Einfachheit.

Mein Herz ist eine Gruft. Ein schlechter Mönch durcheile

Seit Ewigkeiten ich den Raum, wo trüb ich weile,

Kein Bild verschönt mir des verhaßten Klosters Wand.

O tatenloser Mönch! Wann wird es mir gelingen,

Dem schmerzensreichen Spiel des Lebens abzuringen

Der Augen Labsal und die Arbeit meiner Hand!

Der Feind.

All meine Jugend war ein Sturm von Wetterschlägen,

Nur hier und dort durchflammt von hellem Sonnenlicht;

So viel vernichteten der Donner und der Regen,

Daß wenig Früchte man in meinem Garten bricht.

Nun, da der Herbst mir schon berührt der Seele Schauen,

Da Hark und Schaufel ich zu schwerer Arbeit hub,

Muß überschwemmt Gefild ich mühsam neu bebauen,

Wo Löcher grabestief der Sturz des Wassers grub.

Und wer mag sagen, ob den Blumen, die ich träume,

In diesem Boden, der zerspült wie wüste Räume,

Geheimer Saft auch wird, der ihre Kräfte nährt?

O Schmerz! O Schmerz! Die Zeit verschlingt all unser Leben,

Dem dunklen Feinde, der uns stumm am Herzen zehrt,

Muß unser eignes Blut stets neue Stärke geben!

Unstern.

Wer solche Last zu heben sinnt,

Braucht, Sisyphus, deine Stärke

Und hat er Herz auch zum Werke –

Die Kunst ist lang, die Zeit entrinnt.

Fern von prangenden Sarkophagen

Zieht zu einsamem Gräberreich

Mein Herz, verhülltem Trommler gleich,

Den letzten Grabmarsch zu schlagen.

Manch Kleinod schläft im Grund versteckt,

Wo niemals es ein Karst entdeckt,

Wo Nacht und Vergessen sich breiten;

Manch eine Blume füllt die Luft

Umsonst mit süßgeheimem Duft

In der Tiefe der Einsamkeiten.

Vorleben.

Ich wohnte lange Zeit in weiten Säulengängen,

Um die vielfältger Glanz von Meeressonnen weht.

Mit hohen Pfeilern, stolz und voll von Majestät,

Sahn sie am Abend gleich basaltnen Grottenhängen.

Die Woge, drin das Bild der Himmel kommt und geht,

Verwob geheimnisreich in feierlichen Sängen

Den mächtigen Akkord von ihren reinen Klängen

In Abendgluten, die mein spiegelnd Aug erspäht.

Dort habe ich gelebt in stiller Wollust Lächeln,

In Wellen, in Azur, in flüssgen Glanz versenkt,

Mit nackten Sklaven, die von Wohlgeruch getränkt

Die Stirne mir gekühlt mit ihrer Palmen Fächeln,

Und deren einzig Tun sie nur vertiefen hieß

Mein weh Geheimnis, das mein Herz verschmachten ließ.

Der Mensch und das Meer.

Auf immer, freier Mensch, wirst lieben du das Meer,

Dein Spiegel ist das Meer. Du schaust der Seele Bildnis

Im weiten Wellenspiel der ungeheuren Wildnis,

Gleich ihm ist deine Brust von Bitternissen schwer.

Gern schaust dein Bild du, das die Wellen dir enthüllen,

Mit Auge und mit Arm faßt du es, und dein Herz

Vergißt wie trunken oft den eignen lauten Schmerz

Bei dieses Klagesangs unzähmbar wildem Brüllen.

Schweigsam und dunkel seid ihr beide allezeit:

Mensch, noch drang keiner je in deine tiefsten Gründe,

Meer, noch fand keiner je den Reichtum deiner Schlünde,

So bergt ihr euren Hort in finstrer Heimlichkeit.

Jahrtausende hindurch rollt euer nimmermüder

Und mitleidsloser Kampf bar jeder Reue fort.

So sehr liebt beide ihr die Schlachten und den Mord,

O ewges Kämpferpaar, o nie versöhnte Brüder!

Don Juan in der Hölle.

Als Don Juan genaht den unterirdschen Fluten,

Und als er den Obol an Charon gab, ergriff

Stolz wie Anthistenes, im Auge finstre Gluten,

Ein Bettler starken Arms die Ruder in dem Schiff.

In Fetzen das Gewand, die schlaffen Brüste hängend,

Wand sich der Frauen Schar in schwarzer Himmel Pein,

Schlachtopfern gleich, gequält, zuhauf sich angstvoll drängend,

Und wild umheulte ihn ihr langgezognes Schrein.

Voll Spott rief Sganarelle nach dem verheißnen Lohne,

Don Luis wies im Kreis der Toten längs dem Strand

Mit greiser Zitterhand nach dem verruchten Sohne,

Der sein ergrautes Haar zu höhnen sich verwand.

Keusch bebt’ in tiefem Gram die magere Elvire

Und schien vom treulosen Gemahl, den sie geliebt,

Ein Lächeln zu erflehn, süß wie die ersten Schwüre,

Die bang in zarter Glut die junge Liebe gibt.

Ein großer Mann von Stein, sein voll Gewaffen zeigend,

Stand an dem Steuer, das die schwarze Flut durchquert’;

Jedoch der stille Held, auf sein Rapier sich neigend,

Sah in den Strom und hielt nichts seines Blickes wert.

Die Schönheit.

Schön bin ich, Sterbliche, gleich einem Traum von Steine,

Und meine Brust, die nichts als Wunden euch gebracht,

Erfüllt des Dichters Sinn mit einer Liebe Macht,

Die stumm ist wie der Stoff und strahlt in starrer Reine.

Gleich einer Sphinx thron ich in blauer Lüfte Wehn,

Schnee ist mein Herz, mein Leib weiß wie des Schwans Gefieder,

Bewegung bleibe fern dem stillen Ruhn der Glieder:

Nie wirst du weinen mich und niemals lachen sehn.

Wißt, daß die Dichter vor den mächtigen Gebärden,

Die ich den Statuen leihe, stolz und schicksalsschwer,

Mich zu betrachten Herz und Sinn verzehren werden;

Mein sind, stets zu erhöhn der Liebenden Begehr,

Zwei Spiegel, drin verschönt sich alle Dinge malen:

Die Augen, groß und weit, die ewge Klarheit strahlen.

Das Ideal.

Nie wird die Zierlichkeit der Schönen aus Vignetten,

Verdorbne Kinder, die ein krank Jahrhundert trug,

Die Füße, die verschnürt, die Hand mit Kastagnetten

Befriedigen ein Herz wie meins mit ihrem Lug.

Gavarni, der Poet der Blässe, feire seine

Gezierten, flüsternden Geschöpfe vom Spital,

Doch ist in dieser Schar von bleichen Rosen keine,

Die je erreichen mag mein rotes Ideal.

Was meinem Herzen ich, dem abgrundtiefen, wähle,

Bist Lady Macbeth du, im Mord gewaltge Seele,

Ein Traum des Aeschylos, entsprossen frostgem Grund;

Du, Michelangelos erhabne Nacht, die schweigend

Seltsam gewendet liegt, in herber Ruhe zeigend

Die Reize, die geformt für der Titanen Mund.

Die Riesin.

Zur Zeit, als die Natur, von wilder Kraft durchdrungen,

Gewaltge Kinder trug, hätt ich nach meinem Sinn

Bei einer Riesin gern gelebt, bei einer jungen,

Wie eine Katze streicht um eine Königin.

Wie Leib und Seele ihr bei grimmem Spiel erblühten

Und wuchsen, hätt ich gern erschaut von Anbeginn,

Erspäht, wie in der Brust ihr finstre Flammen glühten

Und Nebel traumhaft zog durch ihre Augen hin.

Mit Muße hätte ich erforscht die prächtgen Glieder,

Gestiegen wäre ich die stolzen Kniee nieder,

Und oft im Sommer, wann der Sonnen kranker Strahl

Sie müde hingestreckt quer durch die weiten Wiesen,

Hätt ich geschlummert in der Brüste Schattental,

Gleich wie ein friedlich Dorf am Fuß von Bergesriesen.

Fremdlandischer Duft.

Enthaucht im Herbsttag mir, der müd sein Aug’ geschlossen,

Dein Busen warmen Duft, so fühl ich mich entrafft

Zu seligem Gestad, beglückt und märchenhaft,

Von ewgem Sonnenglanz einförmig übergossen.

Ein träges Eiland, wo, dem üppgen Grund entsprossen,

Manch seltner Baum erblüht und Früchte, reich an Saft,

Und Männer, deren Wuchs schlank und voll sehnger Kraft,

Und Frauen, deren Blick von stolzem Glanz umflossen.

Geführt durch deinen Hauch zu schönrer Himmel Glut,

Schau einen Hafen ich, wo Mast und Segel ruht,

Noch müde vom Gewog der Meereswelle bebend.

Indes der Duft, der von den Tamarinden schwelt

Und in die Nüster dringt, die Lüfte rings belebend,

In meiner Brust sich mit der Schiffer Sang vermählt.

[Ich bete dich an wie des Nachthimmels Schauer].

Ich bete dich an wie des Nachthimmels Schauer,

O große Stumme, o Urne der Trauer!

Und lieb nur heißer dich, weil, Schöne, du mich fliehst,

Und weil, Stern meiner Nacht, voll Hohn du niedersiehst

Und spöttisch lächelnd scheinst die große Kluft zu weiten,

Die mich getrennt hält von den blauen Ewigkeiten.

Ich stürme zum Angriff, ich klettre hinauf,

Wie zu Leichen sich hindrängt der Würmer Hauf,

Und lieb dich, grausam Tier, ob auch dein Stolz mich höhne,

Im kalten Glanz, durch den nur größer deine Schöne.

[In ihrer Kleider Flut, perlmutterfarb und weich].

In ihrer Kleider Flut, perlmutterfarb und weich,

Scheint es, daß selbst das Gehn zum Tanze sie gestaltet,

Den langen Schlangen der geweihten Gaukler gleich

Sich ringelnd um den Stab, der ihrer Künste waltet.

Dem öden Sand gleich und des Wüstenhimmels Glut,

Für jedes Mitgefühl des Menschenleids erkaltet;

Schau, wie gleich dem Gewog der schaumgekrönten Flut

In träger Ruhe sie gleichgültig sich entfaltet!

Der Augen Schimmer ist von kaltem Mineral.

In diesem seltsamen Geschöpfe will uns scheinen,

Daß reiner Engel und antike Sphinx sich einen.

Von ihr, die nichts als Gold, Licht, Diamant und Stahl,

Glänzt, unnütz wie ein Stern im fernen Ätherblauen,

Die kalte Majestät der unfruchtbaren Frauen.

Das Aas.

Weißt du, mein Herz, noch, was im lichten Morgenscheine

Wir jenen Sommertag entdeckt:

Ein schändlich Aas, nicht weit vom schmalen Wegesraine,

Auf Kieselsteinen hingestreckt.

Die Beine in der Luft, wie liederliche Frauen,

Vom Strome glühnder Gifte voll,

Ließ es voll Lässigkeit und ohne Scham uns schauen

Den Leib, dem grauser Stank entquoll.

Die Sonne strahlte auf die ekle Fäulnis nieder,

Die ihre Glut zu kochen schien,

Als gäbe hundertfach sie der Natur das wieder,

Dem einst sie eine Form verliehn.

Der Himmel schaute nach dem wundersamen Aase,

Wie es sich blütengleich erschloß,

So fürchterlich war der Geruch, daß auf dem Grase

Fast eine Ohnmacht dich umfloß.

Die Fliegen summten um die modernden Atome,

Indes gedrängt und schauerlich

Der Larven ekle Schar, in schwerem, schwarzem Strome

Durch die lebendgen Fetzen schlich.

Das alles senkte sich und knisterte verquellend

Und stieg, wie sich die Woge hebt,

Man meinte beinah, daß von fremdem Hauche schwellend

Der Leib vervielfacht aufgelebt.

Und dieser Welt entrann ein Tönen, seltsam klingend,

Wie Wind und Wasser es erregt,

Gleichwie von Körnern, die der Landmann rhythmisch schwingend

Im Siebe schüttelt und bewegt.

Die Form verwischte sich zu einem Traum, der fahler

Als eine flüchtge Skizze war,

Die auf vergeßnem Blatt ergänzt wird, die dem Maler

Aus der Erinnrung sich gebar.

Und eine Hündin sah aus felsigem Geklippe

Unruhig, mit erzürntem Blick,

Nur die Gelegenheit erspähend, vom Gerippe

Zu reißen sich ein neues Stück.

Und dennoch wirst du gleich der eklen Fäulnis werden,

Ganz so zerstört und grauenhaft,

Du meiner Augen Stern, du Sonne mir auf Erden,

Mein Engel, meine Leidenschaft!

So wirst du aussehn, wann, o Kön’gin holder Güte,

Du nach der letzten Ölung gehst

Dorthin, wo unter üppgem Kraut und reicher Blüte

Bei den Gerippen du verwest.

Dann, meine Schöne, sprich zum Wurm, der dich erlesen

Und dem dein Leib zum Küssen lieb,

Daß prangende Gestalt und unvergänglich Wesen

Mir von entstellter Liebe blieb!

De profundis clamavi.

Du, die ich liebe, hör mich um dein Mitleid flehen,

Vom Grund der finstren Schlucht, in die mein Herz versank.

Voll Gram ist diese Welt, ihr Himmel bleich und krank,

Drin Schreck und Lästerung durch böses Dunkel wehen.

Ein kalter Sonnenball kreist dort sechs Monde lang,

Und die sechs andern deckt uns Nacht mit schwarzem Schilde.

Das Land ist nackter als des Nordpols Eisgefilde,

Nicht Bäche, Herden nicht, nicht Wald noch Wiesenhang.

Kein Grauen gibt es auf der Welt, das an die bleiche,

Erstarrte Grausamkeit der eisgen Sonne reiche,

Und an dies Dunkel, wie das Chaos uferlos.

Mich füllt mit heißem Neid der ärmsten Tiere Los,

Weil sie im stumpfen Schlaf vergessen Schmerz und Plage;

So langsam dreht sich ab die Spindel meiner Tage.

Verspätete Reue.

Wann, dunkle Schöne, einst du in der Gruft wirst rasten,

Auf der getürmt und kalt ein schwarzer Marmor liegt,

Und wann du statt im Pfühl, in den du weich geschmiegt,

In feuchter Höhle ruhst, im Grabe, im verhaßten,

Und wann die Blöcke schwer auf banger Brust dir lasten

Und auf den Hüften dir, die lasse Anmut biegt,

Wann länger nicht dein Herz verlangend pocht und fliegt,

Die Füße länger nicht nach Abenteuern hasten –

Dann wird das Grab, dem ich der Träume Last vertraut,

– Mich deucht, daß nur das Grab des Dichters Sehnsucht ahne –

Die langen Nächte, da kein Schlummer niedertaut,

Dir raunen: Was nun hilfts, gleichgültge Courtisane,

Daß du, was Tote noch beweinen, nicht gewußt?

Und grimm wie Reue nagt der Wurm dir deine Brust.

Die Katze.

Komm, schöne Katze, und schmiege dich

An mein Herz, halt zurück deine Kralle.

Laß den Blick in dein Auge tauchen mich,

In dein Aug’ von Achat und Metalle.

So oft dich mein Finger gemächlich streift,

Deinen Kopf und Rücken zu schmeicheln,

Und träumende Lust meine Hand ergreift,

Die magnetischen Glieder zu streicheln,

Schau ich im Geist meine Frau. Der Strahl

Ihres Blicks, mein Tier, gleicht dem deinen,

Ist tief und kalt wie ein schneidender Stahl.

In schmiegsamem Spiel haucht den feinen,

Gefährlichen Duft, wie Schmeichelgruß,

Ihr brauner Leib von Kopf zu Fuß.

