Johann Christian Bach

Il Catone in Utica

Drama per musica

Personaggi

Catone

Cesare

Marzia, Figlia di Catone, ed Amante occulta di Cesare

Arbace, Principe Reale di Numida, amico di Catone, ed Amante di Marzia

Emilia, Vedova di Pompeo

Fulvio, Legato del Senato Romano a Catone, del partito di Cesare, ed Amante di Emilia

La Musica è del Signor D. Giovanni Bach all’ attual servizio di S. M. la Regina d’ Inghilterra.

Mutazioni Di Scene.

Nell’ Atto Primo.

Sala d’Armi.

Parte interna delle mura di Utica con porta della Città in prospetto chiusa da un ponte, che poi si abbassa.

Fabriche in parte rovinate vicino al soggiorno di Catone.

Nell’ Atto Secondo.

Alloggiamenti militari su le rivo del fiume Bagrada con varie Isole che comunicano fra loro per diversi Ponti.

Camera con sedie.

Nell’ Atto Terzo.

Cortile.

Luogo ombroso circondato d’Alberi con fonte d’ Iside da un lato, e dall’ altro ingresso praticabile d’ acquedotti antichi.

Gran piazza d’armi dentro le mura di Utica, parte di dette diroccate. Campo di Cesariani fuori della Città, con padiglioni, tende, e macchine militari.

Argomento.

Doppo la morte di Pompeo, il di lui contraditore Giulio Cesare fattosi perpetuo Dittatore si vide rendere omaggio non solo da Roma, e dal Senato, ma da tutto il rimanente del Mondo, fuor che da Catone il minore, Senatore Romano, che poi fu detto Uticense dal luogo della sua Morte: Uomo già venerato come Padre della Patria non meno per l’avstera integrità de’ Costumi, che per il valore; grand’ amico di Pompeo, ed acerbissimo difensore della libertà Romana. Questi avendo raccolti in Utica i pochi avanzi delle disperse milizie Pompejane, con l’ ajuto di Juba Rè de’ Numidi, amico fedelissimo della Republica, ebbe costanza di opporsi alla felicità del Vincitore. Cesare vi accorse con esercito numeroso, e benchè in tanta disugualianz a di forze fosse sicurissimo di opprimerlo, pure in vece di minacciarlo, innamorato della virtù di lui, non trascurò offerta, o preghiera per renderselo amico; ma quegli ricusando aspramente qualunque condizione, quando vide disperata la difesa di Roma, volle almeno morir libero uccidendo se stesso. Cesare nella morte di lui diede segni di altissimo dolore, lasciando in dubbio alle posterità, se fosse più ammirabile la generosità di luì, che venerò a si alto segno la virtù ne’ suoi Nemici, o la costanza dell’ altro, che non volle sopravvivere alla libertà della Patria.

La Scena è in Utica Città dell’ Africa.

Atto Primo

Scena Prima.

Sala d’Armi.

Catone, Marzia, e Arbace.

MARCIA.

Perchè si mesto, o Padre? Oppressa è Roma,

Se giunge a vacillar la tua costanza.

Parla: al cor d’ una figlia

La sventura maggiore

Di tutte le sventure è il tuo dolore.

ARBACE.

Signor che pensi? In quel silenzio appena

Riconosco Catone.

Ah se del tuo gran core

L’ardir primiero è in qualche parte estinto;

Non v’ è più libertà, Cesare ha vinto.

CATONE.

Figlia, Amico, non sempre

La mestizia, il silenzio

E segno di viltà. Tutto ha sconvolto

Di Cesare il furor: In me ripone

La speme, che le avanza,

Roma, che geme al suo Tiranno in braccio:

E chiedete ragion s’ io penso, e taccio?

MARCIA.

Chi sa? Figlio è di Roma

Cesare ancor.

CATONE.

Ma un dispietato figlio

Che serva la desia.

ARBACE.

Tutta Roma non vinse

Cesare ancora. A superar gli resta

Il riparo più forte al suo furore.

CATONE.

E che gli resta mai?

ARBACE.

Resta il tuo core.

E se dal tuo consiglio

Regolati saranno ultima speme

Non sono i miei Numidi.

CATONE.

M’ è noto, e ‘l più nascondi,

Tacendo il tuo valor; l’anima grande,

A cui, fuor che la sorte

D’esser figlia dí Roma, altro non manca.

ARBACE.

Deh tu Signor correggi

Questa colpa non mia. La tua virtude

Nel sen di Marzia io da gran tempo adoro.

Nuovo legame aggiungi

Alla nostra amista, soffri ch’io porga

Di Sposo a lei la mano:

Non mi sdegni la figlia, e son Romano.

MARCIA.

E tu Padre vorrai, ch’ una che nacque

Cittadina di Roma, e fu nudrita

All’ avra trionfal del Campidoglio,

Scenda al nodo d’un Rè?

ARBACE.

(Che bell’ orgoglio!)

CATONE.

Come cangia la sorte,

Si cangiano i costumi.

Principe, non temer, fra poco avrai

Marzia tua Sposa. In queste braccia in tanto

Del mio paterno amore

Abbraccia Arbace.

Prendi il pegno primiero, e ti rammenta

Ch’ oggi Roma è tua patria. Il tuo dovere

Or che Romano sei

E di salvarla, o di cader con lei.

Con si bel nome in fronte

Combatterai più sorte:

Rispetterà la sorte

Di Roma un figlio in te.

Libero vivi, e quando

Te’l nieghi il Fato ancora;

Almen come si mora

Apprenderai da me.

Scena II.

Marzia, Arbace.

ARBACE.

Poveri affetti miei,

Se non sanno impetrar dal tuo bel core

Pietà, se non amore

MARZIA.

Ma qual prova finora

Ebbi dell’ amor tuo?

ARBACE.

Nulla chiedesti?

MARZIA.

E s’ io chiedessi, o Prence,

Questa prova or da te?

ARBACE.

Fuor che lasciarti,

Tutto farò.

MARZIA.

Bramo. che in questo giorno

Non si parli di nozze: a tua richiesta

Il Padre vi acconsenta,

Non sappia ch’ io l’imposi; e son contenta.

ARBACE.

Perchè voler, ch’ io stesso

La mia felicità tanto allontani?

MARCIA.

Servi al mio cenno, e pensa

A quanto promettesti, a quanto imposi.

ARBACE.

Ma poi quegli occhi amati

Mi saranno pietosi, oppur sdegnati?

MARCIA.

Non ti minaccio sdegno,

Non ti prometto amor:

Dammi di fede un pegno,

Fidati del mio cor,

Vedrò se m’ ami.

E di premiarti poi

Resti la cura a me:

Nè domandar mercè,

Se pur la brami.

Partono.

Scena III.

Parte interna delle mura di Utica con porta della Città in prospetto chiusa da un Ponte, che poi si abbassa.

Catone, poi Cesare, e Fulvio.

CATONE.