Duellum.

Zwei Krieger stürzen aufeinander; ihre Klingen

Durchstieben rings die Luft mit Funken und mit Blut.

Dies Spiel, dies Klirren ist das lärmerfüllte Ringen

Der Jugend, die verzehrt von wilder Liebesglut.

Gleich unsrer Jugend bricht das Eisen vor den Schlägen,

Geliebte! Doch der Zahn, der Nagel, der sich wehrt,

Rächt den Verrat des Dolchs und den zerbrochnen Degen.

O Wut der reifen Brust, in der die Liebe schwärt.

In einen Abgrund, wo die Panther spukhaft schleichen,

Rolln unsre Kämpfenden, in tückschem Sturz gefällt.

Wie Blüten hängt ihr Fleisch an dürren Dorngesträuchen.

Die Höll ist dieser Schlund, die unsre Freunde hält.

Laß, ehrne Kämpferin, uns reulos niedergleiten,

Daß unser Haß erglüht durch alle Ewigkeiten!

Der Balkon.

Quell der Erinnerung, du Liebste aller Lieben,

O du, all meine Lust, o du, all meine Pflicht!

Ist dir Gedenken an der Küsse Glück geblieben.

An Wärme des Kamins, an gütig Abendlicht?

Quell der Erinnerung, du Liebste aller Lieben!

Die Abende erhellt von sanfter Kohlenglut,

Die Dämmrung vom Balkon in rosger Lüfte Wehen –

Wie war dein Busen süß, wie war dein Herz mir gut!

Wir sagten Dinge uns, die nimmermehr vergehen,

Die Abende erhellt von sanfter Kohlenglut.

Wie sind die Sonnen schön im warmen Abendblauen,

Wie mächtig ist das Herz, wie weit und tief die Luft!

Ich neigte mich zu dir, o Königin der Frauen,

Mir war, als atmete ich deines Blutes Duft.

Wie sind die Sonnen schön im warmen Abendblauen!

Die Nacht war um uns her, wie stiller Zelle Raum,

Durchs Dunkel riet mein Blick noch deiner Augen Süße,

Und deinen Hauch trank ich – o Gift, o selger Traum!

In brüderlicher Hand entschliefen deine Füße.

Die Nacht war um uns her, wie stiller Zelle Raum.

Neu wecken kann ich mir der holden Zeit Gebilde,

Mein einstig Leben, das in deinem Schoß versenkt.

Wo sucht’ ich anders wohl solch müder Schönheit Milde,

Die nicht dein lieber Leib, dein gütig Herz geschenkt?

Neu wecken kann ich mir der holden Zeit Gebilde!

Die Schwüre, dieser Duft, die Küsse ohne Zahl,

Erstehn aus Schlünden sie, die unsrem Suchen wehren.

Wie Sonnen aufwärts fliehn mit siegverjüngtem Strahl,

Wann sich ihr Schimmer wusch im Grund von tiefen Meeren?

O Schwüre, Düfte ihr! O Küsse ohne Zahl!

Der Besessene.

Die Sonne überzog ein Schleier. Wie ihr Strahl,

O meines Lebens Mond, hüll dich in warme Schatten;

Umwölk dich oder schlaf! Sei stumm, und im Ermatten

Vergeh und sinke in der Leere nächtig Tal!

So lieb ich dich! Doch wenn du heut mit einem Mal,

Wie Sterne neu erglühn, die sich verdunkelt hatten,

Der Tollheit deinen Glanz zu schauen willst gestatten,

So ist es gut! Entfahr der Scheide, scharfer Stahl!

Entzünde deinen Blick an tausend Kerzenlichtern,

Entzünde die Begier in fühllosen Gesichtern!

Nur Lust kommt mir von dir, Kraft oder Müdigkeit;

Sei alles, was du willst, schwarz Dunkel, rote Frühe,

Kein Nerv ist mir im Leib, der nicht erbebt und schreit:

Mein Fürst Beelzebub! Du bists, für den ich glühe!

Das Porträt.

In Asche lassen Tod und Krankheit sinken

Die stolze Glut, die einst uns licht umfing.

Von dieser großen Augen süßem Blinken,

Von diesem Mund, daran mein Herz verging,

Von diesen Küssen, hold wie Balsamschauer,

Von dieser Flamme, stark wie Strahl des Lichts,

Was ist geblieben? Sag, mein Herz! – o Trauer!

Ein blasser Schattenriß und weiter nichts.

Wer stirbt wie ich, getrennt von allen Dingen,

Und wen die Zeit, zerstörend und ergreist,

An jedem Tage schlägt mit rauhen Schwingen …

Du, die uns Kunst und Leben niederreißt,

Du wirst sie nie mir töten im Gedächtnis,

Sie, meine Lust und meines Ruhms Vermächtnis!

[Dir weihe ich mein Lied, daß, wenn zum blassen Strand].

Dir weihe ich mein Lied, daß, wenn zum blassen Strand

Der fernsten Zeiten sich mein Name einst gefunden

Und Menschen träumen macht in abendlichen Stunden,

Ein Schiff, vom großen Wehn des Nords dahingesandt,

Dein Angedenken gleich verblichnen Fabelkunden,

Wie einer Trommel Klang, den müden Leser bannt,

Durch ein geheimnisvoll und brüderliches Band

An meinen stolzen Reim auf immerdar gebunden;

Verworfner Geist, zu dem vom höchsten Lichtrevier

Bis in die tiefste Nacht nichts redet außer mir!

O du, der schattengleich, mit Spuren, die verfließen,

Leichtfüßig niedertrittst, im Blicke hellen Schein,

Die stumpfen Menschen, die im Groll dich bitter hießen,

Geschöpf mit ehrner Stirn und Augen von Gestein!

Semper eadem.

Wer hat dir, fragtest du, dies fremde Weh gegeben,

Dem Meere gleich, das sich an schwarzen Klippen bricht?

– Hat unser Herz einmal geerntet, ist das Leben

Nur noch ein Leiden! Fremd ist dies Geheimnis nicht,

Es ist ein schlichter Schmerz, der nicht in Nacht verhüllt ist

Und deiner Freude gleich sich ruhig zeigen will.

Drum frag nicht, Schöne, die von Neugier ganz erfüllt ist!

Sei deiner Stimme Klang auch lieblich, schweige still!

Schweig still, Unwissende, die nichts als Freude findet,

Du kindlich froher Mund! Mehr als das Leben bindet

Mit feinen Fäden uns gar oft des Todes Graun.

Die Lüge laß ins Herz mir Trunkenheit enthauchen,

Laß in dein Aug mich wie in schöne Träume tauchen,

Und schlummern lange Zeit im Schatten deiner Brau’n!

[Welch Lied wird, einsam Herz, heut abend dir enttönen?].

Welch Lied wird, einsam Herz, heut abend dir enttönen?

Was wirst du sagen, mein verdorrt und arm Gemüt,

Zu ihr, der Guten, Teuren, Strahlend-Schönen,

Vor deren heitrem Blick die Seele neu erblüht?

All unser Stolz soll sein, ihr hohes Lob zu singen,

Nichts gleicht an Güte ihr und anmutvoller Macht,

Und ihr durchgeistet Fleisch haucht Duft wie Engelsschwingen,

Ihr Auge webt um uns ein Kleid von Licht und Pracht.

Sei’s in der Einsamkeit, wo nächtig Dunkel lastet,

Sei’s in der Straße, wo die Menge ruhlos hastet,

Ihr Bild tanzt in der Luft, wie glüher Fackel Schein.

Oft spricht es: Ich bin schön, euch soll der Liebe Sonne

Durchglühn, daß ihr um mich die Schönheit liebt allein;

Schutzengel bin ich euch und Muse und Madonne!

Geistiges Morgenrot.

Wann an des Wüstlings Pfühl vereint mit bittrem Wehe

Der rosig-weiße Schein der Frühe neu erwacht,

So ists, als ob, geweckt durch rächerische Macht,

Ein Engel wundersam im satten Tier erstehe.

Geahnter Himmel Zelt in fernentrücktem Blau

Vertieft sich und verlockt wie eines Abgrunds Schatten

Den Menschen, der noch träumt in leidendem Ermatten.

So, göttlich Wesen, du, lichthelle, zarte Frau,

Schwebt auf der dumpfen Lust zerfallnen grauen Trümmern

Vor meinen Blicken, die sich weiten, immerdar

Dein hold Gedenken, rosig, mild und klar.

Der Sonne Feuer schwärzt der Kerzen nächtig Flimmern;

So, lichte Seele, ist, verklärt und strahlenreich,

Dein sieggewohntes Bild der ewgen Sonne gleich.

Harmonie des Abends.

Nun naht die Zeit, da mit der Stengel leisem Schwingen

Der Blume Weihrauch steigt, wie Duft des Opferbrands.

Getön und Düfte drehn in abendlichem Tanz,

Sehnsüchtger Schwindelflug und schwermutvolles Klingen.

Der Blume Weihrauch steigt wie Duft des Opferbrands;

Wie ein betrübtes Herz erbebt der Geigen Singen;

Sehnsüchtger Schwindelflug und schwermutvolles Klingen!

Gleich einer Ruhstatt ist der Himmel müder Glanz.

Wie ein betrübtes Herz erbebt der Geigen Singen,

Ein zärtlich Herz, das Feind des dunklen Totenlands!

Gleich einer Ruhstatt ist der Himmel müder Glanz;

Ein starrend Blutmeer scheint die Sonne zu verschlingen …

Ein zärtlich Herz, das Feind des dunklen Totenlands,

Wahrt jede Lichtspur sich aus Stunden, die vergingen!

Ein starrend Blutmeer scheint die Sonne zu verschlingen …

Dein Angedenken strahlt in mir wie die Monstranz!

Das Gift.

Der Wein läßt aus dem Schmutz der ärmsten Hütte blühen

Ein Schloß, das herrlich blinkt,

Und manch Portal erstehn, das feenhaft uns winkt

In seiner Dünste goldnem Glühen,

Wie eine Sonne, die in Nebelhimmeln sinkt.

Das Opium vermehrt, was ohne alle Schranken,

Dehnt die Unendlichkeit,

Höhlt der Genüsse Rausch, vertieft den Strom der Zeit,

Mit finstrer Lust und Nachtgedanken

Füllt und erschöpft es schier der Seele Faßbarkeit.

Das alles kommt nicht gleich dem Gift, dem wunderbaren,

In deiner Augen grünem Schein,

Den Seen, drin spiegelnd mir sich zeigt mein ganzes Sein …

Die Träume nahen sich in Scharen,

Und dieser bittre Quell stillt ihres Durstes Pein.

Das alles kann nicht an der Lippen Feuchte reichen,

Die mich mit Wermut speist,

Die in Vergessen senkt den reuelosen Geist

Und schwindelnd im Erbleichen

Zum Schattenstrand des Tods die Seele niederreißt.

Trüber Himmel.

Durch Schleier scheint dein Auge zu glühn,

Das geheimnisreich – ist es blau oder grün? –

Im Wechsel träumerisch, grausam und weich,

Den Äther spiegelt, so müde und bleich.

Du bist wie ein warmer, weißschleiernder Tag,

Da die Seele in Tränen sich lösen mag,

Wann, erwacht in der Qual, die ihr Tiefstes zerreißt,

Die Nerven verspotten den schlummernden Geist.

Du gleichst einem lieblichen Horizont,

Den der Himmel nebliger Tage besonnt,

Wie milde du leuchtest, gefeuchtete Flur,

Von Strahlen durchglüht aus verhülltem Azur.

O gefährliches Weib! O verführerisch Land!

Hält auch dein Schnee und dein Frost mich gebannt.

Daß vom fühllosen Winter Freuden ich weiß,

Die durchdringender noch als Stahl und als Eis?

Das schöne Schiff.

Ich sage, Mädchen, dir, mein zauberisch Entzücken!

Die Reize mannigfalt, die deine Jugend schmücken,

Und malen will ich deine Pracht,

Wo Zartheit eines Kinds aus reifer Schönheit lacht.

Wann sacht du gehst, die Luft mit weiten Röcken fegend,

Bist du ein schönes Schiff, das langsam sich bewegend

Aussegelt in der See Geroll,

In einem Takt gewiegt, der träg und ruhevoll.

Auf deinem runden Hals, auf deiner Schulter Prangen

Trägst du dein stolzes Haupt, von seltnem Reiz umfangen.

Triumph im Blick und sanfte Ruh,

Kind voller Majestät, gehst deines Weges du.

Ich sage, Mädchen, dir, mein zauberisch Entzücken!

Die Reize mannigfalt, die deine Jugend schmücken,

Und malen will ich deine Pracht,

Wo Zartheit eines Kinds aus reifer Schönheit lacht.

Dein Busen, der sich hebt, geengt von seidnem Flimmer,

Ist einer Lade gleich in seiner Reize Schimmer,

Mit blanker Wölbung, wo das Licht

Wie auf metallnem Schild in hellem Glanz sich bricht.

Verlockend Schilderpaar, mit ros’gen Spitzen prahlend,

Gleich einer Lade, voll von Schätzen, süß und strahlend,

Voll starken Tranks, voll Duft und Wein,

Flößt selge Trunkenheit er Herz und Sinnen ein.

Wann sacht du gehst, die Luft mit weiten Röcken fegend,

Bist du ein schönes Schiff, das langsam sich bewegend

Aussegelt in der See Geroll,

In einem Takt gewiegt, der trag und ruhevoll.

Die edlen Beine, die des Kleides reiche Zierden

Bewegen, stacheln auf die dunkelen Begierden.

Zwei Zauberinnen gleich zu schaun,

Die einen schwarzen Trank in tiefer Urne braun.

Die Arme würden nicht vor jungen Hünen bangen,

Wetteifernd leicht an Kraft mit glatten Riesenschlangen,

Geschaffen, den Geliebten fest

Ans Herz zu drücken, das ihn nie mehr läßt.

Auf deinem runden Hals, auf deiner Schultern Prangen,

Trägst du dein stolzes Haupt, von seltnem Reiz umfangen.

Triumph im Blick und sanfte Ruh,

Kind voller Majestät, gehst deines Weges du.

Verlangen in die Ferne.

Kind und Schwester mein,

Könnten dort wir sein,

Wo das Leben süß uns und reich ist!

Nichts als Liebe sehn,

Lieben und Vergehn

Im Lande, das dir gleich ist!

Trüber Sonnen Licht,

Das durch Schleier bricht,

Gleicht meinem zärtlichen Sehnen,

Wann wunderbar

Dein Augenpaar

Verräterisch leuchtet durch Tränen.

Dort schaust nur Lust und Schönheit du,

Anmut, Pracht und tiefe Ruh.

Leuchtend Hausgerät

Uns im Saale steht,

Verschönt von entschwundenen Jahren.

Seltner Blumen Duft

Will der süßen Luft

Der Ambrawolken sich paaren.

Der Gewölbe Pracht,

Tiefer Spiegel Nacht,

Des Ostens reiches Gepränge,

Alles spräche dort

In flüsterndem Wort

Seiner Heimat liebliche Klänge.

Dort schaust nur Lust und Schönheit du,

Anmut, Pracht und tiefe Ruh.

Sieh, wie auf der Flut

Schiff an Schiff dort ruht,

Die rastlos fernher geschwommen.

Zu erfüllen dir

Jegliche Begier,

Sind vom Ende der Welt sie gekommen.

Des Abendlichts Glut

Ergießt auf die Flut,

Auf die Stadt in dem Flurenkranze,

Hyazinthenen Schein;

Die Welt schläft ein

In warmem goldenem Glanze.

Dort schaust nur Lust und Schönheit du,

Anmut, Pracht und tiefe Ruh.

Unheilbar.

I.

Wer tilgt den alten Fluch der Schuld, der an uns zehrt,

Der sich windet und nimmer will sterben,

Von unsrem Blut sich wie der Wurm von Leichen nährt,

Gleichwie Raupen, die Bäume verderben?

Wer tilgt den alten Fluch der Schuld, der an uns zehrt?

Durch welchen Wein, durch welch Gebräu, durch welche Tränke

Wird der Peiniger eingelullt,

Der Kurtisane gleich voll Gier und finstrer Ränke,

Der Ameise gleich an Geduld?

Durch welchen Wein, durch welch Gebräu, durch welche Tränke?

Sags, schöne Zauberin, o sag es, wenn dirs kund,

Diesem Geist, den die Ängste umkrampfen,

Dem Sterbenden, bedeckt von Leichen, todeswund,

Den der Pferde Hufe zerstampfen,

Sags, schöne Zauberin, o sag es, wenn dirs kund,

Sag es dem Röchelnden, den Wölfe schon umlauern,

Den krächzend der Rabe umschwirrt,

Sags dem Zertrümmerten, daß er in Todesschauern

Verzagt, daß ein Grabmal ihm wird;

Dem armen Röchelnden, den Wölfe schon umlauern!

Wird je ein Himmel blühn, der schwarz wie Schlamm und tot?

Und kannst du zerreißen das Dunkel,

Das zäh wie Pech, und wo kein Früh- noch Abendrot,

Nicht Blitze noch Sternengefunkel?

Wird je ein Himmel blühn, der schwarz wie Schlamm und tot?

Der Hoffnung Licht, das aus der Herberg aufgeglommen,

Verlosch, da kaum wirs gewahrt!

Wie sollen ohne Mond noch Strahl zur Pforte kommen

Die Dulder der bösen Fahrt?

Der Satan losch das Licht, das hell uns aufgeglommen!

Liebst, holde Zauberin, du der Verdammten Qual,

Kennst du des Unheilbaren Schmerzen?

Den Fluch der alten Schuld mit seinem giftgen Stahl,

Den er stößt in unsere Herzen?

Liebst, holde Zauberin, du der Verdammten Qual?

Unwiederbringliches nagt mit verruchtem Bisse

Unsres Geistes zerbrechliches Haus,

Und den Termiten gleich frißt es geheime Risse

In die Fundamente des Baus.

Unwiederbringliches nagt mit verruchtem Bisse!

II.

In einem Schauspielhaus voll abgeschmackter Pracht,

Das der Lärm des Orchesters durchgellte,

Sah ich, wie eine Fee aus tiefer Höllennacht

Ein wundersam Frührot erhellte;

In einem Schauspielhaus voll abgeschmackter Pracht

Sah ich, wie ein Geschöpf, das Licht war, Gold und Gaze,

Den riesigen Satan bezwang;

Jedoch mein Herz, das nie gelöst wird in Ekstase,

Ist ein Theater, das endlos lang

Auf das Geschöpf harrt mit dem Flügelpaar von Gaze.

Gespräch.

Du bist ein Herbstazur, in leisem Rot verblutend!

Jedoch die Traurigkeit steigt in mir wie die See,

Und auf den Lippen läßt allmählich rückwärts flutend

Sie ihres salzgen Schlamms erinnrungsbittres Weh.

Du legst die Hand umsonst auf meines Busens Beben,

Der Tempel, den du suchst, sank, Liebe, längst in Staub.

Der Frauen Krall und Zahn nahm alles mir im Leben,

Nicht suche mehr mein Herz, es ward der Tiere Raub.

Mein Herz ist ein Palast, vom wilden Hauf geschändet,

Der drin sich tötet, packt und tobt, berauscht und roh …

O welchen süßen Duft dein nackter Busen spendet!

O Schönheit! Geißel, die uns schlägt! Du willst es so!

Mit deinem Feuerblick, dem festlich-glanzverklärten,

Verbrenn die Fetzen, die die Tiere nicht verzehrten.

Lied des Herbstes.

I.

Bald tauchen fröstelnd wir ins kalte Dunkel nieder;

Lebt, schnelle Sommer, wohl, die unser Herz erhellt!

Ich höre schon, wie dumpf mit finstrem Schalle wieder

Das Holz erdröhnend auf der Höfe Pflaster fällt.

In meinen Busen kehrt des Winters herb Bedrängnis,

Zorn, Schauer, Schrecken, Haß und Arbeit, scharf und hart,

Gleichwie der Sonnenball in seinem Eisgefängnis

Ist bald mein Herz ein Block, blutfarben und erstarrt.

Erzitternd höre ich das Fallen aller Scheite;

Der Bau des Blutgerüsts tönt nicht so hoffnungslos.

Mir ist, als ob mein Geist ein Turm sei, der im Streite

Zertrümmert hinsinkt vor des Sturmbocks wuchtgem Stoß.

Gewiegt durch diesen Schall, eintönig und verschwommen,

Deucht mir, daß einen Sarg in großer Hast man baut …

Für wen? – Der Sommer ging. Nun ist der Herbst gekommen!

Gleich einem Abschied tönt der rätselhafte Laut.

II.

Wie sehr lieb, Schöne, ich den sanften, grünen Schimmer

Aus deinen Augen, doch scheint alles heut mir schwer,

Und nichts, nicht deine Lieb, der Herd nicht, noch dein Zimmer

Ist wie die Sonne mir, die leuchtet über Meer.

Und dennoch liebe mich mit mütterlicher Süße,

Mag ich auch undankbar und bösen Sinnes sein;

Lieb oder Schwester, sei der Duft der späten Grüße,

Ein Herbst in Strahlenpracht, ein müder Sonnenschein.

Bald ists getan. Schon harrt auf mich des Grabes Kühle!

O laß auf deinen Knien mein Haupt ruhn noch einmal

Und fühlen, trauernd um des weißen Sommers Schwüle,

Der späten Jahreszeit gesänftigt-goldnen Strahl!

An eine Madonna.

Ex-voto in spanischem Geschmack.

Dir, Herrin, will ich baun, Madonna meiner Schmerzen,

Verborgenen Altar in meinem tiefsten Herzen,

Dir in des Busens Nacht errichten einen Thron,

Fern weltlicher Begier und kalter Blicke Hohn,

In einer Nische von Azur und goldnem Flitter,

Wo einem Standbild gleich du lächelst durch das Gitter,

Das meine Verse dir geschmiedet aus Metall,

Das wunderbar geschmückt mit Reimen von Kristall.

Dein sei ein Diadem, das leuchtet wie die Sonne.

In meiner Eifersucht, o sterbliche Madonne,

Will ich umkleiden dich mit starren Mantels Pracht,

Barbarisch, steif und schwer, gepanzert mit Verdacht,

Der einer Rüstung gleich den schönen Leib umschimmert

Und nicht von Perlen, nein, von meinen Tränen flimmert,

Mein Sehnen sei dein Kleid, das bebend sich dir neigt,

Mein Sehnen, wellengleich, das niedersinkt und steigt.

Sich wiegend auf den Höhn, im Tal nach Rast verlangend,

Den weiß und rosgen Leib mit einem Kuß umfangend.

Aus Ehrfurcht wirk ich dir der Seidenschuhe Paar

Und bring den Füßen sie, den göttergleichen, dar,

Daß dich umschließend sie in einer zärtlich-leisen

Umarmung mir getreu der Füße Abbild weisen.

Und kann trotz aller Kunst, der ich von je gewohnt,

Ich nicht als Schemel dir verleihn den Silbermond,

Leg ich die Schlange, die mir grimm das Herz zerbissen,

Zu Füßen dir, daß du gleich einer sieggewissen,

Hilfreichen Königin, stolz lächelnd niedertrittst

Das Ungetüm, das Haß und giftgen Geifer spritzt.

Dir will ich, Königin der Jungfraun, all mein Denken

Vor blumigem Altar gleich Weihekerzen schenken,

Auf daß besternend sie erhellter Wölbung Blaun

Nach dir nur allezeit mit Flammenaugen schaun.

Wie meine Wünsche all um dich bezaubert irren,

Wird alles Oliban und Benzoe und Myrrhen;

Zu dir, verschneit Gebirg, hebt still und feierlich

Mein sturmesdunkler Geist in Weihrauchwolken sich.

Daß du das Ebenbild der Jungfrau mögest scheinen,

Will glühnde Liebe ich mit Grausamkeit vereinen,

Todsünden wähl ich mir in heilger Siebenzahl,

Ein reuger Henker schärf ich Dolche draus von Stahl,

Und einem Gaukler gleich in seelenlosem Spiele

Nehm deiner Liebe tiefst Geheimnis ich zum Ziele,

Und ich stoß sie ins Herz dir, das zuckend vor Schmerz,

In dein schluchzendes Herz, in dein rieselndes Herz!

Sisina.

Denkt euch Diana, wie im Jagdgeleite prangend

Sie durch die Wälder streift und durch das Dickicht fegt,

Im Winde Brust und Haar, lärmtrunken, nie erbangend,

Daß nicht im Laufe sie den schnellsten Renner schlägt!

Und saht ihr Théroigne, wie sie nach Blut verlangend

Ein barfuß Volk zum Sturm aufs Fürstenschloß erregt,

Wie blanken Schwerts sie – Aug und Wange Feuer fangend –

Ihr rascher Fuß empor die Königsstufen trägt?

So die Sisina. Doch der sanften Heldin Milde

Ist nicht geringer, als ihr Mut, der mördrisch-wilde.

Ihr Geist, von Trommelschlag und Pulverdampf berückt,

Streckt seine Waffen vor der Flehnden bangen Qualen,

Und immer hat ihr Herz, von wilder Glut durchzückt,

Für den, der würdig ist, des Mitleids Tränenschalen.

An eine Kreolin.

In duftumhauchtem Land, in fremden Sonnenreichen

Sah unter Bäumen, die ein Purpurglanz umrinnt,

Wo Schlaf von Palmen tropft, Traumregen zu vergleichen,

Ich eine Dame, die ein Zauber fremd umspinnt.

Der Schönen zierem Hals, dem Angesicht, dem bleichen,

Entleuchtet stolzer Reiz, der Herzen ihr gewinnt.

Gleich schlanker Jägerin scheint sie durchs Land zu streichen,

Ihr Aug ist klare Ruh, ihr Lächeln stumm-gelind.

Kämt, Herrin, Ihr dereinst zum wahren Ruhmeslande,

Zur grünen Loire und zum milden Seinestrande,

Wert, daß entschwundner Zeit Paläste euch empfahn,

Zu euch dann, die umhegt von schattger Stille, flehten

Sonette, reich erblüht im Herzen der Poeten,

Die euren Augen mehr als Schwarze untertan.

Das Gespenst.

Den bösen Engeln zu vergleichen

Will ich zu deinem Lager schleichen,

Zurück dir kehrend, heimlich-sacht,

Im Schattenspuk der grauen Nacht.

Und Küsse geb ich dir, du Süße,

Kalt wie des Mondes Strahlengrüße,

Wie einer Schlange Schmeichelein,

Sich ringelnd um der Grüfte Stein.

Im Morgenlicht, im dämmerblassen,

Siehst meine Stätte du verlassen,

Die kalt bleibt bis zum Abendgraun.

Wie andre Jugend dir und Leben

Beherrschen, die dir Liebe geben,

Will ich dein Herr sein durch das Graun!

Herbstsonett.

Es sagt mir deines Augs kristallenhelle Zier:

Was tat, seltsamer Freund, ich wohl dir zu Gefallen?

Sei anmutvoll und schweig! Mein Herz, das feind ist allen,

Nur nicht der Frau von einst, die einfach wie ein Tier,

Zeigt nun und nimmermehr sein schlimm Geheimnis dir,

Dir, deren Hand mich lädt in stumme Traumeshallen,

Noch auch die Glutschrift, wie ich tief dem Gram verfallen,

Ich hasse Leidenschaft, und Geist ist Plage mir.

Drum laß uns lieben sacht. Aus ihrem Machtgebiete

Hält ihren Bogen schon die Liebe stumm gespannt.

Ihr drohend Arsenal ist mir gar wohl bekannt.

Wahnsinn und Graun – gleich mir, o Wiesenmarguerite,

Bist eine Sonne du, die herbstlich-bleich entschwand,

O meine weiße, meine kalte Marguerite.

Trauer Lunas.

Heut nacht ruht Luna aus, von müdem Traum umschmeichelt,

Wie eine Schönheit sich in reiche Kissen schmiegt

Und mit zerstreuter Hand hingleitend leise streichelt

Des Busens Linien, eh der Schlummer sie besiegt.

Auf der Lawinen Pfühl, der glänzt in seidnem Lichte,

Läßt sie ersterbend sich in Ohnmacht untergehn

Und lenkt ihr Auge auf die weißen Traumgesichte,

Die Blütenkelchen gleich fern im Azur erstehn.

Wann diesem Erdball sie, in ihrem müßgen Sehnen,

Verstohlen spendet eine ihrer Tränen,

So nimmt ein Dichter, der des Schlummers Bann verscheucht,

Die Träne in die Hand mit ihrem bleichen Strahle

Und birgt sie, flimmernd gleich zersprungenem Opale,

Im Herzen, ferne von des Sonnengotts Geleucht.

Die Eulen.

Geschirmt von schwarzen Eibenbäumen,

Sitzt stumm der Eulen Schwarm gereiht,

Wie fremde Götzen grauer Zeit

Ihr rotes Auge glüht. Sie träumen.

So halten sie sich regungslos,

Bis zu der Stunde still verbleibend,

Da schrägen Sonnenstrahl vertreibend

Die Nacht sich breitet; schwarz und groß.

Dem Weisen lehrt die Ruhgebärde,

Daß er mit Recht auf dieser Erde

Lärm und Bewegung fürchten mag.

Den Menschen, den ein Nichts erregte,

Trifft stets der Strafe harter Schlag,

Daß er vom Platze sich bewegte.

Die Musik.

Die Musik zieht oft mich hin wie ein Meer,

Meinen Stern, meinen bleichen,

Im weiten Ather, wie in Nebeln trüb und schwer

Im Kahn zu erreichen;

Die Brust im Wind und die Lungen geschwellt,

Die Sturmsegeln gleichen,

Ersteig ich die Welle, die hochbäumt und fällt,

In den nächtigen Reichen.

Ich fühl in mir all den zitternden Krampf,

Wie ein Schiff seine Wunde,

Den günstigen Wind, der Orkane Kampf

Auf unendlichem Schlunde.

Dann wieder spiegelt mir die Fläche still und weit

Mein verzweifelt Leid.

Ein phantastischer Stich.

Statt allem Kleiderprunk hat dies gewandberaubte,

Entsetzliche Phantom auf seinem Knochenhaupte

Ein gräßlich Diadem, wie es zum Fasching paßt.

Ohn Sporn und Peitsche treibt in atemloser Hast

Es ein gespenstig Roß, apokalyptisch-düster,

Das Fallsuchtskranken gleich Schaum sprüht aus seiner Nüster.

Den großen Weltenraum durchqueren sie zu zweit

Und stampfen kühnen Tritts die Unermeßlichkeit.

Der Reiter schwingt ein Schwert, das Feuerflammen wettert

Auf die Legionen, die der Huf des Pferds zerschmettert,

Und reitet, wie ein Fürst, der sein Gebiet beschaut,

Durch eisges Grabfeld, das kein Horizont umblaut.

Dort wesen, hingestreckt in fahlem Sonnenlichte,

Die Völker neuer und antiker Weltgeschichte.

Der freudige Tote.

Schwer soll der Grund und reich an Schnecken sein,

Wo meine Gruft zu schaufeln ich begehre,

Daß dort zum Schlaf sich streckt mein alterndes Gebein

Und im Vergessen ruht gleich wie der Hai im Meere.

Ich hasse Testamente, Grab und Stein,

Und von der Welt erbettl ich keine Zähre;

Nein, lieber lüde ich den Schwarm der Raben ein,

Damit er stückweis mein verwesend Aas verzehre.