Dunque Cesare venga. Io non intendo

Qual cagion lo conduca. E inganno? E tema?

Nò: d’un Romano ìn petto

Non giunge a tanto ambizion d’impero,

Che dia ricetto a così vil pensiero.

Cala il Ponte, e si vede venir Cesare con Fulvio.

CESARE.

Con cento squadre e cento

A mia difesa armate in campo aperto

Non mi presento a te. Senz’ armi, e solo

Sicuro di tua fede

Fra lc mura nemiche io porto il piede.

Tanto Cesare onora

La Virtù di Catone, emulo ancora.

CATONE.

Mi conosci abbastanza, onde in fidarti

Nulla più del dovere a me rendesti.

CESARE.

E ver, noto mi sei. Fu poi la sorte

Prodiga all’ armi mie del suo favore.

Ma l’ acquisto maggiore,

Per cui contento ogn’ altro acquisto io cedo,

E l’ amicizia tua, questa ti chiedo.

FULVIO.

E’l Senato la chiede: a voi m’invia

Nuncio del suo volere.

CATONE.

Chi vuol Catone amico,

Facilmente l’ avrà: sia fido a Roma.

CESARE.

Chi più fido di me! Spargo per lei

Il sudor da gran tempo, e’l sangue mio.

CATONE.

E tu dunque mi credi

Mal accorto così?

FULVIO.

Signor che dici?

Di ricomporre i disuniti affetti

Non son queste le vie: di pace io venni,

Non di risse ministro.

CATONE.

E ben si parli.

(Udiam che dir potrà.)

FULVIO.

(Tanta virtude

Troppo acerbo lo rende.)

A Cesare.

CESARE.

(Io l’ammiro però, sebben m’offende.)

Pende il mondo diviso

Dal tuo, dal cenno mio: sol che la nostra

Amicizia si stringa, il tutto è in pace.

Se del sangue latino

Qualche pietà pur senti, i sensi miei

Placido ascolterai.

Scena IV.

Emilia, e detti.

EMILIA.

Che veggio, o Dei!

Questo è dunque l’ asilo

Ch’io sperai da Catone? Un luogo istesso

La sventurata accoglie

Vedova di Pompeo col suo nemico!

FULVIO.

(In mezzo alle sventure

E bella ancor.)

CATONE.

Tanto trasporto, Emilia,

Perdono al tuo dolor.

CESARE.

Se tanto ancora

Sei sdegnata con me, sei troppo ingiusta

FULVIO.

Signor, questo non parmi

Tempo opportuno a favellar di pace.

Chiede l’ affar più solitaria parte,

E mente più serena.

CATONE.

Al mio soggiorno

Dunque in breve io v’attendo. E tu frattanto

Pensa Emilia, che tutto

Lasciar l’ affanno in libertà non dei,

Giacchè ti fe la sorte

Figlia a Scipione, ed a Pompeo consorte

Parte.

Scena V.

Cesare, Emilia, e Fulvio.

CESARE.

Tu taci Emilia? In quel silenzio io spero

Un principio di calma.

EMILIA.

T’inganni. Allor ch’io taccio,

Medito le vendette.

FULVIO.

E non ti plachi

D’ un Vincitor si generoso a fronte?

EMILIA.

Io placarmi? Anzi sempre in faccia a lui

Se fosse ancor di mille squadre cinto,

Dirò, che l’odio, e che lo voglio estinto.

CESARE.

Ma ciò Emilia non basta

A turbar la mia pace;

L’odio tuo perchè imbelle non mi spiace

Fiumicel che s’ ode appena

Mormorar fra l’erbe e i fiori

Mai turbar non sa l’arena,

E alle Ninfe, ed ai Pastori

Bell’ oggetto è di piacer.

Venticel che appena scuote

Picciol mirto, o basso alloro;

Mai non desta la tempesta:

Ma cagione è di ristoro

Allo stanco passaggier.

Parte.

Scena VI.

Emilia, e Fulvio.

EMILIA.

Quanto da te diverso

Io ti riveggio, o Fulvio! E chi ti rese

Di Cesare seguace a me nemico?

FULVIO.

Allor ch’io servo a Roma,

Non son nemico a te. Troppo ò nell’ alma

De’ priegi tuoi la bella imago impressa.

EMILIA.

Mal si accordano insieme

Di Cesare l’amico,

E l’amante d’Emilia: o lui difendi,

O vendica il mio Sposo: a questo prezzo

Ti permetto che m’ami.

FULVIO.

(Ah che mi chiede!

Si lusinghi.)

EMILIA.

Che pensi?

FULVIO.

Penso, che non dovresti

Dubitar di mia fe.

EMILIA.

Dunque sarai

Ministro del mio sdegno.

FULVIO.

Un tuo comando

Prova ne faccia.

EMILIA.

Io voglio

Cesare estinto. Or posso

Di te fidarmi?

FULVIO.

Io ti precedo, e sia

Tuo del colpo il consiglio, e l’opra mia.

Parte.

Scena VII.

EMILIA sola.

Se gli altrui folli amori ascolto, e soffro.

E s’io respiro ancor dopo il tuo fato,

Perdona, o Sposo amato,

Perdona; a vendicarmi

Non mi restano altr’armi. A te gli affetti

Tutti donai, per te gli serbo, e quando

Termini il viver mio, saranno ancora

Al primo nodo avvinti

S’ è ver ch’ oltre la tomba amin gli estinti.

O nel sen di qualche stella,

O su’l margine di Lete

Se mi attendi, anima bella,

Non sdegnarti, anch’io verrò.

Si verrò: ma voglia pria,

Che preceda all’ ombra mia

L’ ombra rea di quel tiranno,

Che a tuo danno

Il mondo armò.

Parte.

Scena VIII.

Fabbriche in parte rovinate vicino al soggiorno di Catone.

Cesare, e Fulvio.

CESARE.

Giunse dunque a tentarti

D’ infedeltade Emilia? E tanto spera

Dall’amor tuo?

FULVIO.

Si, ma per quanto io l’ ami,

Amo più la mia gloria.

CESARE.

A Fulvio amico

Tutto fido me stesso.

FULVIO.

E Catone?

CESARE.

A lui vanne, e l’ assicura

Che pria che giunga a mezzo il corso il giorno,

A lui farò ritorno.

FULVIO.

Andrò, ma veggio

Marzia che viene.

CESARE.

In libertà mi lascia

Un momento con lei.

FULVIO.

Io so che l’ami,

So che t’ adora anch’ ella, e so per prova

Qual piacer si ritrova

Dopo lunga stagíon nel dolce istante

Che rivede il suo bene un fido amante.

Scena X.

Marzia, e Cesare.

CESARE.

Pur ti riveggo, o Marzia. Agli occhi miei

Appena il credo, al par di tua bellezza

Crebbe il tuo amore, oppur scemò? Qual parte

Anno gli affetti miei

Neglì affetti di Marzia?