O Würmer! Schwarz Geleit ohn Auge, ohne Ohr!

Ein Abgeschiedner kommt, der froh den Tod erkor.

Ihr Söhne des Zerfalls, die dem Genusse leben,

Durch meine Trümmer kriecht mit reuelosem Mut

Und sagt mir: kann es wohl noch eine Folter geben

Für den entseelten Leib, der tot bei Toten ruht?

Die zersprungene Glocke.

Wohl ist es herb und süß in langer Winternacht,

Wann durch den trüben Rauch die Flammen flackernd dringen,

Zu lauschen, wie Erinnern fern erwacht

Heim Klang der Glocken, die im Nebelmeere singen.

Glückselge Glocke siegender Gewalt!

Von der trotz ihres Alters über Welten

Stark und getreu der heilge Ruf erschallt,

Dem grauen Krieger gleich, der wacht in den Gezelten.

Jedoch mein Herz zersprang, und wenn sein gramvoll Lied

In tiefer Pein die Luft der kalten Nacht durchzieht,

So gleicht sein schwacher Ruf dem bangen Röcheln dessen,

Den man an einem See von dunklem Blut vergessen,

Von Leichen ganz bedeckt, in fürchterlichem Krampf,

Und der nun reglos stirbt trotz ungeheurem Kampf.

Spleen.

Der Regenmonat strömt, verfeindet allem Leben,

Aus seiner Urne Guß ein Dunkel frostergraut

Des Kirchhofs bleicher Schar im kalten Dämmerweben

Und Sterben auf die Stadt, in der der Nebel braut.

Es regt am Estrich sich in fröstelndem Erbeben

Die magre Katze, die nach einem Lager schaut,

Verstorbnen Dichters Geist fühl im Getropf ich schweben,

Mit eines irrenden Gespenstes Klagelaut.

Der dumpfe Brummbaß klagt, und rauchger Scheite Knistern

Eint seiner Fistel Ton der Wanduhr heisrem Flüstern,

Derweil im Kartenspiel, von schmutzgem Duft getränkt,

Der eklen Erbschaft einer wassersüchtgen Alten,

Sich leis Piquedame und Cœrbube unterhalten

Und einstgen Liebesglücks ihr Herz trübselig denkt.

Spleen.

Mir ist, als hätte ein Jahrtausend ich geschaut.

Nie barg ein Schrank, darin der Akten Flut gestaut,

Wo Liebesbriefe sich, Urkunden, Blätter schichten,

Mit Haaren, die verpackt in Scheine, mit Gedichten,

Mehr Heimlichkeiten, als mein Hirn, mein müdes, kennt.

Es ist ein Königsgrab, ein Riesenmonument;

Nicht eine Massengruft bedeckt so viele Leichen.

Ich bin ein Kirchhof, der geflohn vom Mond, dem bleichen,

Durch den die Würmer ziehn wie scharfer Reue Pein

Und meinen Teuersten zernagen das Gebein.

Ich bin ein alt Gemach, wo welke Rosen sterben,

Wo in der Jahre Rauch Gewande sich verfärben,

Pastelle wehmutvoll und Bouchers, wie getaucht

In fahle Düfte, die ein offen Fläschchen haucht.

Nichts währt so lange wie der lahmen Tage Stocken,

Wann vor der schneegen Zeit rastlosen schweren Flocken

Die Langeweile, die aus trüber Stumpfheit kam,

Die schreckliche Gestalt der Ewigkeiten nahm.

Nun bist, belebter Staub, allein und unbeachtet,

Du ein Granit, um den ein dumpf Entsetzen nachtet,

Entschlummert wie im Dunst der Wüsten Afrikas,

Gleich einer Sphinx, die längst der nichtge Mensch vergaß,

Die keine Karte nennt, und die vom Gram umsponnen

Ihr grimmes Lied nur singt im Strahl der Abendsonnen.

Spleen.

Dem König eines Lands, das regnerisch und kalt,

Gleich’ ich, reich aber schwach, jung und doch schon sehr alt.

Der voll Verachtung für der Höflingsschar Geziere.

Laß seiner Hunde ist wie aller andren Tiere.

Nichts kann erheitern ihn, nicht Falk noch Jägertroß,

Ja nicht einmal sein Volk, das stirbt vor seinem Schloß.

Des Lieblings-Narren wild-phantastische Gedanken

Entwölken längst nicht mehr die Stirn des Grausam-Kranken.

Zum Sarge wandelt sich sein Lager, reichgeschmückt.

Des Hofes Damen, die ein jeder Fürst entzückt,

So schamlos ihre Tracht, wills ihnen nicht gelingen,

Dem jungen Gramskelett ein Lächeln abzuringen.

Der weise Alchimist, der Gold gewann für ihn,

Kann nicht aus seiner Brust die schlimmen Gifte ziehn.

Und in den Bädern Bluts, die einstmals Rom erfunden

Für Mächtge dieser Welt in späten Lebensstunden,

Wird seinem Leichnam nicht erneute Kraft. Statt Blut

Rinnt durch die Adern ihm des Lethe grüne Flut.

Spleen.

Wann wie ein Deckel sich der Himmel tief gesenkt hat

Auf unsern Geist, den bang die Leere seufzen macht,

Wann er den Horizont umschattet und umschränkt hat

Und schwarzen Tag ergießt, der trüber als die Nacht;

Wann wie ein feucht Verließ das Erdall auf uns lastet,

Darin die Hoffnung gleich geschreckter Fledermaus

Mit angstbeschwingtem Flug längs dunkler Mauer hastet

Und sich den Kopf stößt am Gewölb des dumpfen Baus;

Wann grau der Regenflut Gießfäden niederrinnen

Gleich eines Kerkerraums gewaltger Gitterwand,

Und wann ein stummes Volk von unheilvollen Spinnen

Im Grunde unsres Hirns verruchte Netze spannt,

Dann springen Glocken auf in wütendem Erbeben

Und senden ihr Geheul dem Himmel schrecklich zu,

Wie fremde Geister, die geächtet irrend schweben

Und quälend Klaggetön ausstöhnen ohne Ruh.

Und Leichenzüge, stumm, kein trauernd Grablied singend,

Ziehn langsam durch mein Herz; die Hoffnung siegberaubt,

Flieht weinend, und die Angst, entsetzlich, allbezwingend,

Pflanzt ihre Fahne schwarz auf mein gesenktes Haupt.

Bedrückung.

Ihr großen Wälder schreckt mich tief wie Kathedralen;

Ihr braust wie Orgeln, und in unsren Herzen all,

Grabkammern ewgen Leids, voll Röchelns alter Qualen,

Antwortet eures De profundis Widerhall.

Dich haß ich, Ozean! Dein Toben und Erdröhnen

Fühlt in sich selbst mein Geist! Dies Lachen bittrer Wut

Des unterlegnen Manns, voll von Geschluchz und Höhnen,

Ich hör es im Gelach der ungeheuren Flut.

Wie liebte ich dich, Nacht, ohn dieses Sterngefunkel,

Das heimlich zu mir spricht mit alt-bekanntem Schein!

Denn Leere suche ich und Finsternis allein!

Jedoch ein Vorhang ist das schauervolle Dunkel,

Wo wohlvertrauten Blicks, aus meinem Hirn entschwebt,

Die ungezählte Schar entschwundner Wesen lebt.

Die Liebe zum Nichts.

Geist, dem einst höchste Lust ein kriegrisch-froh Beginnen –

Die Hoffnung, deren Sporn dem Mut zu Hilfe kam,

Treibt dich nicht länger an! Streck hin dich ohne Scham,

Roß, dessen greiser Huf kein Ziel mehr mag gewinnen.

In stumpfem Schlaf ertränk verzweifelnd Herz und Sinnen.

Besiegter, müder Geist! Du Bettler, alt und zahm,

Fühlst weder Lust zum Streit noch Lieb im Herzen drinnen;

Lebt, Flötenseufzer, wohl, die zärtlich mich umspinnen!

Versucht, ihr Freuden, nicht ein Herz voll dunklem Gram!

Tot ist des Frühlings Duft, der süß mich überkam!

Und schleichend zehrt mich auf der Stunden qualvoll Rinnen,

Wie Schnee, der einen Leib in eisge Fänge nahm;

Den Erdball schaut mein Geist, erstarrt und flügellahm,

Und sucht nicht einen Schutz, dem Wirbel zu entrinnen!

Lawine, reißt du mich in deinem Sturz von hinnen?

Alchimie des Schmerzes.

Der eine flößt seine Glut dir ein,

Dem andern, Natur, bist du nur Trauer!

Was einem flüstert: Grabesschauer!

Spricht zum andern: Lebendiger Schein!

Du Hermes, der mit seinen Listen

Noch nie von mir Bedrücktem wich,

Zu Midas Abbild machst du mich,

Dem traurigsten der Alchimisten.

Durch dich verwandl ich Gold zu Erz

Und Edens Lust in Höllenschmerz;

In dem Grabtuch der Wolkendüfte

Schaut teuren Leichnams Bild mein Herz,

Und in selgen Ufers Geklüfte

Erbau ich gewaltige Grüfte.

Anziehendes Grausen.

Bei dem Himmel bleich und zerrissen,

Den das Unheil foltert wie dich,

Was fühlst in den Finsternissen

Deiner Brust du? Lüstling, sprich!

Voller Gier nach dem Ungewissen,

Werde niemals mit Tränen ich

Die Paradiese vermissen,

Wie Ovid, als von Rom er wich.

Ihr verwüsteten Himmelsräume,

Zu euch schaut mein Stolz empor!

Eurer Wolken trauernder Flor

Gleicht dem Leichenzug meiner Träume,

Und der Hölle entstammt euer Schein,

Wo mein Herz sich wohl fühlt allein!

Das Gebet eines Heiden.

Laß nicht diese Gluten verschwelen!

Erstarrende Kälte, entflieh!

Wollust, du Folter der Seelen!

Diva! supplicem exaudi!

Du Flamme, im Tiefsten geboren,

Göttin, die die Lüfte durchdringt,

Erhöre ein Herz, das erfroren

Einen ehernen Sang dir singt.

Du, Königin, bleibe mein Sehnen!

Verbirg dich im Leib der Sirenen,

Der leuchtet in samtenem Schein,

Oder schenke im mystischen Wein

Mir des tiefen Schlummers Genesen,

O Wollust, veränderlich Wesen!

Der Deckel.

Wo er auch weilen mag, zu Land wie auf dem Meere,

In heißer Tropenglut, auf weißbesonntem Firn,

Mag er als Jesu Knecht, als Höfling der Cythere,

Als finstrer Bettelmann, als schlauer Krösus irrn,

Und ob er seßhaft ist, ob schweift ins Ungefähre,

Am Land wie in der Stadt, ob rasch, ob träg sein Hirn,

Stets fühlt der Sterbliche des Rätsels dunkle Schwere

Und schaut nach oben nur mit angstgefurchter Stirn.

Der Himmel droben! Ein Gewölb von Kellerwänden,

Voll trüber Lampen, die ihr Licht der Posse spenden,

Wo jedes Mimen Tritt auf blutgen Boden pocht;

Des Klausners Hoffnungsstrahl, des Wüstlings Schreck und Fessel;

Der Himmel! Deckel auf dem ungeheuren Kessel,

In dem schier unsichtbar die große Menschheit kocht.

Der Unerwartete.

An seines Vaters Bett, der ächzt in Todesqual,

Spricht sinnend Harpagon vor diesen spitzen Zügen:

Im Speicher haben in genügend großer Zahl

Wir alte Bretter doch liegen?

Und Celimene gurrt: Mein Herz ist gut und weich,

Und Schönheit gab mir Gott, die mir gar lieb und teuer.

Ihr Herz! Ein hartes Herz, verrauchtem Schinken gleich,

Verdorrt in dem ewigen Feuer.

Ein stumpfer Schreiber, der für einen Geist sich hält,

Sagt zu dem Armen, den er stieß in Wind und Wetter:

Sag an, wo siehst du ihn, den Schöpfer deiner Welt,

Deinen gütigen Herrn und Erretter?

Wohl mehr als alle Welt kenn einen Wüstling ich,

Der, gähnend Tag und Nacht, mit kläglichen Gebärden

Gelobt, der schwache Narr: Ach glaubt mir, sicherlich

Will ich morgen tugendhaft werden.

»Nun ist der Frevler reif« tickt unheilvoll die Uhr,

Umsonst, daß warnend ichs dem kranken Fleische sagte,

Der Mensch ist taub und blind, so schwach sind Mauern nur,

Die ein Wurm bewohnt’ und zernagte.

Und jäh ist Einer da, der stets geleugnet ward,

Und spricht mit stolzem Hohn: »Glaubt nicht, daß ich vergesse,

Wie um die Hostie ihr euch freudig oft geschart,

Zur Feier der schwarzen Messe!

Ein jeglicher von euch gab mir sein Herz zum Thron,

Verruchte, ihr seid mein, durch Küsse tiefabscheulich.

Lernt Satan kennen nun an seinem Siegerhohn,

Wie die Welt gigantisch und greulich!

Bestürztes Heuchlerpack! Wer ist, der glauben kann,

Daß man den Herren höhnt und fängt in einem Netze,

Und daß der Mensch zugleich zwei Preise je gewann,

Den Himmel und irdische Schätze?

Es ziemt sich, daß das Wild bezahlt den Jäger macht,

Der auf dem Anstand lang gelauert auf die Beute,

Nun trage ich euch fort durch sonnenleere Nacht,

Meiner traurigen Lust Geleite,

Durch Erde und Gefels, durch mitternächtges Graun,

Durch einen Aschenhauf zerfallener Gebeine

In mein gewaltig Schloß, aus einem Block gehaun,

Und nicht aus sänftlichem Steine.

Denn ewge Sünde schuf den Bau, und er enthält

Mein Leiden und den Gram, der meinem Stolz verbündet!«

Indes drommetet hoch ob der erstarrten Welt

Ein Engel, der Sieg verkündet,

Von allen, deren Brust des Herren Geißel preist

Und ausruft: Meinen Schmerz schickt, Vater, deine Gnade!

Kein eitel Spielzeug ist in deiner Hand mein Geist,

Unerforschlich sind deine Pfade.

Wie die Trompete süß und feierlich erklingt,

Zur Himmelsernte der geweihten Dämmerungen,

Daß mit Verzückung sie ein jedes Herz durchdringt,

Dessen Loblied sie gesungen.

Mitternächtige Selbsterforschung.

Die Wanduhr kündet Mitternacht,

Als ob sie höhnend uns frage,

Welch einen Gebrauch vom Tage,

Der nun entschwunden, wir gemacht:

Diesen Freitag, den schicksalsschweren,

Den dreizehnten, haben mit Lust

Wir trotz allem, was wir gewußt,

Gelebt, als ob Ketzer wir wären.

Wir lästerten Jesum Christ,

Den göttlichsten aller Götter!

Wie ein Schmarotzer und Spötter,

Der bei verruchtem Krösus ißt,

Wir haben, dem Tier zu behagen,

Der Dämonen Sklavenschar,

Umschmeichelt, was feind uns war,

Und was uns lieb war, geschlagen.

Gleich Henkern haben am Schwachen wir,

Den man unrecht höhnt, uns verschuldigt,

Der Macht der Dummheit gehuldigt,

Die ehrner Stirn ist, wie ein Stier;

Wir küßten des Staubes Dumpfheit

Und gingen ihm ehrfurchtsvoll nach,

Wir priesen der Fäulnis Schmach

In all ihrer bleiernen Stumpfheit.

Dann saßen, um des Schwindels Qual

Zu ertränken in wilder Feier,

Wir stolzen Priester der Leier,

Denen ihr ruhmvoll Amt befahl

Des Dunkels Rausch zu entdecken,

Ohne Hunger genießend beim Schmaus! …

Rasch, löschen die Lampe wir aus,

In der Finsternis uns zu verstecken!