MARZIA.

E tu chi sei?

CESARE.

Chi sono! E qual richiesta? è scherzo? è sogno?

Cesare non ravvisi?

Quello che tanto amasti,

Quello a cui tu giurasti

Per volger d’ anni, o per destin rubello

Di non essergli infida.

MARCIA.

E tu sei quello?

No: tu quello non sei, n’usurpi il nome.

Un Cesare adorai, no’l niego, ed era

Del mondo intier dolce speranza, e mia:

Questo Cesare amai, questo mi piacque

Pria che l’ avesse il Ciel da me diviso.

Questo Cesare torni, e lo ravviso.

CESARE.

Che far di più dovrei? Catone adoro

Nel sen di Marzia: il tuo bel cor ammiro

Come parte del suo: quà più mi trasse

L’Amicizia per lui, che ‘l nostro amore:

MARCIA.

Ecco il Cesare mio. Comincio adesso

A ravvisarlo in te: così mi piaci

Così m’ innamorasti. Ama Catone

Io non ne son gelosa; un tal rivale

Se divide il tuo core,

Più degno sei ch’io ti conservi amore.

CESARE.

Questa è troppa vittoria. Ah mal da tanta

Generosa virtude io mi difendo.

Ti rassicura, io penso

Al tuo riposo, e pria che cada il giorno

Dall’ opre mie vedrai

Che son Cesare ancora, e che t’ amai.

Chi un dolce amor condanna,

Vegga la mia nemica;

L’ascolti, e poi mi dica

S’è debolezza amor.

Quando da si bel fonte

Derivano gli affetti,

Vi son gli Eroi soggetti,

Amano i Numi ancor.

Parte.

Scena XI.

Marzia, e poi Catone.

MARZIA.

Mie perdute speranze

Rinascer tutte entro il mio sen vi sento;

Chi sa? Gran parte ancora

Resta di questo dì.

CATONE.

Andiamo, o Figlia.

MARZIA.

Dove?

CATONE.

Al tempio, alle nozze

Del principe Numida.

MARCIA.

(Oh Dei!) Ma come

Sollecito così?

CATONE.

Non soffre indugio

La nostra sorte.

MARCIA.

(Arbace infido!) All’ Ara

Forse il Prence non giunse.

CATONE.

Un mio fedele

Già corse ad affrettarlo.

In atto di partire.

MARCIA.

(Ah che tormento!)

Scena XII.

Arbace, e detti.

ARBACE.

Deh t’ arresta, o Signor.

A Catone.

MARCIA.

(Sarai contento.)

Piano ad Arbace.

CATONE.

Vieni, o Principe, andiamo

A compir l’imeneo.

ARBACE.

Ah se pur vuoi,

Che si renda più grato; all’ altra avrora

Differirlo ti piaccia.

CATONE.

Nò: già fumano l’are,

Son raccolti i Ministri, ed importuna

Sarebbe ogni dimora.

ARBACE.

(Marzia, che deggio far?)

MARCIA.

(Me’l chiedi ancora?)

CATONE.

Ma qual freddezza è questa? Ah qualche arcano

Quì si nasconde – Arbace

Non ti sarebbe già tornato in mente,

Che nascesti Africano?

ARBACE.

Io da Catone

Tutto sopporto, e pure –

CATONE.

E pur assai diverso

Io ti credea.

ARBACE.

Vedrai –

CATONE.

Vidi abbastanza,

E nulla ormai più da veder m’avanza.

Parte.

ARBACE.

Brami di più crudele?

MARCIA.

Ad ubbidirmi,

Incominciasti appena, e in faccia mia

Già ne fai si gran pompa?

ARBACE.

O tirannia!

Scena XIII.

Emilia, e detti.

EMILIA.

In mezzo al mio dolore a parte anch’io

Son de’ vostri contenti, illustri Sposi.

ARBACE.

Riserba ad altro tempo

Gl’ avgurj, Emilia: è ancor sospeso il nodo.

EMILIA.

Io non l’intendo, e parmi

Il vostro amore inusitato, e nuovo.

ARBACE.

(Anch’io poco l’intendo; e pur lo provo)

E in ogni core

Diverso amore.

Chi pena, ed ama

Senza speranza;

Dell’ incostanza

Chi si compiace:

Questo vuol guerra,

Quello vuol pace;

V’ è fin che brama

La crudeltà.

Frà questi miseri

Si vivo anch’ io,

Ah non deridere

L’affanno mio:

Che forse merito

La tua pietà.

Parte.

Scena XIV.

Marzia, ed Emilia.

EMILIA.

Se manca Arbace alla promessa fede,

E Cesare l’indegno,

Che l’ha sedotto.

MARCIA.

I tuoi sospetti affrena.

E Cesare incapace

Di cotanta viltà benchè, nemico.

EMILIA.

E ragioni così. Che più diresti

Cesare amando? Ah ch’io ne temo, e parmi

Che ‘l tuo parlar lo dica.

Nò, non pensa in tal guisa una nemica.

Parte.

Scena XV.

MARZIA sola.

Ah troppo dissi, e quasi tutto Emilia

Comprese l’amor mio. Ma chi può mai

Si ben dissimular gli affetti sui,

Che gli asconda per sempre agli occhi altrui?

E van turbar la calma

Amanti al vostro core,

Se a discoprir un’ alma

Basta un sguardo ancor.

Se sia celar follia

Quel che celar non giova,

Ben lo conosce a prova

Chi sa che cosa è amor.

Fine dell’ Atto Primo.

Siegue il Ballo.

Atto Secondo

Scena Prima.

Alloggiamenti militari su le rive del fiume Bagrada con varie Isole, che comunicano fra loro per diversi Ponti.

Catone con seguito, poi Marzia, indi Arbace.

CATONE.

Romani, il vostro Duce,

Se mai sperò da voi prove di fede,

Oggi da voi le spera.

MARCIA.

Io veggio, o Padre,

Segni di guerra; e pur sperai vicina

La sospirata pace.

CATONE.

In mezzo all’ armi

Non v’è cura che basti: il solo aspetto

Di Cesare seduce i miei più fidi.

ARBACE.

Signor, già dé’ Numidi

Giunser le schiere: eccoti un nuovo pegno

Della mia fedeltà.

CATONE.

Non basta Arbace

Per togliermi i sospetti.

ARBACE.

Che l’Imeneo nel nuovo dì succeda,

Sì gran colpa non è.

CATONE.

Vio, si conceda.

Ma dentro a queste mura,

Finche Sposo di lei te non rimiro,

Cesare non ritorni.

MARCIA.

(Oh Dei!)

ARBACE.

(Respiro.)

Scena II.

Fulvio, e detti.

FULVIO.

Signor, Cesare è giunto.

MARCIA.

(Torno a sperar.)

CATONE.

Dov’ è?

FULVIO.

D’ Utica appena

Entro le mura.

ARBACE.

(Io son di nuovo in pena.)