Der Mahner.

Wer irgend wert, ein Mensch zu sein,

Hat eine Natter in der Seele,

Sie gibt ihm wie ein Fürst Befehle,

Und sagt er: »Ja«, so spricht sie: »Nein!«

Willst du in starre Augen schauen

Den Nymphen und den Wasserfrauen,

Der Zahn sagt: »Deiner Pflicht hab acht!«

Pflanz Bäume oder zeuge Söhne,

Gib Vers und Marmor Form und Schöne,

Der Zahn sagt: »Lebst du diese Nacht?«

Was er auch plane und verlange,

In jedem Augenblicke trifft

Den Menschen warnend all das Gift

Der unerträglich-argen Schlange.

Hymne.

Dich, schöne Liebe, schöne Süße,

Dich Engel, der zum Licht mich weiht,

Unsterbliches Idol, dich grüße

Ich glühend in Unsterblichkeit.

Du flutest durch mein ganzes Leben

Gleich einem Seewind, herb und rein,

Und meiner Seele bangem Streben

Flößt du Begehr nach Ewgem ein.

Stets frischer Wohlgeruch, der blühend

Ein lieb Gemach in Düfte taucht,

Vergeßner Weihrauch, der erglühend

Geheim in tiefer Nacht verhaucht!

Wie soll ich nennen dich in Wahrheit,

Demantenreine Liebesglut,

Die in der Seele ewger Klarheit,

Ein Ambrakorn, verborgen ruht?

Dich, schöne Gute, schöne Süße,

Die Kraft und Freude mir verleiht,

Unsterbliches Idol, dich grüße

Ich glühend in Unsterblichkeit.

Der Rebell.

Ein Engel stürzt sich wie ein Aar vom Himmel nieder

Und rauft mit grimmer Faust des Glaubenslosen Haar.

Lern deine Pflicht! ruft er, und schlägt ihm Haupt und Glieder,

Ich will es. Und ich bin dein Engel in Gefahr.

Denn lieben sollst du und sollst nicht dein Herz versperren

All dem, was häßlich, siech, verirrt auf bösem Pfad,

Daß einen Teppich du bei seinem Nahn dem Herren

Siegjubelnd breiten kannst mit mildbarmherzger Tat.

So ist die Liebe. Eh dein Herz dir ganz erkaltet,

Sieh, daß sich deine Glut an Gottes Ruhm entfaltet,

Das ist die wahre Lust, und dauernd wird sie sein.

Und stark, wie sein Begehr, zum Lichte ihn zu führen,

Läßt ihn der Engel grimm die Riesenfäuste spüren,

Doch der Verdammte gibt ihm stets zur Antwort: Nein!

Bertas Augen.

Die schönsten Augen schmähn darf euer hold Gefunkel,

Ihr Augen meines Kinds, drin lieblich ruht und wacht

Ein Etwas, das so gut und selig wie die Nacht!

Ihr Augen, über mich gießt euer süßes Dunkel!

Ihr Kinderaugen weit, geliebt und rätselhaft,

Ihr gleicht dem Zaubertraum verborgner Grottenhallen,

Wo durch die Dämmerung der Schatten, die dort wallen,

Ein magisch Flimmern rinnt von seltner Schätze Kraft.

Mein Kind hat Augen, die tiefdunkel und verklärend,

Wie du, gewaltge Nacht, erhellt, wie du zu schaun!

In ihrem Feuer eint sich Liebe und Vertraun,

Die scheinen tief im Grund, bald schüchtern bald begehrend.

Der Springbrunnen.

Dein Auge, armes Lieb, ermattet,

Die Wimpern senkend ruhe lang

Von müder Anmut überschattet,

Nun dich die Freude ganz bezwang.

Der Springbrunn, der im Hofe flüstert,

Uns Tag und Nacht sein Murmeln schenkt,

Bleibt dem Entzücken hold verschwistert,

In das die Liebe mich versenkt.

Der Strahl, der schlank sich hebend

In Garben blüht,

Drin Phöbe Flimmer webend

So sanft erglüht,

Fällt, Tränen niederbebend,

Im Duft versprüht.

So schwingt, entzündet von dem Funken

Der Lust, die deinen Busen schwellt,

Sich deine Seele kühn und trunken

Zu ferner Himmel Lichtgezelt.

Dann sinkt sie im Vergehen wieder

In einer Flut von bangem Schmerz,

Die unsichtbaren Pfads hernieder

Hinabtropft in mein tiefstes Herz.

Der Strahl, der schlank sich hebend

In Garben blüht,

Drin Phöbe Flimmer webend

So sanft erglüht,

Fällt, Tränen niederbebend,

Im Duft versprüht.

O du, so schön in nächtgen Schatten,

Wie süß hört, über dich geneigt,

Die Klage sich, die ohn Ermatten

Vom Marmorbecken weinend steigt!

Mond, heilges Dunkel, Wasserschauer,

Gezweig, aus dem ein Rauschen quillt –

Die reine Schwermut eurer Trauer

Ist meiner Liebe Spiegelbild.

Der Strahl, der schlank sich hebend

In Garben blüht,

Drin Phöbe Flimmer webend

So sanft erglüht,

Fällt, Tränen niederbebend,

Im Duft versprüht.

Fern von hier.

Dies ist das geweihte Zimmer,

Wo die Schöne, die hier immer

Wartend liegt in Schmuck und Flimmer,

Fächelnd kühlt des Busens Glut

Und gestützt in Kissen ruht,

Lauschend auf den Sang der Flut:

Es sind Dorotheens Räume.

Fern weint das Wasser und der Wind,

Daß ihr schluchzend Lied verschäume

In der verwöhnten Holden Träume.

Vom Kopf zum Fuß umschmiegt gelind

Salböl und Duft der Nardenbäume

Die Glieder diesem zarten Kind,

Das welker Blumen Hauch umrinnt.

Romantischer Sonnenuntergang.

Wie ist die Sonne schön, wann in azurne Räume,

Ein flammendes Geschoß, sie grüßend aufwärts steigt!

Glückselig, wessen Herz sich ihr in Liebe neigt

Bei ihrem Untergang, der prangender als Träume!

Ich denke dran! … Ich sah Quell, Blume, Furche, Feld,

Gleichwie ein zitternd Herz vergehn vor ihren Pfeilen …

Auf nach dem Horizont, es dunkelt, laßt uns eilen,

Damit auf unser Haupt ein später Strahl noch fällt!

Doch folge ich umsonst dem Gotte, der entschwindet;

Die allgewaltge Nacht hat schon ihr Reich begründet,

Die schwarz und unheilvoll das Herz in Schauern löst;

Ein Grabesdunst enthaucht des Dunkels feuchtem Flore,

Indes mein banger Fuß am Rand der finstren Moore

Auf kalte Schnecken und gescheuchte Kröten stößt.

Der Abgrund.

Pascal sah eine Kluft, wo er auch ging und stand.

Ein Abgrund ist das All: Traum, Handlung, Wort, Verlangen!

Wie oft ist über mich der Wind des Schrecks gegangen,

Daß sich mein Haar erhob, von eisger Furcht gebannt.

Die Tiefen und die Höhn, das Graun, das uns umfangen,

Das Drehn des Weltenraums, der stummen Wüsten Land …

Auf meiner Nächte Grund malt Gott mit kundger Hand

Die Schauer eines Traums voll endlos schwerem Bangen.

Ich fürchte mich vorm Schlaf, gleichwie ein Tor man scheut

Zu unbekanntem Land, wo finstrer Schrecken dräut,

Unendlichkeit seh fahl ich durch die Fenster strahlen,

Und meine Seele, die es schwindelt, füllt mit Neid

Das wesenlose Nichts in seiner Einsamkeit.

O! niemals mehr sein als Geschöpfe und als Zahlen!

Klagen eines Ikarus.

Wer die Liebe der Dirnen genossen,

Ist befriedigt und ohne Gram;

Mein Arm ist gebrochen und lahm,

Weil er Wolkengebilde umschlossen.

Das Sternheer, das vom Himmel glüht,

Ist schuld mit seinem seltnen Scheine,

Daß mein geblendet Aug alleine

Erinnerung von Sonnen sieht.

Umsonst wollt ich den Raum durchdringen,

Um End und Mitte zu erspähn;

Ich fühle, rettungslos zergehn

Vor fremdem Glutblick meine Schwingen.

Mich, den verbrannt der Sehnsucht Glut,

Lebendge Schönheit zu erkennen,

Krönt nicht der Ruhm, nach mir zu nennen

Den Abgrund, drin mein Leichnam ruht.

Sammlung.

Sei linde, o mein Schmerz, und sänftige dein Klagen.

Den Abend riefest du, schau seine Wiederkehr:

Aus seinem trüben Dunst siehst du die Stadt entragen,

Den einen ist er süß, den andern sorgenschwer.

Indes die Sterblichen nach niedren Freuden jagen,

Gepeitscht von der Begier, dem Henker mitleidleer,

Und bittre Reue heim vom Sklavenfeste tragen –

Fern ihnen, reich die Hand, mein Schmerz, mir und komm her!

Sieh auf Altanen du des Himmels die entwichnen,

Verstorbnen Jahre in Gewanden, in verblichnen,

Und wie aus Wassern sich die Wehmut lächelnd hebt,

Sich unter einem Tor die Sonne sterbend breitet,

Und wie ein Leichentuch, das weit gen Osten schwebt,

Horch, o Geliebte, horch, der Nacht, die leise schreitet.

Pariser Bilder

Landschaft.

Mich zart und rein zu weihn der Dichtung der Eklogen,

Will ich dem Himmel nah ruhn wie die Astrologen,

Den Glocken nah, daß mir im Traum, der mich umspinnt,

Ihr Feiersang ertönt, dahingeweht vom Wind.

Wann aufgestützten Haupts ich aus der Kammer spähe,

Schau ich der Werkstatt Fleiß und Lärm in meiner Nähe,

Rauchfänge, Türme rings, wie Masten, und dann weit

Den Himmel, der uns gießt den Traum der Ewigkeit.

Wie süß ist es zu schaun, vom Nebelflor umfeuchtet,

Wann im Azur der Stern, das Licht am Fenster leuchtet,

Wie auf zum Firmament der Strom des Rauches fließt

Und wie das Mondlicht bleich Verzückung niedergießt.

Ich werde Frühlingszeit und Herbst und Sommer sehen,

Und wann der Winter kommt mit Schnee und eisgem Wehen,

So schließe Laden ich und Tür, um in der Nacht

Zu bauen herrlich der Paläste Feeenpracht.

Dann werde träumen ich von blauer Fluren Sehnen,

Von Gärten, Marmorglanz, von weinenden Fontänen,

Von Küssen, Vögeln, die uns singen früh und spät,

Von all der Kindlichkeit, die durch Idylle weht.

Der Aufruhr läßt umsonst im Sturm die Scheiben beben,

Ich werde nimmermehr vom Pult mein Haupt erheben,

Weil dann die Freude ganz mein Herz umfangen hält,

Zu schaffen eigner Kraft des Frühlings junge Welt,

Die Sonne aus der Brust zu ziehn und herzulächeln

Aus der Gefühle Glühn der milden Lüfte Fächeln.

Lola de Valence.

Aufschrift für das Gemälde Edouard Manets.

Bei all dem Schönen, das die Augen rings entzückt,

Schwankt, Freunde, wohl der Wunsch, was er zumeist sich wähle;

Doch Lola de Valence erstrahlt gleich dem Juwele,

Das schwarz und rosig blinkt, von seltnem Reiz geschmückt.

An eine rothaarige Bettlerin.

Blaß Mädchen mit dem roten Haar,

Die Armut werden wir gewahr

Durch all die Löcher deines Kleids

Und deinen Reiz.

Dein schmaler Körper zeigt für mich,

Den schwachen, müden Dichter, sich,

Mit Sommersprossen überstreut,

Voll Süßigkeit.

Wie ihre Prunksandalen in

Romanen eine Königin,

So zierlich und gewandt trägst du

Die schweren Schuh.

Statt deiner Lumpen möge dir

Ein Hofgewand in reicher Zier,

Dess’ Falten rauschend niedergehn;

Den Fuß umwehn.

Statt der zerrißnen Strümpfe soll

Dem Blick des Wüstlings anmutvoll

Ein goldner Dolch an deinem Bein

Sprühn lichten Schein;

Daß Schleif und Band, gelöst, zerknüllt,

Für unsre Sünden froh enthüllt

Der schönen Brüste heiter Paar,

Wie Augen klar;

Daß deine schlanken Arme, Kind,

Dich zu entkleiden willig sind

Und leichter Schlag die Hand verjagt,

Die zuviel wagt.

Ein Perlschmuck rein und fehlerlos,

Ein zärtliches Sonett Belleaus

Bringt der Verehrer Sklavenschar

Dir huldgend dar.

Die Helden all der Reimerein,

Die ihre Erstlinge dir weihn,

Bewundern, wie dein leichter Schritt

Die Stufen tritt.

Manch Page, der auf Wagnis sann,

Manch ein Poet und Edelmann,

Sie schicken all ihr Sehnen nach

In dein Gemach.

Es würden auf dem Lager dein

Mehr Küss’ als Königslilien sein,

Manch Valois machte gerne sich

Zum Knecht für dich!

Indessen aber bettelnd ziehst

Durch arme Gassen du und siehst

Nach dem Gerümpel alten Schutts

Im Straßenschmutz;

Und schielst nach Schmuck hin, vielbegehrt,

Der keine zwanzig Pfennig wert,

Den ich dir, rechn es mir nicht an,

Nicht schenken kann.

So geh denn ohne Prunkgewand,

Riechwasser, Perlen, Diamant,

In magrer Nacktheit immerzu,

O Schönste du!

Der Schwan.

An Victor Hugo.

I.

Du bists, Andromache! Dies Flüßchen, das ein grauer

Und armer Spiegel ist, wo einstmals hoheitsvoll

Geglänzt die Majestät all deiner Witwentrauer,

Der falsche Simois, der durch dein Weinen schwoll,

Scheint mir, als ob belebt er mein Gedächtnis hätte,

Als ich hinüberschritt das neue Karussell.

– Das einstige Paris ist hin, die Form der Städte

Verwischt sich, nicht einmal die Liebe stirbt so schnell.

Im Geiste schau ich nur das Feld von Hütten wimmelnd,

Der Kapitale und der Schäfte wirren Wust,

Das Gras, die Blöcke rings, in feuchtem Moose schimmelnd,

Und durch der Fenster Schein den Trödelkram und Grust.

Schaubuden standen dort. Da sah ich in der Frühe,

Zur Zeit, da fröstelnd sich in klarem Morgenduft

Die Arbeit neu erhebt und es uns deucht, als sprühe

Vom Besen wie ein Sturm Staub in die stille Luft,

Wie sich ein Schwan, der, dem Verließ entkommen, schweifte,

Mit breitem Flossenfuß am staubgen Pflaster rieb,

Die weißen Schwingen auf dem rauhen Boden schleifte,

Den Schnabel öffnend vor der Gosse stehen blieb.

Erzitternd badete im Staub er sein Gefieder

Und sprach, das Herz erfüllt vom blauen Heimatssee:

Wann, Wolke, regnest du? Wann fällst, o Blitz, du nieder?

Ich sah des Armen fremd und sagenhaftes Weh.

Zum Himmel reckte er, wie es Ovid gedichtet,

Zum Himmel, blau und hart wie grausam bittrer Spott,

Auf seinem schwanken Hals sein durstig Haupt, als richtet’

In seiner herben Qual Vorwürfe er an Gott!

II.

Paris wird anders, doch in meiner tiefen Trauer

Bleibt alles! Der Paläst’ und der Gerüste Meer,

Die Vorstadt hüllen sich in deutungsvolle Schauer,

Und die Erinnerung liegt auf mir felsenschwer.