CATONE.

Vanne Fulvio: al suo Campo

Digli che rieda: Io farò noto a lui

Quando giovi ascoltarlo.

FULVIO.

In van lo speri.

Si gran torto non soffro.

CATONE.

E che farai?

FULVIO.

Il mio dover.

CATONE.

Ma tu chi sei?

FULVIO.

Son io

Il legato di Roma.

CATONE.

E ben, di Roma

Parta il Legato.

FULVIO.

Si, ma leggi pria

Che contien questo foglio, e chi l’invia.

Fulvio da a Catone un soglio.

ARBACE.

(Marzia perchè si mesta?)

MARCIA.

Eh non scherzar, (che da sperar mi resta?)

Catone apre il foglio, e legge.

CATONE.

Il Senato a Catone. E nostra mente

Render la pace al Mondo. Ognun di noi,

I Consoli, i Tribuni, il Popol tutto,

Cesare istesso, il Dittator la vuole.

Servi al publico voto, e se ti opponi

A così giusta brama,

Suo nemico la Patria oggi ti ebiama.

FULVIO.

(Che dirà!)

Un tal comando

Improviso ti giunge.

CATONE.

E ver. Tu vanne,

E a Cesare – –

FULVIO.

Dirò, che quì l’ attendi,

Che ormai più non soggiorni.

CATONE.

Nò; gli dirai che parta, e più non torni.

FULVIO.

E’l foglio – –

CATONE.

E un foglio infame

Che concepì, che scrisse

Non la ragion, ma la viltade altrui.

FULVIO.

E Roma – –

CATONE.

E Roma

Non sta fra quelle mura, ella è per tutto

Dove ancor non è spento

Di gloria, e liberta l’ amor natio:

Son Roma i fidi miei, Roma son io.

Va, ritorna al tuo Tiranno,

Servi pur al tuo Sovrano;

Ma non dir, che sei Romano

Se non vanti libertà.

Se al tuo cor non reca affanno

D’ un vil giogo ancor lo scorno

Vergognar faratti un giorno

Il pensier di tua beltà.

Scena III.

Marzia, Arbace, e Fulvio.

FULVIO.

A tanto eccesso arriva

L’ Orgoglio di Catone?

MARCIA.

Ah Fulvio. e ancora

Non conosci il suo zelo? Ei crede –

FULVIO.

Ei creda

Pur ciò che vuol, conoscerà fra poco

Se di Romano il nome

Degnamente conservo,

E se a Cesare sono amico, o servo.

Parte.

ARBACE.

Marzia, posso una volta

Sperar pietà?

MARCIA.

Dagli occhi miei t’ invola,

Non aggiungermi affanni

Colla presenza tua. Io ti disciolgo

D’ ogni promessa.

ARBACE.

E acconsenti, ch’io possa

Libero favellar?

MARCIA.

Tutto acconsento,

Purchè le tue querele

Più non abbia a soffrir.

ARBACE.

Marzia crudele.

Parte.

Scena IV.

Marzia, poi Emilia, indi Cesare.

MARZIA.

E qual sorte è la mia! Di pena in pena

Di timore in timor passo, e non provo

Un momento di pace.

EMILIA.

Al fin partito

E Cesare da noi. Come sofferse

Quell’ Eroe si gran torto?

Che disse? Che fara? Tu lo saprai,

Tu che sei tanto alla sua gloria amica.

MARCIA.

Vanne, e chiedilo a lui, egli tel dica.

Parte.

EMILIA.

Che disprezzo, che orgoglio:

Quanto deggio soffrir; ma quì il tiranno

Vien di nuovo! che tenta?

CESARE.

A tanto eccesso

Giunse Catone? Ei brama

Che al mio Campo mi renda?

Io vò; di che m’aspetti, e si difenda.

In atto di partire.

EMILIA.

E si difenderà;

Sarò contenta

Del sangue tuo, ma non in tutto, oh Dio!

Poichè nel petto mio

Del tradito Consorte

Solo non giungi a esacerbar la morte.

Nacqui agl’ affanni in seno,

Ognor così penai,

Ne vidi un raggio mai

Per me sereno in Ciel.

Quell’ empia traditore

Pensa di lusing armi

Ma non potrà ingannarmi

Perchè lo sò infedel.

Parte.

Scena V.

Cesare, e Marzia.

CESARE.

Partì al fine: d’ aletto l’ire atroci

Puoi serbar nel sen, ch’io non le temo.

Del mio bene mi spiace

Solo il tormento, ma che far poss’io,

Se il Padre è l’ostinato? Eccola oh Dio!

MARCIA.

Cesare dove vai?

CESARE.

Io riedo al Campo.

Da Catone schernito in questo giorno.

MARCIA.

Oimè! pace una volta;

Fine all’ire, e alle stragi.

CESARE.

Sitibondo

Sol di sangue è Catone, ei vuol che parta.

MARCIA.

Ti piaca:

Sei sdegnato a ragion, ma con ragione

Il Padre dubitò de’ suoi sospetti,

M’ è nota la cagion, tutto saprai.

CESARE.

Ma che far posso?

Scena VI.

Fulvio, e detti.

FULVIO.

Ormai

Consolati, Signor, la tua fortuna

Degna è d’invidia: ad ascoltarti al fine

Scende Catone. Io di favor si grande

La novella ti reco.

CESARE.

E così presto

Si cangiò di pensiero?

FULVIO.

Aspramente assentì: quasi da lui

Tu dipendessi, e la comun speranza.

CESARE.

Che fiero cor, che indomita costanza!

(E tanto ho da soffrir?) Ah Marzia –

MARCIA.

Io dunque

A moverti a pietà non son bastante?

CESARE.

(Quanto costa al mio cor l’esser amante)

FULVIO.

(Ha vinto amor.)

CESARE.

Per poco ti allontana.

FULVIO.

Vuò a riveder le squadre.

Parte.

CESARE.

Fa quel che vuoi. Marzia, di nuovo al Padre

Vuò chieder pace, e se soffrir conviene

Nuovamente il suo orgoglio,

Ie soffrirò fintanto,

Che di giovargli possa averne il vanto.

MARCIA.

Sì, Cesare mio ben

(Vuò dirlo ancora a dispetto del fato)

Soffri, che lo vedrai mio ben placato.

Se ti è caro l’ amor mio,

Se mi brami a te fedele,

Deh mi salva il Genitor.

CESARE.

Cara, sai che sol desio

Di non essergli crudele:

Cara, sai ch’ io l’ amo ancor.

MARCIA.

Sì, mio ben, in te sol spero.

CESARE.

Spera pur, sarò sincero.

CESARE, MARCIA.

Secondate amiche stelle

L’innocente nostro amor.

Partono.

Scena VII.

Camera con sedili.

Catone, indi Marzia.

CATONE.

Si vuole ad onta mia

Che Cesare s’ ascolti?