So überkommt ein Bild vorm Louvre mich bedrückend,

Dein denk ich, großer Schwan, gequält, fast lächerlich,

Doch wie Verbannte mit Erhabenheit sich schmückend,

Verzehrt von einem Wunsch ohn Ende, und an dich,

Andromache, die, jäh des Gatten Arm entsunken,

Ein Tier, vorm mächtgen Griff des Pyrrhus niederbrach.

An einer leeren Gruft sich beugend, gramestrunken,

Das Weib des Helenus und Hektors Witwe, ach!

Der Negrin denke ich, die krank zum Niedersinken,

Im Schmutze watend und das Auge unverwandt,

Die Palmen sucht, die schlank in Afrika ihr winken,

Durch die gewaltige, endlose Nebelwand;

An jeden, der verlor, was nie, nie seine Augen

Mehr schauen; an die Schar, gestillt vom Tränentrank,

Die an dem Schmerze, wie an gütger Wölfin saugen,

Die magren Waisen, die gleich Blumen welk und krank!

Es tönt das Horn im Wald, in den mein Geist vertrieben,

Ein alt Erinnern mir mit vollgeschwelltem Hauch!

Der Schiffer denke ich, auf fernem Riff geblieben,

Gefangner, Fliehender! … und mancher andern auch!

Die sieben Greise.

An Victor Hugo.

Du volkdurchströmte Stadt, Stadt, wo die Träume schweben,

Wo das Gespenst uns krallt im hellsten Tagesschein!

Die Rätsel fluten rings, gleichwie die Säfte streben

Durch alle Adern, die dem Riesen Kraft verleihn.

An einem Morgen, als in traueröder Gasse

Die Häuser, überhöht vom Nebel, trüb und bleich,

Erschienen wie ein Deich längs mächtger Wassermasse,

Und als Kulisse, die des Mimen Seele gleich,

Ein gelber Nebel rings die Weiten überschwemmte,

Ging ich, gestählter Kraft und hohen Mutes voll,

Mit meiner Seel im Streit, die schon Erschlaffung hemmte,

Die Straße, schütternd von der Karren dumpf Geroll.

Da sah ich einen Greis, der sich mit Lumpen deckte,

– Sie ahmten tiefstes Grau des Regenhimmels nach –

Und dessen Anblick leicht der Wohltat Fülle weckte,

War nicht die Bosheit, die ihm aus den Augen brach.

Sein Augenstern erschien, als ob ihn Galle tränkte,

Aus seinem Blick rann Frost, indessen langgehaart

Sein steifer Bart sich wie ein Degen niedersenkte,

Erstarrt und fürchterlich gleichwie des Judas Bart.

Gebrochen war er, nicht gebeugt. Es war sein Rücken

In rechtem Winkel zu dem Bein, so daß sein Stab,

Vollendend dies Gebild der Furcht, in allen Stücken

Ihm das Erscheinen und das irre Straucheln gab,

Das einem Juden mit drei Füßen zu vergleichen,

Wie ein gelähmtes Tier durch Schnee und Schmutz er ging,

Als träte ewig er mit seinen Schuhn auf Leichen,

Nicht stumpf, nein, haßerfüllt der Welt, die ihn umfing.

Ihm folgt sein Ebenbild: Bart, Blick, Stock, Rücken, Fetzen,

Kein Unterschied! Entstammt demselben Höllenbrand!

Dies greise Zwillingspaar zog – wunderlich Entsetzen –

Mit gleichem Tritte in ein nie erschautes Land.

Welch böser Anschlag stieß mein Herz in solche Qualen,

Welch schnöder Zufall kam, zu Boden mich zu ziehn,

Denn nacheinander sah mein Blick zu sieben Malen

Den greisen Fremdling, wie er furchtbar mir erschien.

Ein jeder, der den Schreck verhöhnt, der mich umnachtet,

Und der nicht spüren mag ein brüderliches Graun,

Bedenken soll er das: Des Alters ungeachtet

War in der Sieben Blick die Ewigkeit zu schaun!

Wie konnt ich lebend sehn den achten meiner Dränger?

Voll schicksalsschweren Hohns, selbst Sohn und Vater sich?

Den grausen Phönix, den gespenstgen Doppelgänger …

Jedoch den Rücken wandt dem Höllenzuge ich.

Verzweifelnd, Säufern gleich, die alles doppelt sehen,

Stürzt ich nach Haus und schloß die Tür, von Schreck gehetzt,

Krank und zu Eis erstarrt, den Geist in Fieberwehen,

Durch dieses Rätsel und sein sinnlos Spiel entsetzt.

Umsonst rang die Vernunft, daß sie das Steuer fasse,

Im Spiel brach ihre Kraft der Sturm mit mächtgem Stoß,

Und meine Seele schwamm, wild tanzende Barkasse,

Auf einem Ozean voll Graun und uferlos!

Die Blinden.

Betrachte sie, mein Herz, wie sind sie fürchterlich!

Den Gliederpuppen gleich, fast lächerlich zu schauen;

Und wie Nachtwandelnde erwecken sie uns Grauen.

Durchs Leere tastet ihr erstorben Auge sich.

Die Augen, draus entflohn das Licht, das gottgeschenkte,

Erheben sie, als ob sie in die Ferne sähn,

Zum Himmel. Niemals noch sahst je du einen gehn,

Der träumerisch sein Haupt zu Boden niedersenkte.

Das Dunkel unbegrenzt, das sie umfangen hat,

Durchziehn sie, das verwandt der ewgen Ruh. O Stadt,

Indes du singst und brüllst, stets neuen Rausch zu finden

In grauenhafter Lust, der du schon übersatt,

Ich schlepp mich auch, und mehr als sie zerstört und matt,

Frag ich: was suchen sie im Himmel, all die Blinden?

Das Spiel.

In fahlen Sesseln schaut ich alte Buhlerinnen,

Bleich, mit gemalten Braun, geschminkt noch im Verfall,

Verstellten Blicks. Ich sah von magren Ohren rinnen

Ein klirrendes Gehäng von Steinen und Metall.

Gesichter lippenlos, auf grüne Tische stierend,

Die Lippen ohne Blut, Kinnladen ohne Zahn,

Und Finger, wild verkrampft, nach Golde angstvoll gierend,

Durchwühlend Brust und Kleid in grausem Fieberwahn.

An schmutzigem Gewölb unzählge Kerzenlichter

Und riesge Leuchter, die ihr Flimmern bleich und weiß

Entsandten auf die Stirn der finstren, großen Dichter,

Die stumm vergeudeten der Marter blutgen Schweiß.

Das ist das schwarze Bild, das ich in bösem Traume

Mit allzu klarem Blick erspäht in nächtger Zeit.

Ich selber schaute in dem grauenhaften Raume

Mich aufgestützt, erstarrt, stumm und voll tiefem Neid.

Voll Neid auf dieser Schar untilgbar-zäh Verlangen,

Auf dies Vergnügen, das die Dirnen aufrecht hielt,

Wie unter meinem Blick sie frech und unbefangen

Um einstge Schönheit und um Ehrbarkeit gespielt.

Und es erschrak mein Herz, manch Armen zu beneiden,

Der glühnden Eifers stürzt zum Abgrund des Gerichts,

Und der, von seinem Blut berauscht, die grimmsten Leiden

Dem Tode vorzieht und die Hölle selbst dem Nichts.

Totentanz.

An Ernest Christophe.

Von ihrer Schönheit stolz wie Lebende durchdrungen,

Prunkt sie mit Taschentuch, mit Handschuh und mit Strauss;

In kühner Lässigkeit zeigt sie sich ungezwungen –

Wie eine magere Kokette sieht sie aus.

Hat je auf einem Ball man schlankren Wuchs gesehen?

Du schaust ihr grelles Kleid, an weiten Falten reich,

Auf einen Knochenfuß in Wellen niedergehen,

Von buntem Schuh geschmückt, der zieren Blumen gleich.

Ihr magres Schlüsselbein umschmiegen leichte Spitzen,

Gleich einem üppgen Bach, der sich am Felsen reibt,

Und sittsam bergen sie vor possenhaften Witzen

Den unheilvollen Reiz, der tief verborgen bleibt.

Die hohlen Augen sind erloschen und verwittert,

Es nickt der Blumenschmuck vom Schädel grauenvoll,

Der schwank sich wiegend auf den dünnen Wirbeln zittert –

O Zauber eines Nichts, das aufgeputzt und toll!

Gar manche möchten dich ein nächtig Zerrbild nennen,

Die von der Trunkenheit des Fleisches nur gewußt,

Die nicht der menschlichen Gebeine Feinheit kennen:

Du mächtiges Skelett stillst meine höchste Lust!

Kommst du zu stören mit erschreckender Grimasse

Das Fest des Lebens, als ob lüsterne Begehr,

Leichtgläubge, dein Gebein im Grab nicht ruhen lasse,

Zum wilden Taumeltanz des Freudensabbats her?

Beim Sang der Geigen, bei der Kerzen lichtem Prangen

Hoffst zu verscheuchen du der finstren Träume Not?

Willst du vom wilden Strom der Orgien erlangen,

Daß er die Hölle kühlt, die dir im Herzen loht?

Unausgeschöpfter Quell von Wahn und Seltsamkeiten,

Nach dem der Menschheit Schmerz seit alter Zeit geforscht,

Ich sehe durchs Gewand, geschürzt an deinen Seiten,

Die gierge Schlange, die dir das Gebein zermorscht.

Zwar fürchte wahrlich ich, daß deine Reize scheitern,

Und daß kein Preis dich krönt, der würdig deiner Mühn;

Wen dieser Sterblichen wird solcher Spott erheitern?

Das Graun kann Starke nur mit seiner Lust durchglühn.

Der Augen Höhlung, drin des Grabes Schauer nachtet,

Enthaucht den Schwindel, und es wird kein Tänzer sein,

Der ohne Ekel und Beklemmung je betrachtet

Das Lächeln, das uns grinst aus deiner Zähne Reihn.

Doch welches Menschen Arm umfing nicht schon Skelette?

Wer hat sich nicht genährt vom Graun der Grabeswelt?

Was kümmert uns Geruch, Gewandung und Toilette!

Der, der sich ekelt, zeigt, daß er für schön sich hält.

Du Tänzrin, nasenlos! Sieghafte Dirne! Winke

Und sprich zur Tänzerschar, die sich erschrocken ziert!

Ihr Hübschen! Trotz der Kunst des Puders und der Schminke

Riecht ihr nach Grabesdunst! Skelette parfümiert!

Ihr Gecken welker Schmach! Ihr Dandys falschen Glanzes

Grauhaarger Stutzerschwarm! Gefirnißtes Gebein!

Die Welterschütterung des grimmen Totentanzes

Reißt euch in dunkles Land, das niemand sah, hinein.

Am kalten Seinestrand, am Glutgestad des Ganges

Spreizt tanzend sich die Schar der Menschen und sieht nicht,

Daß klaffend durchs Gewölb gleichwie ein dunkles, banges

Sturmwetter, dräuend des Gerichts Posaune bricht.

In deiner Welt bestaunt der Tod dich allenthalben,

Wie, sterbliches Geschlecht, er deinen Krampf verlacht,

Und oft, indem gleich dir er prunkt mit duftgen Salben,

Eint seinen grimmen Hohn er deines Wahnsinns Nacht!

Die Liebe zur Lüge.

Wann du vorbei mir gehst, gleichgültig-stolze Schöne,

Beim Sange der Musik, der am Gewölb zerfließt,

Wie du dich sacht bewegst, harmonisch wie die Töne,

Und Langeweil im Blick tiefmüde um dich siehst;

Erblicke ich belebt vom wehnden Gasgeflimmer

Die krankhaft-bleiche Stirn, wo wundersam der Brand

Der Abendfackeln spielt, wie neuer Morgenschimmer,

Dein Auge, das mich wie der Blick von Bildern bannt –

Denk ich: wie ist sie schön, von frischem Reiz umflutet!

Erinnrung, wie ein Turm, der schwer und königlich,

Bekrönt sie, und ihr Herz, das wie ein Pfirsich blutet,

Beut reif, gleich ihrem Leib, der kundgen Liebe sich.

Bist du des Herbstes Frucht, von auserlesner Milde?

Bist eine Urne du, die sich nach Tränen bangt,

Ein Duft, der träumen macht von seligem Gefilde,

Ein schmeichlerischer Pfühl, ein Korb, der Blüten prangt?

Ich weiß es: Augen sind, voll trauervoller Reine,

Wo sich kein Rätsel birgt, das köstlich zu erschaun,

Wie leere Medaillons, kleinodienarme Schreine,

Und tiefer, öder noch als selbst der Himmel Blaun.

Doch die Erscheinung ists, die zagendem Gefühle,

Das vor der Wahrheit flieht, das Sein versüßen kann.

Was kümmern Torheit mich und seelenlose Kühle?

Ob Maske oder Zier – dich, Schönheit, bet ich an!

Nebel und Regen.

Herbstende, Winter ihr, Frühlinge reich an Regen,

Euch Schlummerzeiten sehnt die Seele sich entgegen,

Die wie ein weites Grab ihr Herz und Hirn umgebt

Im Nebel, der mich wie ein Leichentuch umwebt.

In weiter Ebne, die die kalten Winde fegen,

Wo Wetterfahnen in der Nacht sich kreischend regen,

Spannt meine Seele, die kein warmer Lenz belebt,

Den Rabenfittich, der sie düstren Flugs erhebt.

Nichts kann so süß sein für ein Herz, das gramzerrissen,

Auf das seit langem schon der Frost herniederfällt,

O bleiche Himmel, ihr Gebieter unsrer Welt,

Als stets zu sehn das Graun von fahlen Finsternissen,

Wenn nicht den bittren Schmerz auf unsrem Bett wir sacht

Einschläfern Brust an Brust in mondesleerer Nacht.

Pariser Traum.

An Constantin Guys.

I.

Von diesem schrecklichen Gefilde,

Das nie ein sterblich Aug erblickt,

Hat ein verweht und zart Gebilde

Noch diesen Morgen mich entzückt.

Der Schlaf ist reich an Wunderträumen!

Durch einer Laune fremdes Spiel

Bannt ich aus den erschauten Räumen

Der Pflanzen regellos Gewühl.

Im Bild, das stolz mein Geist sich malte,

Erfreute sich mein kühnes Herz

An ewger Öde, die erstrahlte

Von Wasser, Marmelstein und Erz.

Es war ein Babel von Arkaden,

Ein niemals endender Palast,

Reich an Bassins und an Kaskaden,

Von Schalen matten Golds gefaßt;

Und Wasserfälle, niederschießend

Gleich einem Vorhang von Kristall,

Sie hingen schwer, ihr Licht ergießend,

An steilen Mauern von Metall.

Nicht Bäume sondern Kolonnaden

Umgaben schlummerstille Seen,

Wo die gigantischen Najaden

Wie Frauen sich im Spiegel sehn.

Es breiteten sich blaue Teiche

Entlang den grün und rosgen Strand,

Durch tausend nie ermeßne Reiche,

Bis an der Erde fernsten Rand.

Es waren nie erschaute Steine

Und eine magisch-fremde Flut,

Gewaltge Spiegel, hell vom Scheine

Der Wunder, die darin geruht.

Weltströme wie der Ganges flossen

Verstummt im Ruhn des Ätherblaus,

Und ihrer Urnen Schätze gossen

Sie in demantne Schlünde aus.

Ich ließ, des Feeenreichs Erbauer,

Durch eines Tunnels nächtgen Gang,

Mit edelsteingeschmückter Mauer,

Das Weltmeer gehn, das ich bezwang.

Geschliffen, schillernd und geglättet

War selbst der schwärzen Farben Nacht,

Stolz prangend in die Flut gebettet,

Erleuchtet in kristallner Pracht.

Sonst keine Sterne, keine Flammen

Der Sonne, selbst am Himmelsrand,

Die Dinge all, die wundersamen,

Durchleuchtete ihr eigner Brand.

Und über dieser Welt verloren,

Lag – neuer Schrecken: endlos weit

Dem Auge alles, nichts den Ohren –

Ein Schweigen wie die Ewigkeit!

II.

Den trunknen Blick dem Tag erschlossen,

Sah meiner Kammer Elend ich,

Und vom Bewußtsein neu durchflossen,

Fühlt ich der Sorgen grimmen Stich.

Die Uhr mit ihren dumpfen Schlägen

Schlug Mittag, und vom Himmelszelt

Sank finsteres Gewölk und Regen

Auf diese frosterstarrte Welt.

Morgendämmerung.

Der Weckruf ertönte im Hof der Kasernen

Und der Morgenwind blies auf die Laternen.

Es war die Stunde, da der Träume bösem Bann

Auf seinem Bett der Knab sich nicht entwinden kann,

Da wie ein blutig Aug, das bebt in wehen Qualen,

Die Lampen ihren Fleck rot in den Morgen malen,

Da durch des Körpers Last die Seele niederbricht

Und gleiche Kämpfe ringt wie Tag und Lampenlicht.

Wie ein betränt Gesicht, das trocknet in den Winden,

Erschauern in der Luft die Dinge, die entschwinden.

Des Schreibens ist der Mann, die Frau des Liebens satt.

Schon stiegen hier und dort Rauchsäulen aus der Stadt.

Die Freudenmädchen, tiefgesenkt die bleichen Lider,

Sie lagen offnen Munds in stierem Schlaf danieder;

Und Arme, welk die Brust, die Lippen ohne Blut,

Bliesen die Finger sich und bliesen in die Glut.

Es war die Stunde, da in Kälte und Entbehren

Die Wehn und Nöte der Gebärenden sich mehren,

Gleich einem Schluchzen, das ein Blutsturz jäh verschlang,

Der frühe Ruf des Hahns durch Morgennebel drang;

Um die Gebäude schwamm das Nebelmeer, das fahle,

Schwer keuchten Sterbende im Schoß der Hospitale

Und stießen todesmatt ein letztes Röcheln aus.

Gebrochen schleppten sich die Wüstlinge nach Haus.

Das Morgenrot in grün und rosigem Gewande

Kam fröstelnd langsam her am öden Seinestrande;

Das finstere Paris brach seines Schlummers Bann

Und griff zum Handwerkszeug, ein greiser Arbeitsmann.

Der Wein

Der Wein der Lumpensammler.

Oft schauen wir, wie in der Flammen rotem Flirren,

Im wehnden Flackerschein, bei der Laternen Klirren,

Im Schoß der alten Stadt, von Schmutz und Elend voll,

Dort, wo die Menschheit stöhnt in wetterschwangrem Groll,

Ein Lumpensammler kommt, der, wie ein Dichter schwankend,

Wild schüttelt mit dem Kopf, an alte Mauern wankend;

Und voll Verachtung für der Späher feilen Hauf

Läßt seinem Hoffen er im Rausche freien Lauf.

Er schwört Gelübde, gibt erhabene Gesetze,

Er hebt Gestürzte auf, zerreißt der Bösen Netze,

Der Himmel überwölbt ihn wie ein Baldachin,

Wie trunken macht der Glanz der eignen Tugend ihn.

Ja, diese Leute, die in Sorgen niederbrechen,

Die Arbeit schier zermalmt, die lange Jahre schwächen,

Gelähmt, sich bückend vor der Last gehäuften Schutts,

Die ausgespien Paris, ein wirr Gewühl von Schmutz,

Sie kommen vom Geruch der Fässer wie umflossen,

Mit kampfergrauter Schar, mit jubelnden Genossen,

Ihr Schnurrbart hängt herab wie Fahnen greisen Ruhms,

– Siegbogen, Blumen, all der Glanz des Heldentums

Erhebt vor ihnen sich wie eine Zaubersonne,

Sie bringen, ganz betäubt vom Festlärm und der Wonne

Der Trommeln, des Geschreis, des Horns, der Strahlenpracht,

Die Glorie ihrem Volk, das Liebe trunken macht,

So rollt, auf daß er all die nichtge Menschheit letze,

Der Wein sein reiches Gold, ein Paktolos der Schätze;

Im Mund des Menschen singt sein Tun er, siegeshehr,

Gleich wahren Köngen herrscht durch seine Gaben er.

Den Gram zu tilgen und die Gleichmut sanft zu wiegen

All der Verstoßnen, die ergreist und stumm erliegen,

Gab reuig Gott den Schlaf, der tröstlich und gelind.

Der Mensch erschuf den Wein, der Sonne heilges Kind!

Der Wein des Einsamen.

Der Kurtisanen Blick, der seltsam zu uns gleitet,

Dem flüchtgen Zitterstrahl des blassen Mondes gleich,

Wann er herniedertaucht zum leicht gerillten Teich,

In dem um Silberglanz die Flut sich lässig breitet;

Der letzte Beutel Gold in eines Spielers Hand;

Ein tändelnd-dreister Kuß der magren Adeline;

Ein ferner Schmeichelklang von müder Violine

Wie weher Klagelaut, der sich der Brust entwand …

Das alles, Flasche, gleicht dem Glück nicht, das du sendest,

Wenn du den Balsamtrank aus reichem Innern spendest,

Der das erloschne Herz des Dichters neu entfacht,

Du träufelst Hoffnung ihm und Jugend und das Leben

Und Stolz, den einzgen Schatz, den Armut uns gegeben,

Der triumphierend uns und Göttern ähnlich macht.

Der Wein der Liebenden.

Heut strahlen herrlich die Weiten!

Ohne Zügel und Sporn laß uns reiten

Dahin, beflügelt vom Wein,

In den Himmel der Feen hinein!

Zwei Engeln gleich, die dem Glühen

Der lastenden Schwüle entfliehen,

Laß im Morgen, kristallblau und rein,

Uns folgen dem spiegelnden Schein.

Gewiegt von den weichen Schwingen

Des Wirbelwinds, der uns freund,

In gleichentzücktem Umschlingen,

Meine Schwester, laß eng vereint

Uns rastlos fliehn durch die Räume

Zu dem Paradies meiner Träume.

Blumen des Bösen

Die Zerstörung.

Ohn Unterlaß spür ich, wie mich der Dämon drängt;

Wie regungslose Luft hält er mich rings umfangen;

Ich fühl und schlucke ihn, wie er die Lungen sengt,

Er füllt mein schuldig Herz mit ewigem Verlangen.

Oft nimmt er, meiner Glut zur Kunst gar wohl bewußt,

Die buhlerische Form der schönsten Frau auf Erden,

Und heuchlerischen Trugs läßt meiner Lippen Lust

Er den verruchten Trank verworfner Schande werden.

So führt er mich, vom Blick der Gottheit fern gebannt,

Schwerkeuchend und erschöpft durchs weite Wüstenland

Der toten Leere hin, in endlos-grauen Stunden.

Vor meinen Augen, die Verwirrung dunkelt, sät

Zerfetzte Kleider er und aufgerißne Wunden

Und des Zerstörungswerks bluttriefend Schlachtgerät!

Verdammte Frauen.

Gleich stummen Herden sich im Sande lagernd, wenden

Sie ihre Augen nach dem Horizont der See.

In ihren Füßen, die sich suchen, ihren Händen,

Bebt sehnsuchtsbanger Wunsch und fröstelnd-herbes Weh.

Die einen, trunken von gehauchten Traulichkeiten,

Gehn an den Bächen hin, die lallen durch den Hain,

Und stammeln bang die Glut der scheuen Kinderzeiten

Und ritzen Namen in die jungen Bäume ein.

Und andre, Schwestern gleich, durchwandern ernst und schweigend

Die Felsenküste, die Gesichte läßt erstehn.

Wo Sankt Antonius, wie Lavafluten steigend,

Die nackten Brüste der Versuchung einst gesehn.

Und andre, die im Schein verglommner Fackeln weilen,

In heidnischen Gewölbs verschwiegner Dunkelheit,

Flehn deine Hilfe an, ihr Fieberweh zu heilen,

O Bacchus, der der Qual Vergessenheit verleiht.

Noch andre, deren Brust bedeckt vom Skapuliere,

Die eine Geißel in dem faltgen Kleid versteckt,

Vereinen in der Nacht der öden Waldreviere

Den Rausch der wilden Lust der Pein, die Tränen weckt.

Dämonen, Jungfraun ihr, Untiere, Dulderinnen,

Erhabne Geister, die die Wirklichkeit verschmähn,

Die – lüstern oder fromm – auf Unbegrenztes sinnen,

Die bald verzweifelt schrein, in Tränen bald zergehn,

Ihr, denen ich ins Graun der Hölle nachgegangen,

Ich liebe, Schwestern, euch und klage euer Los,

Um euer finster Leid und ungestillt Verlangen,

Um das Gedächtnis an die Glut, so tief und groß.

Die Fontäne von Blut.

Oft deucht es mich, daß mein Blut mir entflieht,

Wie ein Springbrunn mit seltsam schluchzendem Lied,

Wohl hör ich, wie es strömt, dumpf murmelnd Stund an Stunde,

Doch taste ich umsonst und finde keine Wunde.

Durch die Stadt rinnts wie durch umfriedet Gebiet,

Und das Pflaster gleicht Inseln, die es umzieht.

Jedwede Kreatur trinkt es mit durstgem Munde,

Es taucht in tiefes Rot die ungeheure Runde.

Verzweifelt fleht’ ich an der Weine Zaubermacht,

Daß nur ein Tag mir frei von diesem Graun erscheine.

Jedoch das Ohr wird fein, das Auge klar vom Weine.

Im Lieben suchte ich vergessensdunkle Nacht;

Doch scheint mir, sich im Rausch der Liebe zu versenken,

Ein Bett von Nadeln, wo wir jene Dirnen tränken.

Amor und der Schädel.

Alter Buchzierat.

Auf der Menschheit Haupt hat im Hohne

Sich Amor gesetzt,

Und der Freche, der auf seinem Throne

Sich lachend ergetzt,

Läßt schillernde Kugeln steigen

Hinauf in die Luft,

Zu erreichen der Welten Reigen

Im blauenden Duft,

Der Lichtball schwebt, sich beschwingend,

In endlosen Raum,

Birst und haucht seine Seele verklingend,

Wie goldenen Traum,

Nun hör bei den schwebenden Blasen

Den Schädel ich flehn:

Dieses Spieles grausames Rasen,

Wie lang soll es gehn?

Das, was dein Mund, dein verruchter,

Im Spiele vertut,

Mein Hirn ist’s, Mörder, verfluchter!

Mein Fleisch und mein Blut!

Aufruhr

Die Verleugnung des Heiligen Petrus.

Was macht Gott Vater mit der Flut von Lästerungen,

Die Tag für Tag sich auf zu seinen Engeln schwingt?

Ruht er wie ein Tyrann, den Fleisch und Wein bezwingt,

Von unsrer Flüche Klang in sanften Schlaf gesungen?

Der Dulder Schluchzen und der Schrei der Opfer schwillt

Wohl zu berauschender Musik erwünschter Qualen,

Denn trotz dem Blut, mit dem sie diese Lust bezahlen,

Ist noch der Himmel nicht gesättigt und gestillt.

O Jesus! Denke an des Ölbergs bittre Klagen,

Da, als du kindlich Ihn auf Knien angefleht,

Der bei der Nägel Klang sich lachend weggedreht,

Die niedre Henker in dein zuckend Fleisch geschlagen.

Als deine Göttlichkeit bespien ward und entweiht

Vom niedren Kriegsvolk und vom Auswurf roher Buben,

Als du gefühlt, wie tief die Dornen sich dir gruben

Ins Haupt, in dem gewohnt der ganzen Menschheit Leid,

Als dein gebrochner Leib mit schwerer Last die Arme

Dir grauenhaft gedehnt, und als entsetzlich dann

Dir Blut und Schweiß herab von bleicher Stirne rann,

Als eine Zielscheib du hingst vor der Lästrer Schwarme,

Gedachtest träumend du an jenen lichten Tag,

Da zur Erfüllung des Versprechens froh du schrittest,

Da auf der Eselin, der sänftlichen, du rittest

Den Weg, der voll Gezweig und reichen Blüten lag.

Da ganz das Herz erfüllt von Mut und Hoffnungsglanze

Die Händler du gestäupt in göttlichem Gericht,

Da endlich Herr du warst! … Drang denn die Reue nicht

Dir in die Seite ein noch vor dem Stich der Lanze?

Ich, wahrlich, fliehe gern dies irdische Geschlecht,

Wo Traum und Handlung nicht gleichwägt in Schwesterhänden,

Dürft ich den Degen ziehn und durch den Degen enden!

Petrus verleugnete den Herren – er tat recht!

Abel und Kain.

I.

Stamm Abels, schlafe, iß und trinke,

Gott lächelt dir gnädig zu.

Stamm Kains, in Schmutz und Schlamm versinke,

Erbärmlich leb und ende du.

Stamm Abels, deines Weihrauchs Grüßen

Umschwebt den Seraph mild und rein.

Stamm Kains, wird deinem schweren Büßen

Denn niemals eine Ruhe sein?

Stamm Abels, reich ist deine Weide,

Und üppge Saat entsproßt dem Grund.

Stamm Kains, dich schmerzt im Eingeweide

Des Hungers Qual wie einen Hund.

Stamm Abels, deine Glieder wärme

An väterlichem Herdesbrand.

Stamm Kains, wie scheue Schakalschwärme

Irr frierend, ins Geklüft verbannt.

Stamm Abels, lieb und feilsche teuer!

Dein Silber selbst bringt Junge dir.

Stamm Kains, du Herz voll wildem Feuer,

Verfemt ist deiner Wünsche Gier.

Stamm Abels, groß und zahlreich wirst du,

Den Wanzen in den Wäldern gleich!

Stamm Kains, auf öden Straßen irrst du

Im tiefsten Elend, nackt und bleich.

II.

Dein Aas, Stamm Abels, wird verwesen,

Daß es den Boden fetter macht!

Stamm Kains, die Tat, die dir erlesen,

Hast nicht genügend du vollbracht.

Stamm Abels, hör des Urteils Stimme:

Dem Fangspieß ward das Schwert zum Spott!

Stamm Kains, empor zum Himmel klimme,

Und auf die Erde schleudre Gott!

Die Litanei Satans.

Du Cherub, herrlicher als die Gefährten alle!

Gott ohne Ruhm! Gestürzt in allgewaltgem Falle,

Erbarm dich, Satan, mein und meiner tiefen Qualen!

O König des Exils, der unrecht ward verbannt,

Und der, wenngleich besiegt, stets stärker neu erstand,

Erbarm dich, Satan, mein und meiner tiefen Qualen!

O du, allweiser Fürst in unterirdschen Reichen,

Du Heiland jeder Angst, die Menschen läßt erbleichen,

Erbarm dich, Satan, mein und meiner tiefen Qualen!

Der Aussatzkranken selbst und Parias verleiht

Durch Liebe den Genuß von Edens Seligkeit,

Erbarm dich, Satan, mein und meiner tiefen Qualen!

Der zur Geliebten die Verwesung sich erkoren,

Die jene Törin dir, die Hoffnung, hat geboren,

Erbarm dich, Satan, mein und meiner tiefen Qualen!

Der Todgeweihten gibt den Blick voll stolzem Trotz,

Ein Volk verdammend von der Höhe des Schafotts,

Erbarm dich, Satan, mein und meiner tiefen Qualen!

Du, welcher weiß und kennt, in was für nie entdeckte

Geklüfte Gott voll Neid den Edelstein versteckte,

Erbarm dich, Satan, mein und meiner tiefen Qualen!

Du, dessen klarer Blick die Kammern überfliegt,

Wo der Metalle Volk versargt im Schlummer liegt,

Erbarm dich, Satan, mein und meiner tiefen Qualen!