L’ ascolterò; ma in faccia

Agli uomîni, ed ai Numi io mi protesto

Che da tutti costretto

Mi riduco a soffrirlo, e con mio affanno

Debole io son per non parer tiranno.

MARCIA.

Oh di quante speranze

Questo giorno è cagion! Da due si grandi

Arbitri della Terra

Incerto il Mondo, e curioso pende;

E da voi pace, o guerra

O servitude, o libertade attende.

CATONE.

Inutil cura.

MARZIA.

Or viene

Guardando verso la scena.

Cesere a te.

CATONE.

Lasciami seco.

MARZIA.

(Oh Dei!

Per pietà secondate i voti miei.)

Parte.

Scena VIII.

Cesare, e detto.

CATONE.

Cesare, a me son troppo

Preziosi í momenti, e qui non voglio

Perdergli in ascoltarti:

O stringi tutto in poche note, o parti.

Siede.

CESARE.

T’appaghero. Ad ogni costo io voglio

Siede.

Pace con te: tu scegli i patti, io sono

Ad accettargli accinto,

Come faria col Vincitor il vinto.

(Or che dirà?)

CATONE.

Tanto offerisci?

CESARE.

E tanto

Adempirò, che dubitar non posso

D’ un’ ingiusta richiesta.

CATONE.

Giustissima sarà. Lascia dell’ armi

L’ usurpato comando: il grado eccelso

Di Dittator deponi: e come reo

Rendi in carcere angusto

Alla Patria ragion de’ tuoi misfatti.

Questi, se pace vuoi, saranno i patti.

CESARE.

Ed io dovrei – –

CATONE.

Di rimaner oppresso

Non dubitar, che allora

Sarò tuo difensore.

CESARE.

(E foffro ancora!)

Tu sol non basti: io so quanti nemici

Con gli eventi felici

M’irritò la mia sorte, onde potrei

I giorni miei sagrificare in vano.

CATONE.

Ami tanto la vita, e sei Romano?

S’ alza.

CESARE.

Ferma, Catone.

CATONE.

E vano

Quanto puoi dirmi.

CESARE.

Un sol momento aspetta

Altre offerte io farò.

CATONE.

Parla, e t’ affretta.

Torna a sedere.

CESARE.

(Quanto sopporto!) Il combattuto acquisto

Dell’ impero del Mondo, il tardo frutto

De’ miei sudori, de perigli miei,

Se meco in pace sei

Dividerò con te.

CATONE.

Si, perchè poi

Diviso ancor fra noi

Di tante colpe tue fosse il rossore.

CESARE.

Perchè fra noi sicura

Rimanga l’ amistà, darò di sposo

La destra a Marzia.

CATONE.

Alla mia figlia?

CESARE.

A lei.

CATONE.

Ah prima degli Dei

Piombi sopra di me tutto lo sdegno;

E a proposte si ree – –

CESARE.

Taci una volta:

S’ alzano.

Hai cimentato assai

La tolleranza mia.

In atto di partire.

Scena IX.

Marzia, e detti.

MARZIA.

Cesare, e dove?

CESARE.

Al Campo.

MARCIA.

Oh Dio t’ arresta.

Questa è la pace?

A Catone.

E questa

L’ amistà sospirata?

A Cesare.

CESARE.

Il Padre accusa:

Egli vuol guerra.

MARCIA.

Ah Genitor.

CATONE.

T’ accheta.

Di costui non parlar.

MARCIA.

Cesare.

CESARE.

Ho troppo

Tollerato fin’ora: quasi con lui

Vile mi resi. Addio –

In atto di partire.

MARCIA.

Fermati.

CATONE.

E lascia

Che s’involi al mio sguardo.

MARCIA.

Ah nò, placate

Ormai l’ire ostinate. Ah più non cada

Al figlio, che l’uccise, il Padre accanto.

Basti alfin tanto sangue, e tanto pianto.

CATONE.

Non basta a lui.

CESARE.

Non basta a me? Se vuoi,

A Catone.

V’ è tempo ancor: pongo in oblio le offese

E la tua scelta attendo.

Chiedimi guerra, o pace,

Sodisfatto sarai.

CATONE.

Guerra! guerra mi piace.

CESARE.

E guerra avrai.

Se in Campo armato

Vuoi cimentarmi,

Vieni: che ‘l fato

Frà l’ ire, e l’ armi,

La gran contesa

Deciderà.

Delle tue logrime,

A Marzia.

Del tuo dolore

Accusa il barbaro

Tuo Genitore:

Il Cor di Cesare

Colpa non bà.

Parte.

Scena X.

Catone, e Marzia, indi Emilia.

MARCIA.

Ah Signor che facesti? Ecco in periglio

La tua, la nostra vita.

CATONE.

Il viver mio

Non fia tua cura, a te pensai.

EMILIA.

Qual via

D’ uscir da queste mura

Cinte d’ assedio?

CATONE.

In solitaria parte

A me noto è l’ingresfo

Di sotterranea via.

EMILIA.

(Può giovarmi il saperlo.)

Scena XI.

Arbace, e detti.

ARBACE.

Signor, so che a momenti

Pugnar si deve. Imponi

Che far degg’io. Senz’aspettar l’aurora,

Ogn’ingiusto sospetto a render vano

Vengo Sposo di Marzia, ecco la mano.

(Mi vendico così.)

MARCIA.

Temo. ed ammiro

L’incostante tuo cor.

ARBACE.

D’ogni riguardo

Disciolto io sono, e la ragion tu sai.

CATONE.

Che tardi?

A Marzia.

EMILIA.

(Che farà!)

MARCIA.

(Numi, consiglio.)

CATONE.

Più non s’aspetti, a lei

Porgi, Arbace, la destra.

ARBACE.

Eccola; in dono

Il cor, la vita, il soglio

Così presento a te.

MARCIA.

Va: non ti voglio.

ARBACE.

Come!

EMILIA.

(Che ardir!)

CATONE.

Perchè?

A Marzia.

MARCIA.

Finger non giova

Tutto dirò. Mai non mi piacque Arbace

Mai no ‘l soffersi, egli può dirlo: ei chiese

Il differir le nozze

Per cenno mio: sperai che al fin più saggio

L’autorità d’un Padre

Impegnar non volesse a far soggetti

I miei liberi affetti.

Ma giacchè sazio ancora

Non è di tormentarmi, e vuol ridurmi

A un’ estremo periglio,

A un’ estremo rimedio anch’io m’ appiglio.

CATONE.

Son fuor di me, onde tant’ odio, e d’onde

Tant’ avdacia in costei?

Ad Emilia, e ad Arbace.

EMILIA.

Forse altro foco

L’accenderà.

ARBACE.

Oh Dio!

EMILIA.

Chi sa?

CATONE.

Parlate.

ARBACE.

Il rispetto – –

EMILIA.

Il decoro – –

MARCIA.

Tacete, io lo dirò. Cesare adoro.

CATONE.

Cesare?

MARCIA.

Si, perdona,

Amato Genitor.

CATONE.

Togliti indegna,

Togliti agli occhi miei.

MARCIA.

Padre –

CATONE.

Che Padre?

D’ una perfida figlia

Ch’ ogni rispetto oblia, che in abbandono

Mette il proprio dover, Padre non sono.

Dovea svenarti allora

A Marzia.

Che apristi al dì le ciglia.

Dite, vedeste ancora

Ad Emilia, e ad Arbace.

Un Padre, ed una figlia

Perfida al par di lei

Misero al par di me?

L’ira soffrir saprei

D’ ogni destin tiranno

A questo solo affanno.

Costante il cor non è.

Parte.

Scena XII.

Marzia, Emilia, e Arbace.

MARCIA.

Sarete paghi al fin. Volesti al Padre

Ad Arbace.

Vedermi in odio? Eccomi in odio. Avesti

Ad Emilia.

Desio di guerra? Eccoci in guerra. Or dite,

Che bramate di più?

ARBACE.

M’ accusi a torto

Tu mi togliesti, il sai,

La legge di tacere.

EMILIA.

Io non t’ offendo,

Se vendetta desio.

MARCIA.

Ma uniti intanto

Contro me congiurate.

Ditelo, che vi feci, anime ingrate?

So, che godendo vai

Del duol che mi tormenta;

Ma lieto non sarai,

Ad Arbace.

Ma non sarai contenta;

Ad Emilia.

Voi penerete ancor.

Nelle sventure estreme

Noi piangeremo insieme.

Tu non avrai vendetta,

Ad Emilia.

Tu non sperare amor.

Ad Arbace.

Parte.

Scena XIII.

Emilia, ed Arbace.

EMILIA.

Udisti, Arbace? Il credo appena. A tanto

Giunge dunque in costei

Un temerario amor? A tale oltraggio

Si riscuota una volta il tuo coraggio.

Scena XIV.

ARBACE solo.

L’ingiustizia, il disprezzo,

La tirannia, la crudeltà, lo sdegno

Dell’ ingrato mio ben senza lagnarmi

Tollerar io saprei. Tutte son pene

Soffribili ad un cor. Ma su le labbra

Della nemica mia sentire il nome

Del felice rival: saper che l’ama;

Udir che i pregi ella ne dica, e tanto

Mostri per lui di ardire:

Questo, questo è penar, questo è morire.

Così talor rimira

Fra le procelle, e i lampi,

Nuotar sù l’ onde, e i campi

L’afflitto agricoltor.

Geme, e si lamenta

E nel suo cor rammenta

Quanto vi sparse in vano

D’ affanno, e di sudor.

Parte.

Fine dell’ Atto Secondo.

Siegue il Ballo.

Atto Terzo

Scena Prima.

Cortile.

Cesare, e Fulvio.

CESARE.

Tutto, amico, ho tentato: Andiamo ormai

Giusto è il mio sdegno, ho tollerato assai.

In atto di partire.

FULVIO.

Ferma, tu corri a morte.

CESARE.

Perchè?

FULV.

Già su le porte

D’ Utica v’ è, chi nell’ uscir ti deve

Privar di vita.

CESARE.

E chi pensò la trama?

FULVIO.

Emilia: altro riparo

Offre la sorte.

CESARE.

E quale?

FULVIO.

Un che fra l’ armi

Milita di Catone, infino al Campo

Per incognita strada

Ti condurrà. Ti attende

D’ Iside al fonte. Egli m’è noto, a lui

Fidati pur; intanto al campo io riedo.

E per renderti più la via sicura,

Darò l’assalto alle nemiche mura.

CESARE.

E fidarsi così?

FULVIO.

Vivi sicuro.

Avran di te, che sei

La più grand’ opra lor, cura gli Dei.

La fronda

Che circonda

A’ vincitori il crine,

Sogetta alle ruine

Del folgore non è.

Compagna della cuna

Apresse la fortuna

A militar con te.

Parte.

Scena II.

Cesare, e poi Marzia.

CESARE.

Quanti aspetti la sorte

Cangia in un giorno!

MARCIA.

Ah Cesare, che fai?

Come in Utica ancor?

CESARE.

L’insidie altrui

Mi son d’inciampo.

MARCIA.

Per pietà, se m’ami,

Come parte del mio

Difendi il viver tuo: Cesare, addio.

In atto di partire.

CESARE.

Fermati, dove fuggi?

MARZIA.

Al germano, alle navi. Il Padre irato

Vuol la mia morte. (Oh Dio

Guardando intorno.

Giugesse mai.) Non m’arrestar, la fuga

Sol può salvarmi.

CESARE.

Abbandonata, e sola

Arrischiarsi così? Ne’ tuoi perigli

Seguirti io deggio.

MARCIA.

Nò; s’ è ver che m’ami,

Me non seguir, pensa a te sol, non dei

Meco venir, addio.

In atto di partire.

CESARE.

Così t’ involi?

MARCIA.

Chi sa se più ci rivedremo, e quando,

Chi sa, che’l fato rio

Non divida per sempre i nostri affetti!

CESARE.

E nell’ ultimo addio tanto ti affretti!

MARCIA.

Confusa, smarrita

Spiegarti vorrei

Che fosti – che sei –

Intendimi oh Dio!

Parlar non poss’ io,

Mi sento morir.

Fra l’ armi se mai

Di me ti rammenti,

Io voglio – tu sai –

Che pena! Gli accenti

Confonde il martir.

Parte.

Scena III.

Cesare, poi Arbace.

CESARE.

Quali insoliti moti

Al partir di costei prova il mio core!

ARBACE.

Quale ardir, qual disegno

T’ arresta ancor fra noi?

CESARE.

E tu chi sei?

ARBACE.

Non mi conosci?

CESARE.

Nò.

ARBACE.

Son tuo rivale

Nell’ armi, e nel’ amor.

CESARE.

Dunque tu sei

Il Principe Numida

Di Marzia amante, e al Genitor sì caro?

ARBACE.

Si quello io sono.

CESARE.

Ah se pur l’ ami, Arbace

La siegui, la raggiungi, ella s’ invola

Del Padre all’ ira intimorita, e sola.

ARBACE.

Dove corre?

CESARE.

Al germano.

ARBACE.

Ammiro il tuo gran cor, tu del mio bene

Al soccorso m’affretti, il tuo non curi;

E colei che t’ adora

Con generoso eccesso

Rival confidi al tuo rivale istesso.

Parte.

Scena IV.

CESARE solo.

Del rivale all’ vita

Or che Marzia abbandono, ed or che ‘l fato

Mi divide da lei, non so qual pena.

Incognita fin or m’ agita il petto,

Taci importuno affetto.

Nò, fra le cure mie luogo non hai,

Se a più nobil desio servir non sai.

Quell’ amor che poco accende

Alimenta un cor gentile;

Come l’ erbe il nuovo Aprile,

Come i fiori il primo albor.