Du, dessen mächtge Hand am Abgrund sicher leitet

Den Menschen, der im Schlaf längs hoher Zinnen schreitet,

Erbarm dich, Satan, mein und meiner tiefen Qualen!

Du, der des Säufers alt Gebein durch Zauberkraft

Selbst unter Rosseshuf heil und geschmeidig schafft,

Erbarm dich, Satan, mein und meiner tiefen Qualen!

Du, der zum Trost des Manns, den Elend ganz verzehrt hat,

Uns des Salpeters und des Schwefels Kraft gelehrt hat,

Erbarm dich, Satan, mein und meiner tiefen Qualen!

Der auf des Krösus Stirn der Mitschuld Zeichen brennt,

Des Seele käuflich ist und kein Erbarmen kennt,

Erbarm dich, Satan, mein und meiner tiefen Qualen!

Du, der in Aug und Herz den Mädchen das Ergetzen

An offnen Wunden gab und an zerlumpten Fetzen,

Erbarm dich, Satan, mein und meiner tiefen Qualen!

Der stets der Forscher Licht, der Stab der Flüchtgen war,

Beichtger Erhängter und verfolgter Sträflingsschar,

Erbarm dich, Satan, mein und meiner tiefen Qualen!

Du Vater aller, die geschreckt von Wetterstrahlen

Vor Gottes grimmem Zorn aus Eden bang sich stahlen,

Erbarm dich, Satan, mein und meiner tiefen Qualen!

Gebet.

Preis, Satan, dir und Ruhm in hoher Himmel Pracht,

Wo einstmals du geherrscht und in der Hölle Nacht,

In der besiegt du träumst in schweigendem Palaste!

Gib mir, daß unter der Erkenntnis Baum einst raste

Mein Geist, dir nahgesellt, zur Stunde, da dein Haupt

Gleich neuen Tempels Dach sein reich Gezweig umlaubt!

Der Tod

Der Tod der Liebenden.

Wir werden Lager tief wie Grüfte finden,

Die leichte Wohlgerüche übersprühn,

Und seltne Blumen werden sich uns winden,

Die unter schönrem Himmel uns erblühn.

Die letzten Gluten hauchend, die entschwinden,

Sind unsre Herzen Fackeln, licht und kühn,

Und lassen Feuer, die sie hold verbinden,

Aus unsrer Geister Zwillingsspiegeln glühn.

Wann Blau und Rosig abends mystisch scheinen,

Laß tiefen Blick uns tauschen, wie ein Weinen,

Ein Schluchzen, das nur Abschied atmen soll.

Dann schiebt ein Engel sacht zurück die Riegel,

Und neu belebt er, treu und liebevoll,

Die toten Flammen und die trüben Spiegel.

Der Tod der Armen.

Der Tod, ach, ist uns Trost und hoffnungsvolles Lieben,

Er ist des Lebens Ziel, die Kraft, die uns durchdringt,

Er ist der Zaubertrank, von dessen Rausch getrieben

Wir mutvoll weitergehn, bis daß der Abend sinkt.

Durch Sturmwind, Reif und Schnee, die eisig niederstieben,

Ist er die Klarheit, die durchs Dunkel zitternd blinkt;

Die große Herberg, wie sie in dem Buch geschrieben,

Wo man sich setzen kann, wo Schlaf und Speise winkt.

Er ist ein Engel, der des tiefen Schlafs Beglückung

In Zauberhänden hält und selgen Traums Verzückung,

Und der ein weiches Bett den nackten Armen macht;

Er ist der Götter Ruhm, des Erntesegens Milde,

Des Armen Gold, sein alt und heimatlich Gefilde,

Das weiterschloßne Tor zu neuer Himmel Pracht!

Der Tod der Künstler.

Wie oft ertönt mir noch der Narrenschellen Klang,

Wie oft noch, Zerrbild, küss ich deine Stirn voll Grauen?

Wieviel Geschosse noch verfliegen mir im Blauen,

Mein Köcher, eh ein Pfeil das seltne Ziel durchdrang?

Wir schmieden Plan auf Plan, das ganze Leben lang;

Manch schwer Gewaffen wird im Kampfe noch zerhauen,

Eh wir die Kreatur, die riesenhafte, schauen,

Gesucht in ewger Gier, die Tränen uns entrang.

Und Menschen gibt es, die stets fern von dem Idole,

Und diesen Bildnern, die verdammt und lichtberaubt,

Gezeichnet von der Schmach, dir meißeln Brust und Haupt,

Winkt eine Hoffnung nur gleich finstrem Kapitole!

Daß ihnen einst der Tod, ein neues Lichtgestirn,

Die Blume sprießen läßt und blühn aus ihrem Hirn!

Ende des Tages.

In bleiernen Lichtes Weben

Tanzt und windet ohne Grund

Sich schamlos lärmend das Leben,

Drum sobald der Erde Rund

Von seligem Dunkel erfrischt ist,

Wann alles, der Hunger selbst, ruht,

Wann alles, die Schmach selbst, verwischt ist,

Seufzt der Dichter: Nun ist’s gut!

Meine Glieder wie meine Gefühle

Erflehen die Ruhe sich,

In finsterem Traumgewühle

Will ausgestreckt liegen ich,

Und dein Vorhang umhülle mich,

Erquickende, nächtige Kühle.

Traum eines Wißbegierigen.

Kennst du so tief wie ich des Leidens Süßigkeiten,

Und sagt man auch von dir: »Seht, welch ein Sonderling!«?

– Ich lag im Sterben. In der Brust, der todgeweihten,

Rang Schrecken und der Wunsch zum Tod, ein seltsam Ding.

Angst fühlt’ und Hoffnung ich, jedoch kein Widerstreiten.

Je mehr der schlimme Sand der Uhr zu Ende ging,

Je schärfer fühlte ich der Folter Herrlichkeiten;

Mein Herz entriß sich ganz der Welt, die es umfing.

Mein Fühlen glich dem Wunsch von schaubegiergen Kindern,

Den Vorhangsfalten feind, die unsre Blicke hindern …

Bis daß die Wahrheit sich enthüllte, kalt und blaß:

Tot war ich ohne Schreck. Und mich umgab der Schimmer

Des grausen Morgenrots. – Was! ist es nichts als das!

Der Vorhang war entschwebt … ich wartete noch immer.

Die Reise.

An Maxime du Camp.

I.

Dem Kinde, das entzückt von jedem Stich und Bilde,

Erscheint die Erde weit wie seine Träumerein.

Wie ist die Welt so groß bei lichter Lampen Milde!

Für der Erinnrung Blick, wie ist die Welt so klein!

Entflammten Geistes sind wir plötzlich auf dem Wege,

Das Herz von dumpfem Groll und herber Sehnsucht schwer,

Daß unsre Seele bang im Takt der Ruderschläge

Ihr Unbegrenztes wiegt auf dem begrenzten Meer:

Die einen fliehn ihr Land, um Ehr und Glück betrogen,

Die andern jagt der Fluch der Heimat, andre gehn,

In Augen einer Frau versunkne Astrologen,

Der Circe, die verlockt mit süßer Düfte Wehn.

Um nicht in Tiere sich zu wandeln, trinken Wonne

Sie aus der Himmel Glanz, aus Weite, Licht und Strahl;

Die Eisluft, die sie stählt, der Feuerbrand der Sonne

Verwischen allgemach der Küsse haftend Mal.

Doch wahre Wandrer sind, die den Ballons gleich reisen,

Nur um zu reisen, die leichtherzig nie den Bann,

Den ihnen das Geschick auflegte, von sich weisen,

Sie wissen nicht den Grund und sagen doch: Voran!

Die, deren Wünsche gleich den Wolken sich entfalten,

Wie ein Rekrut, der träumt von der Kanonen Ruf,

Erhoffen Freuden sie, die stets sich neu gestalten,

Für die des Menschen Geist noch niemals Namen schuf!

II.

Wir ahmen Kreisel nach und Ball in ihrem Schwirren

Und ihrem blinden Tanz; denn selbst im Schlummer nagt

Die Neugier uns das Herz und läßt uns weiter irren,

Grausamem Engel gleich, der Sonnen peitscht und jagt.

O sonderbares Glück, das stets verschiebt die Ziele,

Das, weil es nirgends ist, uns überall erscheint!

So daß der Mensch, der nie satt wird am tollen Spiele,

In ruhelosem Lauf Ruhm zu erjagen meint!

Ein Fahrzeug ist der Geist, das dreigemastet steuert

Zum Lande seines Glücks. – Schau auf! tönt’s längs dem Schiff;

Vom Mastkorb hallt ein Ruf, von Wahnsinn angefeuert:

Glück … Liebe … Ruhm! O Fluch! Er ist ein Felsenriff.

Ein jedes Eiland, das der Mann auf Wache kündet,

Erscheint ein Eden uns, das das Geschick verhieß,

Und unsre Phantasie schaut dort ihr Reich begründet,

Bis eine Klippe nur im Morgengraun sich wies.

Ihn, dessen Wünsche nur erträumten Landen gelten,

Sprecht, soll man fesseln ihn, ihn werfen in die See?

Den trunknen Seemann, den Entdecker neuer Welten,

Die spiegelnd in der Flut verschärfen unser Weh?

Gleichwie ein Vagabund durch Schmutz und Dunkel hinkend,

Die Nase in der Luft, sich Paradiese malt;

Sein Blick schaut überall ein Capua, wo blinkend

Ein ärmlich Talglicht aus zerfallner Hütte strahlt.

III.

Ihr edlen Reisenden! Welch seltne Wunder können

In euren Augen wir, die tief wie Meere, schaun!

Wollt des Gedenkens Schrein, den reichen, ihr uns gönnen,

Kleinodien, die ihr schuft aus Licht und Ätherblaun!

Dann reisen ohne Dampf und Segel wir von dannen!

Damit ein Lichtstrahl uns des Kerkers Nacht besonnt,

Laßt über unsren Geist, den leinwandgleich wir spannen,

Erinnrungsbilder ziehn, umrahmt vom Horizont.

Was saht ihr? Sprecht!

IV.

Wir sahn der Sterne licht Gefunkel,

Wir sahen Wüstensand und Wellen ungezählt;

Trotz manchem Unglücksschlag, trotz Sturm und Wetterdunkel

Hat Langeweile uns ganz so wie hier gequält.

Der Sonne Glorie auf den veilchenfarbnen Meeren,

Der Städte Glorie, wann die Sonne leuchtend sinkt,

Entzündeten in uns ein ruhelos Begehren

Nach eines Himmels Glanz, der fremd verlockend blinkt.

Die reichsten Städte und die prangendsten Gefilde

Enthielten nimmermehr den mystisch-seltnen Reiz,

Wie ihn aus Wolken formt des Zufalls fremd Gebilde.

Stets hauchte Sehnsucht uns die Schauer bangen Leids.

– In dem Genusse weiß die Sehnsucht Kraft zu finden.

O Sehnsucht, alter Baum, der von der Lust sich nährt,

Indessen du ergreist und härtest deine Rinden,

Sieh, wie dein schlank Gezweig zur Sonn’ emporbegehrt.

Strebst ewig, großer Baum, du mächtiger nach oben

Als die Zypresse? – Doch wir haben sorglich, wißt,

Für eures Sammelns Gier euch Skizzen aufgehoben,

Ihr Brüder, die ihr preist, was aus der Ferne ist.

Wir grüßten Götzen, die mit Riesenrüsseln dräuten,

Und Throne, die gebaut aus lichtem Edelstein;

Der Prunkpaläste Glanz, an dem wir uns erfreuten,

Möcht euren Handelsherrn Traum und Verderben sein.

Gewande, die das Aug entzücken und berauschen,

Fraun, die sich färben Zähn und Nägel, schauten wir

Und weise Zauberer, auf welche Schlangen lauschen.

V.

Was noch, was weiter noch?

VI.

O Kinderseelen ihr!

Um nicht das Wichtigste von allem zu vergessen,

Wir sahen überall, obgleich wir’s nie begehrt,

So oft die Stufen auch der Leiter wir durchmessen,

Den lästgen Anblick, den die Sünde uns gewährt:

Das Weib, die Sklavin, die ohn’ Abscheu, ohne Lachen

Sich liebt und tut, was Stolz und Dummheit ihr gebot,

Der Mann, ein Zwingherr, den Begier und Zorn entfachen,

Der Sklavin Sklave und ein Bach in Schmutz und Kot;

Der Henker, der sich freut, des Opfers Qual zu schärfen;

Die Orgie, der das Blut die rechte Würze gibt;

Das Gift der Herrschgewalt, Despoten zu entnerven,

Das stumpfe Volk, das in der Peitsche Schlag verliebt;

Und Religionen, die der unsren alle gleichen,

Zum Himmel klimmend, stolz auf ihre Heiligkeit,

Die, wie ein Zärtling, der sich wälzt im Bett, im weichen,

Sich ihre Wollust sucht in Pein und härnem Kleid.

Die Menschheit redet toll, am eignen Geist sich freuend,

Und wie sie immer war, von Wahnsinn heimgesucht,

In ihrem Todeskampf zu Gott dem Herren schreiend:

O du mein Ebenbild, mein Meister! Sei verflucht!

Die wenigst Dummen noch, die kühn den Wahnsinn lieben,

Den Haufen fliehend, der verschont bleibt vom Gericht,

Ins grenzenlose Reich des Opiums getrieben! –

So heißt des Erdenballs allewiger Bericht.

VII.

Ein bitter Wissen, das auf Reisen wir erspähen!

Die Welt läßt, eng und klein, für ewig festgebannt,

Uns gestern, morgen, heut das eigne Bildnis sehen,

Oase tiefen Grauns in öder Wüsten Sand!

Muß bleiben man, muß fliehn? Kannst bleiben du, so bleibe;

Geh, wenn dir’s not! Der flieht, der duckt verborgen sich,

Daß er die Wachsamkeit des Feindes hintertreibe,

Der Zeit! – O Läufer sind, die unabänderlich

Wie die Apostel und der ewge Jude eilen,

Die Schar, der Kiel und Rad nie schnell genug erschien,

Zu fliehn des Gegners Netz; und andere verweilen

Am Ort, der sie gebar, und töten dennoch ihn.

Wann endlich seinen Fuß im Rücken wir gewahren,

Dann können hoffen wir und rufen laut; Voran!

So wie vor Zeiten einst gen China wir gefahren,

Den Blick auf weiter See, die Haare im Orkan.

Wir werden froh das Meer der Finsternisse grüßen,

Dem jungen Wandrer gleich, des Herz sich freudig hebt,

Hört diese Stimmen ihr, die dunklen, tödlich-süßen,

Die singen: Kommt hierher, die ihr zu speisen strebt

Vom Lotus selgen Dufts. Hier erntet ihr alleine

Die Wunderfrucht, nach der ihr hungernd lang geirrt;

Kommt ihr berauschen euch am seltsam-milden Scheine

Des Sommernachmittags, der niemals enden wird?

Die traute Stimme weist uns Schatten, längst begraben;

Die Schar der Pylade erschließt die Arme weit.

»Schwimm zu Elektren hin, dein müdes Herz zu laben!«

Ruft sie, der wir die Knie geküßt vor langer Zeit.

VIII.

Tod! Greiser Kapitän! Zeit ist zum Ankerlichten!

Dies Land sind müde wir. O Tod, in See hinein!

Dräun, schwarz wie Tinte, Meer und Luft uns zu vernichten, –

Im Herzen, das du kennst, strahlt doch ein lichter Schein!

Laß zu erneuter Kraft dein eisig Gift uns trinken!

Wir wollen – uns verbrennt das Hirn in Glut und Graun –

Tief in des Abgrunds Nacht, ob Höll, ob Eden, sinken,

Ins unbekannte Sein, um Neues zu erschaun!