Se tiranno poi si rende

La ragion ne sente oltraggio;

Come l’ erba al caldo raggio,

Come al gielo esposto il fior.

Parte.

Scena V.

Luogo ombroso circondato d’ Alberi con fonte d’ Iside da un lato, e dall’ altro ingresso praticabile d’ acquedotti antichi.

MARZIA sola.

Pur veggo al fine un raggio

D’ incerta luce in fra l’ orror di queste

Dubbiose vie; ma non ritrovo il varco

Gardando attorno.

Che al mar conduce. Ah se d’ uscir la via

Rivenir non sapessi – Eccola. Al lido

S’ avvede della porta.

S’affretti il piè. Ma s’io non erro il passo

Chiuso mi sembra. Oh Dei!

Pur troppo è vero: ma quali io sento

Di varie voci, e di frequenti passi

Suono indistinto? Ove n’ andrò?

S’ avvanza.

Forza è celarsi. E quando

I timori, e gli affanni

Avran fine una volta, astri tiranni.

Si nasconde.

Scena VI.

Emilia con spada nuda, e gente armata, e Marzia in disparte.

EMILIA.

E’ questa, amici, il luogo, ove dovremo

La vittima svenar. Fra pochi istanti

Cesare giungerà. Chiusa è l’ uscita

Per mio comando, onde non v’è per lui

Via di fuggir. Voi fra que’ sassi occulti

Attendete il mio cenno.

La gente di Emilia si ritira.

MARCIA.

(Ahimè che sento!)

Scena VII.

Cesare, e dette in disparte.

CESARE.

Quì il calle si dilata; ai noti segni

Questo il varco sarà. Io di mia sorte

Feci in rischio maggior più certa prova.

EMILIA.

Ma, questa volta il suo favor non giova.

Esce.

MARCIA.

(O sorte!)

CESARE.

Emilia armata!

EMILIA.

E giunto il tempo

Delle vendette mie.

CESARE.

Fulvio ha potuto

Ingannarmi così?

EMILIA.

No, dell’ inganno

Tutta la gloria è mia. Forse volevi

Che insensati gli Dei sempre i tuoi falli

Soffrissero così?

CESARE.

Alfin che chiedi?

EMILIA.

Il sangue tuo.

CESARE.

Sì lieve

Non è l’ impresa.

EMILIA.

Or lo vedremo.

MARCIA.

(Oh Dio!)

EMILIA.

Olà costui svenate.

Esce la gente d’ Emilia.

CESARE.

Prima voi caderete.

Cava la spada.

MARCIA.

Empj fermate.

CESARE.

(Marzia!)

EMILIA.

(Che veggio!)

MARCIA.

E di tradir non sente

Vergogna Emilia?

EMILIA.

E di fuggir con lui

Non ha Marzia rossore?

CESARE.

(O strani eventi!)

MARCIA.

Io con Cesare! Menti.

L’ ira del Padre ad evitar m’ insegna

Giusto timor.

Scena VIII.

Catone con spada nuda, e detti.

CATONE.

Pur ti ritrovo, indegna,

Verso Marzia.

MARCIA.

(Misera.)

CESARE.

Non temer.

Si pone avanti a Marzia.

CATONE.

Che miro!

Vedendo Cesare.

EMILIA.

O stelle!

Vedendo Catone.

CATONE.

Tu in Utica, o superbo?

A Cesare.

Tu seco, o scellerata?

A Marzia.

Voi quì senza mio cenno?

Alle genti.

Emilia armata?

Che si vuol? che si tenta?

CESARE.

La morte mia, ma con viltà.

EMILIA.

Eh s’ uccida.

A Catone.

MARZIA.

Padre pietà.

CATONE.

Deponi il brando.

A Cesare.

CESARE.

Il brando

Io non cedo così.

S’ ode di dentro rumore.

EMILIA.

Qual’ improviso

Strepito ascolto!

CATONE.

Insidia è questa. Ah prima

Ch’ altro ne avvenga, all’ onor mio si ferva.

L’ empia figlia uccidete,

Disarmate il tiranno, io vi precedo.

Alle genti.

Scena IX.

Fulvio con gente armata, e detti.

FULVIO.

Venite, amici.

EMILIA, MARZIA.

O Ciel!

CATONE.

Numi che vedo!

EMILIA.

Inutil ferro.

Getta la spada.

MARZIA.

Oh Dei!

FULVIO.

Parte di voi rimanga

Di Cesare in difesa. Emilia, addio.

EMILIA.

Va, indegno.

FULVIO.

A Roma io servo, e al dover mio.

Parte Fulvio, e restano alcune guardie con Cesare.

CESARE.

Catone, io vincitor –

CATONE.

Taci, se chiedi

Ch’io ceda il ferro, eccolo; un tuo comando

Getta la spada.

Udir non voglio.

CESARE.

Ah nò, torni al tuo fianco,

Torni l’ illustre acciar.

CATONE.

Sarebbe un peso

Vergognoso per me, quando è tuo dono.

MARCIA.

Caro Padre –

CATONE.

T’ accheta:

Il mio rosfor tu sei.

MARCIA.

Si plachi almeno

Il Cor d’ Emilia.

EMILIA.

Il chiedi in vano.

CESARE.

Amico

A Catone.

Pace pace una volta.

CATONE.

In van la speri.

MARCIA.

Ma tu che vuoi?

Ad Emilia.

EMILIA.

Viver fra gli odj, e l’ ire.

CESARE.

Ma tu che brami?

A Catone.

CATONE.

In libertà morire.

MARCIA.

Deh in vita ti serba.

A Catone.

CESARE.

Deh sgombra l’ affanno

Ad Emilia.

CATONE.

Ingrata, superba.

A Marzia.

EMILIA.

Indegno, Tiranno.

A Cesare.

CESARE.

Ma t’ offro la pace.

A Catone.

CATONE.

Il dono mi piace.

MARCIA.

Ma l’odio raffrena.

Ad Emilia.

EMILIA.

Vendetta sol voglio.

CESARE.

Che duolo!

MARCIA.

Che pena!

EMILIA.

Che fasto!

CATONE.

Che orgoglio!

CESARE, MARCIA, CATONE, EMILIA.

Più strane vicende

La sorte non bà.

MARCIA.

M’ oltraggia, m’ offende

Da se.

Il Padre sdegnato.

CESARE.

Non cangia pensìero

Verso Catone.

Quel core ostinato.

EMILIA.

Vendetta non spero.

Da se.

CATONE.

La figlia è ribelle.

Da se.

EMILIA, CATONE, CESARE, MARCIA.

Che voglian le stelle,

Quest’ alma non sà.

Partono.

Scena X.

Arbace con spada nuda, ed alcuni seguaci, indi Emilia.

ARBACE.

Dove mai l’ Idol mio,

Dove mai si celò? Compagni, amici,

Ah per pietà si cerchi,

Si diffenda il mio ben – Ma avrà già forse

Fulvio con l’ armi – Ardir, miei fidi, andiamo

Contro lo stuolo audace

A vendicarci Arbace.

Parte furioso con gli altri.

EMILIA.

Fermati Arbace

Ei non m’ ode, e mi lascia

Così incerta a penar. Numi di Roma

Assisteteci voi – ma no; voi siete

Tutti sordi per me – più non amate

Che l’ inganno, e l’ error – Che dissi! ah oppressa

Dal dolor, non ravviso omai me stessa.

Se un’ istante io m’ abbandono

All’ affanno, che mi guida,

E’ ragion ch’ io mi divida

Frà la speme, ed il timor.

E men grata (ancorchè fida)

So ben io che a voi sarei,

Se sprezzare, eterni Dei,

Io potessi il vostro amor.

Parte.

Scena XI.

Gran piazza d’armi dentro le mura di Utica, parte di dette diroccate. Campo di Cesariani fuori della Città, con padiglioni, tende, e macchine militari.

Nell’ aprirsi della Scena si vede l’ attacco sopra le mura, Arbace al di dentro, che tenta respinger Fulvio già entrato con parte de’ Cesariani dentro le mura, poi Catone in soècorso d’ Arbace, indi Cesare difendendosi da alcuni, che l’ anno assalito. I Cesariani entrano le mura, Cesare, Catone, Fulvio, ed Arbace si disviano combattendo. Siegue gran fatto d’ armi fra i due eserciti. Cade il resto delle mura, suggono i Soldati di Catone respinti: I Cesariani li seguitano, e rimasta la Scena vuota, esce di nuovo Catone con spada rotta in mano.

CATONE solo.

Vinceste, inique stelle. Ecco distrugge

Un punto sol di tante etadi e tante

Il sudor, la fatica. Ecco soggiace

Di Cesare all’ arbitrio il mondo intero.

Dunque (chi’l crederia?) per lui sudaro

I Metelli, i Scipioni? Ogni Romano

Tanto sangue versò sol per costui?

E l’ istesso Pompeo pugnò per lui?

Misera libertà, patria infelice,

Ingratissimo figlio! Altro il valore

Non ti lasciò degli Avi

Nella terra già doma

Da soggiogar, che ‘l Campidoglio, e Roma.

Ah non potrai, Tiranno,

Trionfar di Catone. E se non lice

Viver libero ancor; si vegga almeno

Nella fatal ruina

Spirar con me la libertà Latina.

In atto d’ uccidersi.

Scena XII.

Marzia da un lato, Arbace dall’ altro, e detto.

MARCIA.

Padre.

ARBACE.

Signor.

MARCIA, ARBACE.

T’ arresta.

CATONE.

Al guardo mio

Ardisci ancor di presentarti ingrata?

MARCIA.

Perdono, o Padre,

S’ inginocchia.

Caro Padre, pietà. Questa che bagna

Di lagrime il tuo piede, è pur tua figlia.

ARBACE.

Placati alfine.

CATONE.

Or senti.

Se vuoi, che l’ ombra mia vada placata

Al suo fatal soggiorno, eterna fede

Giura ad Arbace, e giura

All’ oppressore indegno

Della patria, e del mondo, eterno sdegno.

MARCIA.

(Morir mi sento.)

CATONE.

E pensi ancor? Conosco

L’ animo avverso. Ah da costei lontano

Volo a morir.

MARCIA.

Nò, Genitore: ascolta:

S’alza.

Tutto farò. Vuoi che ad Arbace io serbi

Eterna fè? La serberò. Nemica

Di Cesare mi vuoi? Dell’ odio mio

Contro lui t’ assicuro.

CATONE.

Giuralo.

MARCIA.

(Oh Dio!) Su questa man lo giuro.

Prende la mano di Catone, e la baccia.

ARBACE.

Mi fa pietade.

CATONE.

Or vieni

Fra queste braccia, e prendi

Gli ultimi amplessi miei, figlia infelice.

Son Padre alfine, e nel momento estremo

Cedi ai moti del sangue

La mia fortezza. Ah non credea lasciarti

In Africa così.

MARZIA.

Questo è dolore.

Piange.

CATONE.

Non seduca quel pianto il mio valore.

Per darvi alcun pegno

D’ affetto il mio core;

Vi lascia uno sdegno,

Vi lascia un amore;

Ma degno di voi,

Ma degno di me.

Io vissi da forte,

Più viver non lice:

Almen sia la sorte

Ai figli felice,

Se al Padre non è.

Parte.

Scena XIII.

A suono di giolivi stromenti vien portato Cesare sopra Carro trionfale formato di scudi, e d’ insegne militari, preceduto dall’ esercito vittorioso de’ Numidi, istromenti bellici, e Popolo.

Cesare, e Fulvio.

CESARE.

Il vincere, o Compagni,

Non è tutto valor: la sorte ancora

Ha parte ne’ trionfi. Il proprio vanto

Del vincitore è il moderar se stesso,

Nè incrudelir sù l’ inimico oppresso.

Conservate in Catone

L’ esempio degli Eroi

A me, alla patria, all’ universo, a voi.

FULVIO.

Cesare non temerne, e già sicura

La salvezza di lui. Corse il tuo cenno

Per le schiere fedeli.

Scena ultima.

Marzia, Emilia, e detti.

MARCIA.

Lasciatemi, o crudeli.

Verso la Scena.

Voglio del Padre mio

L’ estremo fato accompagnare anch’ io.

FULVIO.

Che fù?

CESARE.

Che ascolto!

MARCIA.

Ah quale oggetto! Ingrato

A Cesare.

Và, se di sangue hai sete, estinto mira

L’ infelice Catone. Eccelsi frutti

Del tuo valor son questi. Il più dell’opra

Ti resta ancor. Via quell’ acciaro impugna

E in faccia a queste squadre

La disperata figlia unisci al Padre.

Piange.

CESARE.

Ma come! per qual mano? –

Si trovi l’ uccisor.

EMILIA.

Lo cerchi in vano.

MARCIA.

Volontario morì. Catone oppresso

Rimase, è ver, ma da Catone istesso.

CESARE.

Roma, chi perdi!

EMILIA.

Roma

Il suo vindice avrà.

Parte.

CESARE.

Tu, Marzia, almen rammenta –

MARCIA.

Io mi rammento,

Che son per te d’ ogni speranza priva,

Orfana, desolata, e fuggitiva.

Giurai d’ odiarti; e per maggior tormento

Che un ingrato adorai pur mi rammento.

Parte.

CESARE.

Quanto perdo in un di!

FULVIO.

Quando trionfi,

Ogni perdita è lieve.

CESARE.

Ah se costar mi deve

I giorni di Catone il serto, il trono,

Repigliatevi, o Numi, il vostro dono.

Getta il lavro.

Fine dell’ Atto Terzo.

Siegue l’ultimo Ballo.